“PRETIOPERAI QUALCHE ANNO DOPO”
Convegno nazionale 1989

Interventi personali (1)


 

Ieri pomeriggio mi sono sentito come bombardato dalle varie relazioni.
In esse ho colto alcuni elementi di analisi e di tensione ideale comuni, ma anche profonde divergenze, soprattutto nella interpretazione della nostra storia e sullo scenario in cui proiettarle nel futuro.
Per poter continuare a pensare ho sentito il bisogno di semplificare e sintetizzare le divergenze, pur lasciando che i vari input interagissero con quanto depositato nella mia memoria.
La segreteria nazionale mi pare abbia sottolineato e amplificato i “carismi personali” dei PO anche nel futuro e la loro incidenza viene colta “nell’essere segni, realtà simboliche”. “In questo modo essi esprimono una comunicazione e diventano un appello”.
Sulla base di questa interpretazione ci si rammarica che la CEI e le autorità vaticane non abbiano accolto e valorizzato la nostra storia e “non si vede alcuna via attraverso la quale “programmare PO per il futuro”.
lo non sottovaluto la dimensione “carisma personale”, ma mi pare che sia necessario interrogarci più a fondo sul come non sotterrare il talento della nostra storia di PO perché, dice la relazione della segreteria nazionale, i carismi personali non superano lo spazio di una vita, né possono farlo”.
I PO piemontesi invece hanno proposto un progetto compiuto di PO che ruota attorno al nodo della “missione” e del mandato di ognuno di noi e del collettivo nel suo insieme in ordine alla evangelizzazione della realtà operaia: “portare oltre il concetto dell’esserci dentro per incamminarci verso una presenza che non è solo testimonianza, ma kerigma e didaché”.
Sulla base di questa impostazione essi parlano di “necessità del ministero dei PO” nella Chiesa in rapporto con la società cristianizzata e secolare di oggi.
È una prospettiva questa rassicurante e anche consolatoria, ma, sinceramente non la intravedo ancora; mi sembra più una proiezione di un desiderio che una reale progettualità. Inoltre, ma occorrerebbe capire di più, mi sembra ancora molto ancorata al solco del clero concordatario.
La relazione dei PO del Veneto è affascinante e stimolante; la trovo vicina alla mia sensibilità e ricerca, e soprattutto vera se la confronto con la mia storia di PO. Il centro di essa mi pare sia che “la condivisione operaia rappresenta l’acido corrosivo di tutte le forme sacerdotali e ci rivela il niente del nostro sacerdozio. È nel restare nel niente di esso che possiamo vedere cosa esso dice”. “Nella miscela inedita fede / condizione operaia accade qualcosa di strano e di inedito di cui non siamo né padri né madri; non se ne può fare niente: va guardato”.
I PO veneti si fermano qui, non ricercano e non scelgono sempre un nuovo bandolo attorno a cui tentare ipotesi di lavoro in avanti da sottoporre ulteriormente all’acido corrosivo della condizione operaia.

Vorrei partire da dove sono arrivati i PO del Veneto per tentare di fare ancora un pezzo di strada.
Tre elementi mi impediscono, dopo la naturale meraviglia, di limitarmi alla contemplazione di quel qualcosa di inedito di cui sono stato soggetto creatore e contemporaneamente destinatario:
1. l’assunzione della laicità nella mia vita (dono privilegiato di grazia, potrei dire, che ha prodotto la miscela fede / condizione operaia) richiede il riconoscimento che il mondo e la storia non sono mossi da “provvidenze” varie, ma semplicemente dal senso, frammentario e provvisorio, esposto al fallimento, che gli uomini cercano di conferire loro.
Come credente posso testimoniare la mia convinzione che all’interno di questo cercare degli uomini incontro Dio; un Dio che – dice Bonhoeffer – promette misericordia e perdono a coloro che agendo così diventano peccatori”;
2. gli amici laici con cui confronto le mie scelte così hanno sintetizzato la mia (nostra?) attuale situazione:
“È necessario fare. Non si può passare una vita a giustificare quello che si è stati, e/o a trovare le motivazioni teoriche di quello che si è o si vorrebbe essere”.
È necessario fare, cioè, esponendoci al fallimento; cercare di dare, con gli altri uomini, senso al mondo e alla storia.
3. Nella condivisione e compromissione che rendono inevitabilmente incompiuta e frammentaria la mia ricerca e la mia vita, ci ha ricordato la segreteria nazionale citando Bonhoeffer, “ciò che conta è che anche una vita frammentaria lasci percepire la compiutezza di un progetto”.

