“La polvere e i testimoni” (3)
seminario di Lonigo, 20-21 ottobre 1990


 

«Non è facile – scrive Italo Mancini ad apertura del primo saggio (Forme di cristianesimo), raccolto in Tornino i volti (Genova 1989) – non è facile stabilire le forme e i modi in cui viene vissuto oggi il cristianesimo nella chiesa italiana».
Neppure, però,… è impossibile vedervi in conflitto alcune “essenze”, che sono di oggi, ma indicative di un’inclinazione di sempre. Tanto per cominciare per allusioni, facendo ricorso al grande medio della memoria culturale, diremo subito che non è difficile rintracciare un modo o una essenza che viene detta cultura della presenza e i cui antecedenti possono essere rintracciati nel cristianesimo leonino fiorito sul finire del secolo scorso…
Esiste poi un modo o un’essenza che possiamo chiamare cultura della mediazione, ossia una cultura cristiana che si preoccupa di stabilire forme di articolazione del messaggio evangelico con la storia e con la natura, con la realtà mondana in toto. Questa forma può essere fatta risalire alla lotta vittoriosa di Agostino contro il rigorismo donatista; essa è riuscita a imporre la conciliazione tra chiesa e mondo, fino all’imperium cristiano, per tutto il medioevo (e i suoi echi si ripercuotono fino ad oggi nella Democrazia Cristiana di De Gasperi e di Moro).
Esiste, infine, un terzo modo o una terza forma essenziale, basata sulla logica del paradosso e della incoordinabilità; quello che dichiara impossibile una conciliazione tra vangelo e mondo, che risultano pertanto grandezze separate, incapaci di fondersi, pena il cortocircuito, o la disperata volontà di mordere nel granito.
«Questo tipo di cristianesimo, che è il nostro, e per il quale Pascal detta la formula “far professione dei due contrari” e che Lucien Goldmann traduce nella formula di “rifiuto intramondano del mondo e appello a Dio”, corre lungo tutta la storia cristiana, talora in emergenza, talora ai margini e ghettizzata dalla cultura ufficiale. Minoritario, ma non emarginato, ha la logica multipla delle minoranze.., e non ha mai potuto essere ridotto al silenzio, come quello che esce dal cuore forte e vero del Vangelo» (pp. 35).
La stessa distinzione viene ripresa da Mancini nel saggio successivo (Evangelizzazione e cultura) per affrontare il problema delle risposte del cristianesimo alla sfida del nichilismo contemporaneo, che sembra corrodere qualsiasi possibilità di radicare il presente in un orizzonte di senso.
«Di fronte a tutto ciò – scrive – (e non è piccolo il nostro smarrimento, che va assunto con amore e senza nessun catastrofismo trattandosi, in definitiva, del volto attuale della caduta) sorge un interrogativo bruciante: con quale cristianesimo fare i conti, come continuare a credere…?» (p. 35). E risponde: non col cosiddetto cristianesimo della presenza, «che si preoccupa soprattutto del peso politico-economico e di visibilità organizzativa e culturale, che il cristianesimo può avere nel mondo; e così si dimentica della logica biblica che Dio si è scelta: stare accanto all’uomo per partecipare al suo dolore, alla sua sofferenza, ‘regnando’ dal legno della croce… Un cristianesimo fatto di altre forme di potere, di fronte a quelle del proprio Dio… un cristianesimo che invece di riconciliare disgrega, reduplica gli spazi del mondo, cercandone al suo interno uno tutto proprio, al riparo: da una parte noi e dall’altra voi, e noi aggrappati a motivi di indubitabili certezze anche nel campo dell’opinabile…»; un cristianesimo che “fa paura” e dà l’impressione che “Dio sia nemico dell’uomo”.
«Ma neppure – continua – basta quello che si va chiamando cristianesimo della mediazione: perché per mediare ci vogliono i sensi, sensi da mettere in rapporto tra loro. Oggi ci sono molti messaggi, una vera pletora dell’informazione, ma mancano i significati, ossia sensi per cui si decide, in cui ne va di noi e per i quali saremmo pronti anche a dare la vita. Se mancano i significati, come è possibile operare mediazioni? Nessuno stende un filo tra due poli inesistenti… L’attuale crisi della sensatezza chiede un costo ancora più radicale» (p. 37).
«Quello che occorre – conclude – è, come dice la Kabbalah lurianica pensando al Messia, ricomporre e ridestare i morti; con nostre parole, resuscitare i sensi, più che contrapporre (o mediare) le parti… (Il che) vuol dire fare i conti con un cristianesimo radicale, ripreso alle sue radici. Quel cristianesimo che la lettera a Diogneto chiama “paradossale” per il comune modo di pensare. Quel cristianesimo che il testamento di Francesco d’Assisi chiama vivere la forma Evangelii… che Pascal chiama agonico (“Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo”). E il giovane Lukàs diceva tragico (“Può ancora vivere l’uomo su cui si è fissato lo sguardo di Dio?”). Quel cristianesimo, infine, che Karl Barth ha inteso come ‘infinita differenza qualitativa’ (il totalmente altro di Kierkegaard)» (pp. 37-39).
«Chiamatelo come volete: cristianesimo evangelico, paradossale, agonico, terribile, tragico, radicale, impossibile dal punto umano…. ma ricordate che senza questa radicalità che rappresenti l’inaudito e lo straordinario non sorgerà un nuovo risveglio del senso. Si tratta di ripartire dall’origine pura…
Ma ci vuole coraggio. Il problema del nuovo Areopago è quello di Dio e del suo Regno… Il resto verrà da sé.
Teologia dell’esodo e del regno: teologia dell’esodo anche come uscita da un Dio zeusico e faraonico, tanto vicino al trono dei potenti da apparirne il fondamento, per incontrare il Dio di Gesù che.. ha la sua manifestazione nello splendore tenebroso della Croce…; teologia del regno, perchè Dio non va per suo conto, come un meteorite che impaura, ma sta a fianco dell’uomo per realizzare insieme i cieli e le terre nuove, quelle che già albeggiano nella Bibbia e attendono il meriggio del Maràn ahtà» (pp. 39-41).
 
