CIVILTÀ TECNOLOGICA, SFRUTTAMENTO, EMARGINAZIONE
“La fede interroga i progetti”

Convegno nazionale PO 1986

6) Terza relazione


 

PRIMA PARTE:
LA MEMORIA DELL’ESPERIENZA DEI PO

1. Dal di dentro dell’esperienza che da anni stiamo vivendo, vogliamo esprimere qualche parola di significato umano e di consonanza evangelica
– che sia atta a dare speranza agli uomini e alle donne che nei luoghi dì lavoro occupano l’ultimo posto (operai – netturbini – infermieri generici…)
– che non offenda ma “conforti” i poveri (e i miserabili) che abitano nel mondo intero
– che serva di stimolo agli uomini che esercitano il potere, posseggono la cultura e gestiscono il denaro.
E tale parola è — speriamo — interpretativa della “voce” e del “grido” di tutte le persone che guadagnano il salario con il sudore della fronte facendo un lavoro manuale (Gen, 3,19).
2. In modo sintetico ma, crediamo, sostanzialmente vero possiamo esprimere l’intenzione e la densità dell’esperienza e della fedeltà dei P.O. in questi termini:
– vivendo la condizione operaia e militando entro il Movimento Operaio, abbiamo cercato di essere fedeli agli sfruttati che anelano a maggiore giustizia
– e fedeli alla chiesa che si autodefinisce comunità dei poveri
. e fedeli a quel Gesu il Cristo, ucciso come giusto.
3. Poiché tale esperienza si svolge entro ambiti più grandi, si carica degli sviluppi e delle crisi che provengono dai riferimenti in cui è inserita e fa storia negli eventi che si susseguono entro il mondo industriale, nel M.O. e nella chiesa (o nelle chiese).
È un’esperienza vissuta da persone che vogliono essere contemporaneamente uomini operai, credenti e preti, entro realtà che hanno dimensioni e prospettive cosmiche e universali:
– l’impresa industriale e commerciale che nella multinazionalità prospetta il suo futuro,
– il M.O. che fin dall’origine si proietta nell’internazionalismo,
– la chiesa che è incaricata di dire il Vangelo a tutte le genti.
4. Non è facile descrivere in poche parole la complessità e la ricchezza di questo “essere dentro” come uomini-operai e operai-preti, sia che si considerino gli aspetti umani, sia che si valutino gli aspetti religiosi.
È vivere la fatica e la magra consolazione del lavoro operaio e scoprire la subalternità del “manovale” entro il mondo della produzione capitalistica.
È entrare nella classe operaia e nel M.O, che, cosciente di essere portatrice di un progetto di una nuova società, lotta perché si realizzi più giustizia entro l’impresa e nella società.
È scoprire una nuova cultura, appropriarsi di un ambito culturale dove “forza fisica, intelligenza e conoscenza, coscienza e cuore” si intrecciano e si impregnano: è l’impregnarsi di quella cultura, che non si accontenta della parola inconcludente e dell’opera libresca, ma che trasforma la realtà fisica, opera nuovi rapporti tra le persone e fonda il domani.
È percorrere una via di sapienza; valida anche se faticosa, giusta anche se nasce in un mondo dove regna la legge del più forte, pacifica pur entrando in un clima di conflitto e di lotta, in una parola una via che umanizza, anche se parte da un contesto disumano.
