“La polvere e i testimoni” (5)
seminario di Lonigo, 20-21 ottobre 1990
È stato scritto e conclamato che la società secolarizzata ha prodotto la “crisi del sacro”. Il tema della “crisi del sacro” ha coinvolto per almeno un ventennio la sociologia italiana in dibattiti, analisi e polemiche, ma dopo un’iniziale invidiabile carriera è andata via via appannandosi e oggi è ridotto a civetteria ideologica. Perché la crisi non è stata, né è, crisi del valore e del peso del sacro nella società contemporanea, ma piuttosto della storicità (o metastoricità) di una religiosità che ha smarrito i raccordi con la vita quotidiana.
«Non è il sacro, ma sono le religioni come strutture di potere ad essere in crisi» (Ferrarotti). Assistiamo cioè alla crisi della religiosità burocratizzata, delle “verità” garantite dall’imprimatur. D’altra parte si assiste oggi anche alla crisi del modo di fare cultura, alla crisi della razionalità delle scienze esatte, delle rigidezze dì un pensiero non creativo e non problematico. C’è dunque un’eclissi, ma non del sacro, bensì in una certa misura della religione-di-chiesa; e neppure può dirsi che oggi il sacro sembra ritornare o riprendere vigore, perché il sacro non ha mai abbandonato il suo posto; il sacro è sempre rimasto ancorato alle varie forme di legittimazione sociale e culturale in cui è venuto affermandosi, in specie nelle varie forme di potere, politico, sociale, religioso, economico, culturale. C’è al fondo della tematica della crisi o eclissi del sacro un errore diagnostìco: la confusione tra pratica religiosa e la religiosità come esperienza personale.
Il dibattito sull’eclissi del sacro ha tuttavia richiamato l’attenzione su interrogativi di fondo della società contemporanea: le conquiste della scienza e della tecnologia non hanno acquietato o soddisfatto le ragioni di esistenza dell’uomo, né annullato l’esigenza di arrivare al significato ultimo delle cose. Il sacro si colloca al di là delle transazioni del razionale; l’insufficienza della razionalità, in specie della razionalità burocratico – formale, allarga semmai lo spazio del sacro e ne asseconda la vitalità. Pertanto la critica del sacro, in termini scientifici, è insufficiente se non inconcludente; lo stesso approccio funzionale al fenomeno religioso, ridotto a fenomeno sociale come altri, è viziato da un non confessato sottinteso ideologico. La scienza ha cercato di soppiantare il sacro, di surrogarne le suggestioni, ma è scivolata sul terreno dello scientismo. Il secolo delle più clamorose conquiste scientifiche sta chiudendo con un fallimento filosofico: la ragione razionalistica ha rotto i ponti con l’«uomo in situazione», con la sola cosa che conti.
La società odierna ha dunque più che mai bisogno di aprirsi al mondo dei significati; dopo tre secoli di illuminismo i fondamentali bisogni dell’uomo risultano scoperti: la pura verità scientifica, le ideologie politiche, i risultati della tecnologia, non appagano l’«uomo dell’ascolto», l’«uomo dell’attesa». Si stanno rovesciando le prospettive coltivate da una società affannosamente secolarizzata: dopo tanta assenza di “telos” si avverte il bisogno di tornare al discorso finalistico.
In termini sociologici si può concludere che il sacro permette alla società di non perdere la propria coscienza problematica, di non privarsi della funzione sociale dell’utopia. C’è di più: nel bisogno del sacro si avverte l’esigenza di un nuovo modo di vivere, di intendere la stessa laicità; l’esigenza di una riscoperta della storia come impresa umana, la storia che non è soltanto “sottomissione all’inatteso” (Ricoeur).