È una citazione lunga e complessa, necessaria, comunque, come strumento di comprensione della nostra situazione di uomini e di credenti. Comprensione della perenne e perentoria pochezza spirituale del modello cristiano della presenza; comprensione dell’ormai compiuta consumazione delle innumerabili potenzialità dialogiche della mediazione; comprensione della sfida ultima e prima della fede come supremo paradosso: scandalo e follia dell’abbandono al Dio che ti abbandona nel mondo. (Lc. 23,46; Mc. 15,34).
Ma se la fede è questo paradosso per cui Dio è “il totalmente altro”, indimostrato e indimostrabile, gratuito e terribile, e al tempo stesso fa talmente carne con noi da essere con e per noi “in agonia fino alla fine del mondo”, da starci a fianco “per realizzare i cieli e le terre nuove”, allora che ne è della nostra testimonianza, quale è la condizione del testimone, quali sono i segni che gli indicano il cammino dell’esodo e gli preannunciano la prossimità del Regno, qual è lo stile della sua “diversa” presenza?
Ecco le corde che vengono subito toccate in me dall’incisivo discorso di Mancini e che non credo siano molto diverse da quelle che anche voi sentite vibrare, visto che avete scelto come suggestivo titolo di questo seminario “La polvere e i testimoni”.
Proverò dunque a rispondere a questi interrogativi a partire dalla mia esperienza di fede, nella coscienza della sua soggettiva parzialità, ma anche del suo sincero sforzo di dialogo con le Scritture, col passato e il presente della nostra chiesa.
 

Come si pone il problema della testimonianza?