Quasi in corrispondenza, senza integrismo, si possono richiamare gli aspetti religiosi.
Molte volte abbiamo parlato di “esodo”, e almeno due movimenti si possono evocare:
– l’uscire dal mondo religioso, sacrale e clericale per entrare nel mondo profano, laico e popolare,
– il cammino fatto in solidarietà perché si verifichi una autentica elevazione delle persone subalterne e perché si possa vivere una autentica fede (ricordando che “la gloria di Dio è l’uomo vivo”).
5. Questo “essere dentro” dura da alcuni anni (25-30 circa) e possiamo parlare di fedeltà non con tono elogiativo, né per fare la commemorazione, ma per guardare in avanti verso il futuro, vogliano o no altri percorrere la stessa strada. Tre fasi caratterizzano il tempo trascorso; le indico con il segno minimale, quello però che per l’operaio è più importante:
– ci fu il tempo in cui l’organizzazione industriale del lavoro richiamava uomini e donne entro la fabbrica e l’azienda;
– seguì il tempo in cui conservare il lavoratore manuale, specialmente nelle grandi imprese e negli ampi spazi commerciali e pubblici;
– è giunto il tempo in cui l’operaio viene espulso perché nuove tecnologie sostituiscono il lavoro umano.
Se il primo era “il tempo di cercare” e il secondo “il tempo di serbare”, oggi è giunto “il tempo di buttar via” (Qohelet 3,6): non si tratta di cenci o ferri vecchi, ma di uomini e donne che per vivere hanno solo la forza delle braccia, si tratta di proletari. Entro questo segno minimale sarebbe utile narrare l’azione del movimento operaio, studiare le strategie dell’imprenditoria nazionale e internazionale, indagare sugli interventi del potere politico, riferire le reazioni e i coinvolgimenti della chiesa.
Ma è degna di memoria storica anche la vicenda dell’uomo (o delle masse) spesso drammatica che cerca un lavoro (non l’elemosina) per guadagnarsi il salario mensile.
6. Questa introduzione pone già un dilemma: da una parte si pone l’esigenza che il lavoratore subalterno e manuale acquisisca una migliore qualità della vita, dall’altra si constata che uomini e donne sempre più numerosi cercano di avere un posto di lavoro.
Occupati e disoccupati sono due voci che, speriamo, non gridano in lotta tra loro, ma proclamano un anelito di giustizia.
A questo punto citiamo due riferimenti biblici.
Il primo dell’Antico testamento è per l’occupato: “non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno sul tuo paese; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio; così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai nel peccato” (Deuteronomio 24, 14-15).
L’altro è del Nuovo Testamento. Si tratta di una parabola che a volte è stata strumentalizzata per giustificare situazioni inique. È la parabola del padrone generoso (Matteo 20, 145), che incarna l’esperienza di un tempo sul quale incombeva lo spettro della disoccupazione (Jeremias) e vuole annunciare la generosa gratuità di Dio: “Sei invidioso perché io sono buono?”. Non è l’invidia verso i salariati manuali che risolve il problema della disoccupazione, ma la fede nella gratuità che dona e urge la solidarietà dei poveri.