Noi un progetto non l’abbiamo più e non credo che possiamo prendere quello proposto dai piemontesi. Tuttavia, valorizzando tutto quanto fin qui è stato vissuto e detto, penso possiamo fare un altro pezzo di strada nelle seguenti direzioni:
1. facendo memoria collettiva della storia di 20 e più anni di PO e consegnandola a non so chi.
I PO così come noi li avevamo pensati e progettati negli anni ‘70 non ci sono più; mi pare che, sia pure con parole e sfumature diverse, tutti ieri lo abbiamo riconosciuto.
Ogni movimento quando è “passato” dovrebbe aver individuato gli elementi da istituzionalizzare distinguendoli da quelli “coreografici” che invece devono finire con il movimento stesso. Chi non fa questa individuazione e vuole “conservare tutto” compie un errore storico e tradisce, nel momento in cui snatura, gli elementi di innovazione in elementi di conservazione.
L’articolo di Lorenzo Prezzi sul Regno, che pure è incompleto e in alcuni passaggi discutibile, può essere un punto di partenza, e le attenzioni che ultimamente sono state rivolte ai PO, compresa l’intervista al vescovo Battisti su Il Popolo, ne sottolineano l’urgenza.
2. Rivisitando il nostro modo di:

– ricercare un equilibrio umano-affettivo
– fare politica
– fare (o non fare) ricerca teologica
– elaborare (o rinnovare) elementi di spiritualità
– vivere la Chiesa e rapportarci alla Chiesa istituzionale

e ricercando elementi di progettualità da attuare e verificare nella nostra vita personale e collettiva.
È un lavoro paziente da attuare con esperti e professionisti della politica, teologia e spiritualità, salvaguardando il ruolo di sentinella che ci compete in base alle scelte di vita fatte.
(Sul ruolo di sentinella vedi le riflessioni dei PO lombardi).
Con una rigorosa analisi socio-economica della realtà che tenga conto della situazione storico-culturale in cui si pone.
È un lavoro, anche quello tipicamente ecclesiale, da effettuare dal versante laico in cui la scelta di condivisione della classe operaia ci ha posto, e con la consapevolezza dell’azione corrosiva che ogni realtà di sfruttamento e di schiavitù opera nei confronti di tutte le forme sacerdotali e sfruttamento istituzionalizzato.
Il punto di partenza è il “guardare” dei veneti, che rimane fondamentale, istitutivo, oltre che irrinunciabile, di un percorso che dovrà cercare nelle nostre esperienze di vita personali e collettive (qui si possono recuperare le preoccupazioni e le progettualità dei piemontesi e le vite vissute anche se non sempre espresse):

– le convergenze espresse e potenziarle
– le divergenze, per ragionare su di esse con spirito di ascolto e conversione fino a trovare eventuali sintesi e individuare una pluralità di percorsi, non per questo tra loro contrapposti
– le modalità di rendere comunicabili (la carne si fa parola) i livelli di elaborazione raggiunti sulla base di ipotesi concordate e assunte collettivamente
– ipotizzare elementi di progettualità da attuare e verificare nella nostra vita individuale e collettiva, sapendo che molto verosimilmente dovremo, come nel gioco dell’oca, ritornare più volte al punto di partenza.

3. I filoni attorno a cui lavorare possono essere quelli proposti dai piemontesi, lombardi, emiliani-romagnoli nel n. 7 della rivista
4. Alcune osservazioni, infine, di natura ‘organizzativa’.
Per fare il pezzo di strada proposto occorre andare oltre i limiti organizzativi che ci hanno caratterizzato nel passato e superare la paura di darci una struttura (funzionale, essenziale, non verticistica) e una disciplina collettiva a cui ogni PO convenga (i PO prepensionati, disoccupati, impegnati in attività sindacali o formative, quelli che lavorano in parrocchia e nel volontariato, quelli senza terra…).
È questa indeterminatezza di struttura che ci ha impedito una ricerca teologica, spirituale, catechetica e… politica autonoma, portando e valorizzando le specificità della nostra scelta; che ha impedito una ricerca collettiva nelle prospettive e sui passi da fare, con conseguente isolamento e individualismo nelle scelte personali dei PO, sia quelle iniziali, sia nelle modificazioni che nel tempo sono avvenute.
Sicuramente le forme organizzative che ci siamo date sono state scelte da noi e rispondono alla caratterizzazione del carisma personale del PO. Ma non ci deve sfuggire che questa scelta ha favorito in alcuni la delega ai più “carismatici”, in altri la fuga, in altri ancora l’insofferenza.
Io propongo che il convegno delinei più chiaramente il percorso da fare e che si dia una struttura capace di farci camminare. Il come lo dobbiamo vedere in questi giorni.
Sono consapevole della rigidità delle mie proposte, ma mi pare che, se in questo convegno non decidiamo, domani potrebbe essere troppo tardi.
Se quanto propongo deriva dalla incapacità o paura ad accettare per altro tempo il niente del nostro sacerdozio e della fatica che richiede il rifiuto di riciclarlo in senso concordatario, è bene che non se ne tenga conto; se invece ha qualche frammento di verità chiedo a tutti di rinunciare a un po’ dei propri impegni politico-sindacali, ecclesiali…, alla propria “donna” e ai propri “idoli”, per ricercare collettivamente gli elementi di progettualità da verificare nella vita di ogni giorno.


“Il Regno di Dio è simile a una rete gettata nel mare, la quale ha raccolto pesci di ogni genere. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si siedono e mettono nei cesti i pesci buoni; i pesci cattivi invece li buttano via…” (Mt. 13,47-48).

GIANNI CHIESA


 

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