In questo contesto l’esperienza dei pretioperai si afferma e si esalta come testimonianza originale collocata sul crinale del nostro tempo storico. Anche per il preteoperaio la mediazione è una mediazione in cammino, databile, misurabile; ma la mediazione del preteoperaio è oltretutto una mediazione accerchiata in conflitto con un modo datato di essere Chiesa. Il preteoperaio è il sasso nello stagno delle istituzioni e sembra suggerire un diverso status istituzionale del chierico, quasi una nuova investitura dei suoi compiti e della sua presenza. L’esperienza dei pretioperai non s’affaccia soltanto sugli interrogativi cruciali della realtà ecclesiale odierna, ma è anche esperienza di frontiera nei confronti dei problemi della società contemporanea.
In un’epoca in cui il crollo di miti e utopie, di ideologie e di poteri prevaricanti, porta l’attenzione sull’indigenza dell’uomo, derubato di valori e speranze, le ragioni dei pretioperai rappresentano tuttora un richiamo che merita di essere accolto con un interesse non burocratico. La figura tradizionale del curato resa familiare da una lunga ribadita consuetudine, può infatti non rispondere alle inquietudini e alle esitazioni di una stagione culturale che mette in causa con le risposte istituzionali tradizionali anche gli obiettivi e i propositi della stessa società civile.Il rischio è pur sempre una presenza destorificata della Chiesa, là dove il carisma d’ufficio delle istituzioni non occupa più un ruolo centrale; così come è saltata la centralità sacrale della Chiesa in una società pluralistica che favorisce la coesistenza di forme e modi diversi di vivere un comune patrimonio di fede.
Certamente sul piano quantitativo l’esperienza dei pretioperai appare oggi ridotta, ma non sono ridotti né diminuiti il peso e il significato dei problemi sollevati. Perché l’esperienza dei pretioperai si cala nella realtà di ogni specifica situazione, soprattutto – pur non ignorando le suggestioni del passato – agisce nel presente decomposto nelle fatiche di ogni giorno. Un’esperienza quindi che non si riconosce in una sacralità protetta, ma soddisfa una presenza in cui (come è stato scritto) viene esaltata e verificata una duplice fedeltà: la fedeltà alla radicalità della fede e la fedeltà alla storia.
E qui l’esperienza dei pretioperai è veramente esperienza di “cristiani di confine” che mette in discussione un sistema canonizzato di rapporti e di obiettivi aprendolo alle sollecitazioni della novità e della scoperta. La militanza dei pretioperai è così risposta missionaria là dove una religiosità tradizionale e passiva non riesce più a farsi strada, là dove questa religiosità ha smarrito ogni raccordo con la biografia e la storia della gente. In ottica sociologica va detto che l’incarnazione (storicizzazione) dell’esperienza di fede non può non ritagliarsi nello spessore corposo della vita quotidiana, nei problemi e negli interrogativi che attraversano la strada di ogni uomo.
Il mandato sacerdotale accentua in tal modo il suo carattere operativo, rivestito della diversità dei contesti e delle situazioni ecclesiali. La scelta operaia perciò non è soltanto paradigmatica in una società ad economia industriale (condivisione della condizione degli “ultimi”) o professionale (un lavoro per integrare il ministero); ma un ministero di servizio per un mutamento alle radici del rapporto Chiesa – società al di là di antichi steccati che hanno impoverito ogni creatività religiosa e consumato generose capacità di accoglienza.
Il significato della militanza del preteoperaio va dunque oggi al di là della frontiera originaria. La stessa quotidianità della fabbrica è al centro di una più vasta situazione di vita. Lo specifico italiano, ad esempio, è contrassegnato da un impoverimento etico della politica che sminuzza in un pulviscolo di contrattazioni, mediazioni e affari i problemi di fondo della convivenza sociale. Manca ogni progettualità. Si affaccia inevitabilmente la domanda di quale investimento, in tale situazione, si sia resa responsabile la società religiosa. Il preteoperaio vive alle radici, nei luoghi di lavoro, questa domanda; vive ancor più una scommessa sulle attese della gente, là dove la speranza sembra accorciarsi ogni giorno di più e svuotarsi di ogni ragione ideale. La militanza dei pretioperai è, oggi più di ieri, una provocazione profetica.