 

SECONDA PARTE: UN’ESPERIENZA CHE
DEVE ESSERE SOTTOPOSTA A DISCERNIMENTO SAPIENZIALE E SPIRITUALE

1.

Il cammino “umile” che per necessità percorrono gli operai nell’industria, nel commercio e nelle strutture pubbliche, è sottoposto a una serie di eventi che sconvolgono la struttura produttiva, esigono una mentalità culturale creatrice, incidono sull’organizzazione della società e preannunciano una nuova civiltà. Si avvia una nuova “epoca”, che inciderà sul futuro per generazioni. Questi eventi non possono non essere valutati dai PO, che hanno sperimentato quanto la loro esperienza sia ricca di valori umani e quanto richiami la via evangelica. Altre due relazioni ne hanno evidenziato ed elaborato le prospettive e i rischi. Ora, tenendo conto della complessità delle situazioni, per cui mentre alcuni sono già introdotti in attività propria di una fase industriale di tecnologia avanzata, altri fanno un lavoro che è più vicino alla prima fase industriale, come stimolo di riflessione e di discernimento possiamo tener presenti tre serie di eventi:
– quelli che riguardano l’inizio della terza industrializzazione
– quelli che di contraccolpo accadono nel M.O.
– quei movimenti che sono nati nella società ed hanno assunto una rilevanza culturale, sociale e politica.
Questi ultimi, ricchi di istanze positive e di speranze umane, sono messi a duro confronto con i fatti che accompagnano il progetto tecnologico.
Il movimento “terzomondista”, che impressiona per il numero di persone che vivono in condizione miserabile e che penetra ormai nelle nazioni industrializzate come manodopera emigrante (clandestina o meno), vede allontanarsi la soluzione dei suoi problemi di miseria; saccheggiato nelle sue risorse scende verso un ulteriore immiserimento e, emigrando, corre il rischio di ingrandire le “sacche di povertà” che convivono nelle nazioni del primo mondo con il benessere.
Il movimento pacifista, così carico di utopia e di speranza, si scontra con un piano che ha per motore progetti di guerra e constata la diffusione di centri di morte in tutto il cosmo.
Così il movimento ecologista, pieno di venerazione per la “terra-madre”, corre il rischio di soccombere sotto la pressione di industrializzazione, che nonostante la razionalità e la tecnica cui si appella opera una distruzione selvaggia di risorse terrene, manipola i cicli biologici della vita vegetale e animale, dissemina fabbriche che possono essere focolai di morte (come Bhopal).
E per quanto riguarda un quarto movimento, quello femminista, sono sotto gli occhi di tutti le cifre e i rapporti della disoccupazione femminile, e con la “messa in crisi” dello stato sociale non ci sono prospettive dì speranza per giungere all’uguaglianza alla quale le donne aspirano.
D’altro canto questi movimenti (e altri ancora) si innervano con un movimento operaio che ha subito innegabili contraccolpi nell’avvio della terza fase industriale.
Gli strateghi del futuro ne preannunciano la fine, a meno che non si riduca a “firmare” le decisioni degli imprenditori.
Il senso del lavoro, la coscienza di classe, la solidarietà tra occupati e disoccupati, la lotta sindacale, l’unità fondata sulla condizione delle masse lavoratrici, le formazioni politiche a cui la classe operaia si indirizza, tutto è percorso da ripensamenti, da ricerca di maturazione e (grazie a Dio) da progetti di rifondazione. Sono richiami, mi pare, che riflettono l’obiettività delle altre relazioni e nella loro schematicità introducono in un contesto e in un clima dove la sapienza e l’operosità di tutti gli uomini “di buona volontà” possono incontrarsi.
Ecco allora con quale domanda possiamo interrogarci: essere operai (Cipputi, netturbino, infermiere generico…) e ancora condividere la condizione degli uomini che, lavorando, appena appena soddisfano i bisogni indispensabili dell’esistenza, è operare perché la giustizia diventi più vera (per esempio, realizzando il diritto al lavoro) rispetto a quelli che conducono una vita sull’orlo della miseria? È consolidare le fragili vittorie dei poveri, perché nella società non scatti inesorabile la legge del più forte e lo stato di diritto non diventi la legge della giungla?

2. Quali nuove prospettive?

Non è un esercizio cerebrale né un gioco di fantasia che spinge ad indicare nuovi atteggiamenti culturali e descrive nuove prospettive, ma è un tentativo di scoprire che “spirito” agita il mondo, di intuire come gli uomini (i dotti e gli ignoranti, i credenti e gli atei) si atteggiano di fronte agli eventi che succedono o che essi stessi provocano, di leggere come la chiesa sappia “rendere conto della propria speranza” nello svolgersi della storia.
a) Una ripresa di sapienza qoeletica?
Forse non interessa richiamare il fascino irresistibile della sapienza di tutti i tempi e di tutte le civiltà, che descrive la vita umana come fragile filo d’erba che dissecca in una giornata di sole, un fiore che si dischiude all’alba e appassisce al tramonto, a un leggero soffio che nessuna potenza può trattenere.
Potrebbe essere più utile richiamare qualche filone del contesto culturale attuale, quello che si interessa di etologia o quello del pensiero debole che analizza la caducità e riporta attenzione sulla fine e sulla morte.
L’ambiente in cui operiamo è più rude, più conflittuale, e a descriverlo mi serve questa descrizione di un canadese:

“Siamo entrati da qualche anno (1980 USA, 1984 Canada) in uno schema mentale che si può chiamare ‘liberista’. Quel che caratterizza gli anni che viviamo (…) è anzitutto il ritorno delle leggi della giungla, come schema mentale dominante. A livello dei governi questo ritorno è conservatore, in Europa come in America del Nord. Ma la sua ideologia è interamente liberista: fallimento dello stato-provvidenza, arretramento dell’intervento governativo nell’economia, contestazione di tutti i programmi di ridistribuzione delle ricchezze, ritorno all’impresa privata, deregolazione e fiducia nelle leggi del mercato” (J. Harvey, L’Eglise au Canada, in “Lumen vitae” 1, 1986, p. 21).

“Non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9): è una versione moderna di una legge antica, secondo la quale la storia delle guerre è la vittoria del più forte, e ritorna la morale della favola: “fu scritto per chi schiaccia l’innocente e la ragione se la inventa lui” (Fedro).
La razionalità è la prepotenza del più forte!… Ma brevi noticine evidenziano l’assurdità dell’inizio e dell’avvio della nuova fase tecnologica.
Il militante pacifista avverte che non la vittoria del più forte sarà la prospettiva di un progetto di una guerra futura, ma piuttosto la visione di un ‘olocausto’ che riguarda la specie umana e le condizioni atmosferiche della sopravvivenza umana,
Un uomo sapiente (dotto o indotto) osserva che questa non è una via umana, non è umanesimo: non è risveglio di coscienza etica, ma descrizione di comportamento etologico; non è riconoscimento della libera creatività e operosità, ma adeguamento istintuale; non è ricchezza di sentimento umano e di solidarietà umana. È più carico di umanità il gesto del mendicante che cerca lavoro.
Un politologo o uno storico ricorda che quella “classe” che propone un tale progetto dimentica la rivoluzione che per due secoli l’ha fatta protagonista (almeno nel primo mondo) e le idealità che ne hanno guidato la cultura e la politica, la società e la convivenza civile (uguaglianza, libertà e fraternità!). È una maschera obbrobriosa vivere la libertà dimenticando la solidarietà fraterna.
Un militante del M.O. che vive e opera nell’area occidentale, teme che la prassi di lotta sindacale sia appropriata dai dirigenti che coadiuvano i possessori del capitale e da tutti coloro che per cultura e professione si equiparano (azione corporativa che mira a conservare i propri interessi), e che il M.O. (lavoratori, classe, militanti) non sia più animato da sete di giustizia per gli operai, ma si adegui al potere.
Un credente difficilmente partecipa a una chiesa che attende di proclamare la forza rivoluzionaria delle Beatitudini quando le nazioni volgono alla decadenza, che opera là dove i progetti umani vengono meno, che sembra coltivare solo il senso di morte che in fondo accompagna l’uomo alla tomba. Una chiesa “necrofora”, come sembra la chiesa del secondo e primo mondo, non esprime l’intero messaggio di Cristo e non incontra la speranza che sale dal cuore umano, non è fedele custode della tradizione viva se culla nostalgie di ritorno al medio Evo e alla società cristiana.
Il progetto tecnologico e la logica che lo sorregge provocano dubbi e ripensamenti anche tra i suoi fautori, sia nella nazione donde parte, sia nelle altre che lo favoriscono. Le due lettere dell’episcopato statunitense sulla pace e sull’economia ne sono un indizio.
Non tutti gli imprenditori sono d’accordo che l’efficienza dell’impresa avvenga con gravi costi di disgregazione sociale.
b) Un ritorno alla apocalittica?
Ci sono sintomi sia di ordine profano che religioso che rivelano una tendenza apocalittica.
La paura di un conflitto atomico, il fallimento delle utopie e delle ideologie umane, le difficoltà di risolvere grandi problemi dell’umanità (come quello della fame), le contraddizioni interne ad ogni regime politico, l’inadeguatezza delle religioni a dare una risposta a interrogativi nuovi; tutto questo crea una aspettativa della fine.

“Dio ha deciso di intervenire per mettere fine a tutto. Verrà di nuovo il figlio dell’uomo… porterà il giudizio di Dio, esalterà i giusti e punirà i malvagi e inaugurerà il nuovo ordine delle cose. (..) Ermeneuticamente l’apocalittica costituisce un sistema che articola l’utopico dell’uomo. Il suo codice bizzarro, specialmente i segni annunciatori della fine e le sue rappresentazioni, sono al servizio di una grande speranza e gioia: il Signore verrà e sarà vittorioso. Tutto ciò traduce l’inesauribile ottimismo che è il cardine di ogni religione poiché questa è matrice di salvezza e di riconciliazione” (L. Boff, Passione di Cristo, passione del mondo, p. 81).

Questo clima reca un messaggio, ammonisce sulla serietà del tempo presente. Tuttavia la storia continua e non può essere lasciata all’incertezza del giorno della fine.
La nostra reazione può essere espressa con una serie di rifiuti, detti con tutto il rispetto che portiamo alle persone:
– no a una evangelizzazione che viene avvolta e nobilitata nella liturgia e nella preghiera
– no a una fede che si nutre del meraviglioso, del sensazionale, delle apparizioni, invece di esprimersi nella carità che soccorre sino alla fine
– no a una religiosità (popolare o dotta) che aliena e non è indicazione di un risveglio di coscienza che qualcosa tocca fare pure all’uomo
– no a una chiesa, comunità di credenti, che si stacca dal mondo degli uomini, convinta che la sua storia non sia intrecciata con le vicende di tutta l’umanità; no a una chiesa che, credendo di essere comunità di salvezza, cerca la propria sicurezza, dimenticando che non può salvarsi se non è segno di salvezza per tutti gli uomini
– no a una chiesa che, cosciente di avere la verità, si appropria del giudizio che spetta al suo Signore e condanna il mondo, il suo progresso e le sue conquiste sociali e civili.
Mi sembra che questi “no” riecheggino gli insegnamenti del Vaticano 2° e che siano ancora validi, a meno che non si imponga quella corrente di pensiero che considera il Concilio Vaticano 2° e i venti anni del postconcilio infausti e letali per la chiesa.
Non serve la critica che annichilisce i valori umani, pur terreni e storici, relativi e non assoluti: il lavoro e l’istruzione, la solidarietà e il desiderio di giustizia.
Non risolve i problemi sociali il ritorno al privato e l’abbandono al politico.
Non è qualità di vita l’edonismo (reaganiano o circense) e il vacuo mimetismo del più forte.
Non costruisce coesione sociale operare secondo il principio: l’interesse privato provoca il bene pubblico.

3. Gli eventi sospingono verso l’utopia…

…dove ‘giustizia, azione non violenta e pace si incontrano’.
È la scelta che si impone.
E questa scelta è operante nella storia piu come utopia e idealità che come politica e prassi, nei movimenti pacifista ed ecologista, non violento e femminista; e proviene da tutte le parti del mondo.
Essa porta i segni del futuro della storia e, se trasformata in politica attiva, è capace di contrastare i progetti di morte e di guerra.
Essa ancora è caratterizzata dalla laicità: è il progetto “razionale” conforme alla natura umana, è il progetto che interessa tutti gli uomini al di la delle confessioni religiose, è il progetto che sta a cuore alle masse dei poveri.
Questa scelta dà vigore ad altre utopie e idealità:
– il movimento ecologico, senza ritorni al primitivismo e all’arcaismo preindustriale, può avere venerazione per “sora nostra matre terra” e stupore “per l’aspra materia, sterile gleba, dura roccia, che cedi solo alla violenza e che ci obblighi a lavorare se vogliamo mangiare” (Teilhard); può nutrire fiducia nelle mani dell’uomo che trasforma la terra in giardino e la rende abitabile agli uomini, e manifestare gratitudine allo scienziato e al tecnico che ne scoprono le ricchezze e ne ristrutturano le finalità.
– la politica diventa scienza e arte nobile se rende possibile la giustizia e la pace, la non violenza e la rettitudine.
– la cultura e l’istruzione, la scienza e l’arte, le professioni in queste idealità non segnano disuguaglianze (tuta blu e colletti bianchi…), non si misurano su danaro che è richiesto e viene dato… più che dalla avidità sono animate da vera sensibilità umana.
– Anche l’incontrarsi tra popoli di diverse razze e religioni in questa utopia ‘laica’ trova un terreno ideale.
– Rimando al messaggio dell’AT e del NT. Per brevità (ché bisognerebbe riprendere il messaggio di Isaia profeta) cito alcune parole di un salmo: “fedeltà e verità si abbracceranno, giustizia e pace si incontreranno. La verità germoglierà sulla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo. Sì, Javé darà il bene e la nostra terra darà il suo frutto” (85, 11-13).
È il nucleo del vangelo dell’infanzia: il messaggio di pace (Lc 2,14), la vicinanza della salvezza (Mt 1,21; Lc 2,30 ss), la bontà divina dimorante sulla terra (Lc 2,32; Gv 1,14), l’unione della bontà e della fedeltà, della giustizia e della pace (Gv 1,17; Rm 5,1); è il sogno che si dischiude sul bambino nato al tempo del re Erode.

4. “I poveri li avrete sempre con voi e potete beneficarli quando vorrete” (Mc 14,7)

Riprendendo in mano il vangelo che deve essere narrato a tutte le genti vogliamo evitare un equivoco: non siamo pauperisti, non facciamo la poesia della povertà, non cantiamo la solidarietà della gente semplice.
Non vogliamo che persone e popoli vivano in povertà e tanto meno in miseria. Parafrasando un’altra parola evangelica: se ci sono uomini e donne nati in condizione di miseria, operiamo perché entrino a far parte della comunità umana (e religiosa) in pari dignità come quelli che sono nati in condizione ricca; se ci sono uomini e donne che sono ridotti poveri dall’avidità di altri, lottiamo ché sia tolta ogni oppressione; se ci sono uomini e donne che scelgono la povertà a motivo del vangelo, li seguiamo perché così indica il Povero e perché nessuno dei poveri ci faccia arrossire e vergognare davanti a lui.
Noi crediamo “in Dio che non ha fatto il mondo (…) secondo ordinamenti naturali, nei quali esistono ricchi e poveri, gente che è al corrente e gente che non sa niente di niente, uomini che dominano e altri che sono nelle mani dei dominatori” (Dorothee Sölle).
Con quali uomini e donne siamo solidali?
La solidarietà in fabbrica la possiamo esprimere con questi versi:

“Da noi in fabbrica c’è un tale che sta al posto più alto.
Da noi in fabbrica ci sono alcuni che stanno nel mezzo.
Da noi in fabbrica ci sono molti che stanno al posto più basso.
Il più alto si regge sopra le teste dei mediani.
I mediani si reggono sopra le spalle di quelli sotto.
Quelli di sotto devono reggersi sui propri piedi” (K. Kuther).

Ecco: solidali con quelli che stanno al posto più basso, perché da lì crebbe il M.O. che operò giustizia e diede dignità.
Se cambierà l’organizzazione piramidale che sottostà a questa filastrocca e la base si restringerà in una nuova organizzazione industriale, la condivisione con gli uomini che stanno al posto più basso e la stessa passione per la giustizia giustificheranno la fedeltà alla classe proletaria.
Contemporaneamente, riferendo le indicazioni di un sindacalista (Foà), d’intuito la classe operaia troverà e cercherà solidarietà:
– all’interno dell’impresa verso quelle categorie di persone che più che essere assimilate al ceto medio “subiscono nei sistemi sociali e nelle condizioni di vita che cambiano un’effettiva proletarizzazione o addirittura si trovano in realtà già in una condizione di proletariato, la quale anche se non conosciuta con questo nome, di fatto è tale da meritarlo” (Laborem exercens, n. 8)
– verso le categorie di persone che nell’impresa commerciale e nelle strutture pubbliche occupano l’ultimo posto e bramano giustizia: la solidarietà tra chi distribuisce servizi commerciali e civili e chi lavora nelle imprese industriali e agricole deve diventare una saldatura fissa del M.O.
– verso i disoccupati più che solidarietà pare che debba esserci “consanguineità”; sia verso i disoccupati (cassintegrati) che sono espulsi dall’industria sia verso i giovani che cercano un lavoro, sia verso le donne che spesso sono le prime vittime della disoccupazione.
Superando difficoltà molteplici (razziali, nazionali, sociali e occupazionali, religiose) il M.O. vivendo le istanze di solidarietà, di giustizia, non può negare l’appoggio ai lavoratori stranieri. Fa brivido sentire che uomini provenienti da diverse aree razziali e culturali si imbarcano clandestini alla ricerca di un lavoro (e scoperti, come quei kenyoti, sono gettati in pasto ai pescecani da civili navi greche), attraversano i Paesi stivati nei TIR, varcano i confini rischiando la loro vita (che sia il confine di Gorizia o quello di Ventimiglia poco importa). Il fatto poi che si adattino a qualsiasi tipo di lavoro e operino in condizioni illegali di lavoro nero non va rinfacciato a loro colpa ma stigmatizza la crudeltà di una nazione che si definisce civile.
Se volessi evocare un evento-simbolo, capace di raccogliere consonanze molteplici, mi porterei in Argentina tra le donne di Plaza de Mayo: è il pianto delle madri che piangono i loro figli e non sono più (neppure come cadavere); è il grido che chiede giustizia con insistenza, sfidando i responsabili che torturano, uccidono, fanno scomparire; è la strada pacifica, ripercorsa con perseveranza; non dico fino alla vittoria ma almeno fino a convincere il mondo che loro avevano “ragione”, erano dalla parte giusta; è la parola profetica che i vescovi pur sapendo non ebbero il coraggio di dire ad alta voce ricorrendo a tutti i mezzi (“suonando la tromba” direbbe la Scrittura); è la voce critica che fa caso di coscienza al primo mondo che rimuove la realtà e nasconde la verità per vedere in pace i mondiali di calcio; è il segno che la “debolezza” degli inermi può sconfiggere la violenza dei potenti; è rivelazione, prova che Dio ama il mondo, che evoca Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata ed evoca la Donna che stava ai piedi della croce e poi dopo l’ottavo giorno invoca lo Spirito Consolatore.


 

CONCLUSIONI: RIPRENDERE A FAR POLITICA

La spinta utopica, la complessità dei problemi e il futuro della umanità esigono una ripresa di volontà di fare politica: l’utopia diventa illusione se non si incanala nel “possibile” che si può e si deve fare, la complessità si muta in disgregazione se non viene finalizzata in un progetto di società e di civiltà e il futuro dell’umanità non può essere lasciato a quello che è chiamato l’equilibrio del terrore.
La politica è un’esigenza democratica, popolare; tutti, specie i cittadini che si trovano in ceti subalterni devono avere coscienza politica, partecipare alla realizzazione “del bene comune”, influire sulle decisioni che condizionano l’avvenire di un popolo e dell’umanità.
Alla volontà di potere di pochi può solo opporsi la determinazione solidale delle classi che sono minacciate nei loro bisogni primordiali.
Le formazioni partitiche, verso le quali si rivolgono la classe operaia e tutte le persone che aspirano a una società più giusta, hanno il compito – mi pare – di stimolare la coscienza politica popolare, di fornire strumenti culturali e informativi per l’azione politica; siano al governo o all’opposizione, devono promuovere i diritti delle classi subalterne.
La politica è la massima carità, diceva un papa.
Se c’è una speranza per gli uomini potrei terminare così:

“Togli le ombre sotto le tue palpebre
e soffermati un attimo nel tuo paese
concedi alla bocca i canti rattenuti
canta, anche male,
ma senza odio”
(H. Biel, in Poesia operaia tedesca del ‘900)

Biagio Turcato


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