“Voce di uno che grida nel deserto: appianate la via del Signore” (Is. 40,3); “Voce di uno che grida nel deserto: preparate… “(Mc. 1,9). È voce celeste per il profeta, che rinnova per gli ebrei dell’esilio la promessa e l’esperienza salvifica dell’esodo. È voce umana, quella di Giovanni il battezzatore, per l’evangelista che attualizza a beneficio dei cristiani del primo secolo e l’esodo e il ritorno dall’esilio e la realizzazione della promessa messianica. Viene ripetuto l’autorevole detto; viene mantenuta la fedeltà all’antica tradizione; viene resa presente la sua forza rivelativa; viene spostata la pausa nella dizione, o, se volete, la punteggiatura. Il Deutero-Isaia è buon testimone; Marco è buon testimone.
Nell’intenzione profonda, soggettiva ed oggettiva, personale e culturale, la realtà testimoniata è la stessa e quasi letterale è la corrispondenza delle parole; ma basta una loro diversa scansione, resa del resto necessaria dal diverso contesto in cui si collocano, perché il significato cambi.
Il Deutero-Isaia e Marco vivono la loro fede in contingenze storiche inconfrontabili. I tempi della storia sono irreversibili ed irriducibili; la fede, anche la stessa fede, ne porta i segni; anche Dio, il Dio biblico- cristiano, ne conosce la deriva.
La voce che nel VI secolo a. C. gridava dall’alto ciò che un intero popolo doveva operare in un metaforico deserto, è, sei secoli dopo, voce di qualcuno che grida in un deserto fisico ed è udita solo da chi fisicamente corre a farsene uditore, e impedisce così a quel suono vitale di consumarsi nell’inutilità. Oggi, dopo duemila anni che questo detto, con tutto ciò che l’accompagna, ha colpito e scolpito la vita di milioni di uomini nella forma e nel significato dell’evangelista, il suo valore semantico è ancora mutato. Chi lo usa, staccato dal contesto originario, dove per pochi del resto mantiene la sua storica pregnanza di appello ultimativo, lo usa ormai per esprimere l’esperienza della parola giusta e inascoltata. “Voce di uno che grida nel deserto”. Non sarà questa, per caso, la vera condizione del testimone cristiano di oggi? Dove lo spostamento di significato, che ancora una volta gioca sulla interpretazione metaforica del deserto, letto non più come luogo della prova e della redenzione ma come manifesto della sordità e del non ascolto, non è più dovuta ad aggiustamenti di tono, ma ad una complessiva risemantizzazione del detto; la ragione prima di tale rimetaforizzazione è da ricercarsi nella consumazione del suo senso originario, causata sia dalla saturazione per ripetizione che dall’impoverimento per falsificazione storica. «Quando in una mattina di domenica sentiamo rimbombare le vecchie campane – scrive Nietzsche in Umano troppo umano – ci chiediamo: ma è mai possibile? Ciò si fa per un ebreo morto duemila anni fa, che diceva di essere Dio».
Nietzsche ha ragione. Venti secoli sono troppi per qualsiasi promessa e per qualsiasi attesa. Ma sono troppi pochi minuti, quando nella sinagoga il figlio del falegname proclama: “Oggi si è compiuta questa Scrittura nelle vostre orecchie” e resta, agli occhi di tutti, figlio del falegname (Lc. 4,13- 22). Sono troppi tre giorni, quando sulla via di Emmaus si sperava “che fosse Lui a liberare Israele” e si è costretti ad ammettere che è irrimediabilmente disceso tra i morti (Lc.24,21-24).
Sono troppi quarant’anni per ripetere che il Regno ha avuto inizio e il Cristo è risorto, mentre la morte continua a mietere le sue vittime, i liberi vengono incarcerati, gli oppressi conoscono la deportazione e l’anno di grazia si prolunga in persecuzioni. Sono troppi se ciò che è annunciato come compiuto non si compie, prima di tutto, “nelle nostre orecchie” e la parola, gridata sul monte, nel deserto, nella sinagoga e per la strada, non si crea spazi di intelligenza dentro chi la ascolta.
È il gratuito risuonare della parola, infatti, a creare le condizioni dell’ascolto e dell’attesa, ma è nell’ascolto e nella ripetizione che essa apre la strada alla memoria vigile e alla testimonianza attiva (Rm.10,14-15).

Solo se il seme dell’annuncio del Regno viene gettato, il terreno può dare prova della sua maggiore o minore fertilità. Ma solo se il seme trova terreno disposto ad accoglierlo con generosità possiamo sperare che il Regno venga a “rendere il cento per uno” (Lc.8,4-8).
«La ricerca sull’ascolto nel N.T. – scrive Rinaldo Fabris – può suggerire alcune riflessioni per una teologia e una spiritualità della testimonianza. Una religiosità fondata sull’ascolto riconosce il primato dell’iniziativa di Dio. È un’iniziativa libera e gratuita da riconoscere ed accogliere.
L’ascolto suppone l’interlocutore che rivolge la parola, stabilisce la relazione. In questo contesto relazionale colui che parla fa appello all’attenzione, non solo esterna e momentanea. Ascoltare vuol dire prestare attenzione con il cuore in un rapporto libero e permanente. Da qui deriva quell’aspetto coinvolgente e attivo che viene trascritto nel linguaggio che gravita sulla stessa area semantica: ascoltare / obbedire / fare» (Fides ex auditu, in “Servitium”, ottobre ‘90, p. 33).
Ma non illudiamoci. Questo ascoltare, obbedire e fare, che sinteticamente indicano la testimonianza di fede con la sua fragile efficacia, non risolve il paradosso dell’annuncio evangelico, non risana la frattura tra promessa, attesa e compimento, tra beatitudine e persecuzione, tra volontà di sequela e infedeltà, mai riconciliate. Essa non la risolve e non la risana, la mantiene viva e la conserva aperta in sofferenza. Quando ho dato ragione a Nietzsche per il suo stupore circa il permanere della memoria del Cristo morto e ho illustrato il declino del detto marciano sulla vox clamans in deserto, non intendevo operare una sorta di discesa dialettica nell’abisso della negazione per risalire trionfante alla piena affermazione del significato della parola e dell’efficacia della testimonianza. Condizionato dalla formazione ermeneutica e storica, sono convinto che la nostra situazione di fede è profondamente e irrimediabilmente diversa da quella dei testimoni originali e non solo perchè sono mutati tempi e culture, ma anche e soprattutto perchè il cammino storico dell’annuncio e della testimonianza ne ha bruciato innumerevoli e suggestive possibilità.

«Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
incidendo ferite di parole
nei campi della consuetudine…
Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria,
orecchio degli uomini,
ostruito d’ortica, sapresti ascoltare?»

Così scrive la poetessa tedesca di origine ebraica Nelly Sachs (Le stelle si oscurano, in Poesie, Torino).
Analogamente Sergio Quinzio, in Dalla gola del leone, si chiede se “oltre la Croce”, che segna il culmine terreno della kenosi del Figlio, non ci sia un abbassamento e un’umiliazione che va oltre la morte: “la perdita-oblio del dolore del Signore”, rappresentata da “questi venti secoli di cristianesimo” e aggiunge: “Non è solo il Signore che muore sulla croce, ma è la sua parola che muore nella storia, fino alla più completa cancellazione” (Milano, 1980, p. 22).
Il che caratterizza e segna profondamente la nostra fede, la colloca in un tempo particolare della storia della salvezza e della rivelazione, quello in cui Dio svela la sua impotenza e l’uomo prende coscienza della propria infedeltà.
“Voce di uno che grida nel deserto”. Voce inascoltata di Dio e del suo testimone. Voce resa muta dalla nostra sordità invincibile, sperimentata e ribadita. Voce svuotata di visibile efficacia, per noi e per Dio, ora che il testimone che grida lui stesso sa di non essere in grado di garantire ascolto al suo grido, se non in forma frammentaria e incompiuta, spesso fraintesa. ”Fides ex auditu” un tempo; oggi fede fondata sulla coscienza del non ascolto.

 

Fine del testimone? Morte del cristianesimo?

Forse, ma innanzitutto abbandono di ogni sogno integralista di perfezione cristiana: imperiale o monastica, ecclesiocentrica o social-progressista, mistica od etica. Il Regno non è di questo mondo o di una sua parte e neppure del mondo ultraterreno. Il Regno è una promessa incompiuta, è come una slogatura all’anca che rende zoppi (non sterili) per sempre (Gen. 22,32), è una beatitudine vissuta nell’esperienza della sua mancanza, è un Risorto segnato dalle piaghe della sua passione, è un testimone che come Giona porta, quasi controvoglia quella salvezza, che lui stesso non riesce né a vivere né a condividere, ma che sa essere l’unica barriera al “cupio dissolvi”. Il credente – scrive Jean Pierre Jossua nell’incisivo e al tempo stesso delicato libro su La condition du témoin – deve essere visto come un uomo fermo davanti ad una soglia (porta, finestra, basso muro, cancellata, parapetto) o su una frontiera (limite, siepe, colle, confine, deserto, mare); come un uomo che veglia, spia e senza fine attende. Questa posizione liminare non dice, però, tutto ciò che lui testimonia… Tale posizione non è, infatti, specifica del credente; altri come lui tendono allo stesso modo al di là di se stessi.., e sanno che il lontano, lo sperato deve ancora venire, sempre incommensurabile rispetto ai suoi segni.
Ciò che in Gesù è stato rivelatore al grado supremo, ciò che ci ha dato da offrire come testimoni, è un certo orientamento del nostro essere a Dio che l’inscrive, come referente, nel movimento stesso che lo designa, senza però il potere di mostrarlo. È una certa maniera di stare davanti a lui, con lui, talmente inviscerata in profondità che, se talvolta essa riesce ad esprimersi, il più delle volte può solo essere presentita” (Parigi, 1984, p. 35).
Bonhoeffer parlava di “stare di fronte a Dio come se Dio non fosse”. Volendo, nel linguaggio e nel contesto del nostro discorso, potremmo dire: rendere testimonianza alla Parola nella coscienza della nostra infedeltà, che è sì dato teologico e storico salvifico emergente, specifico e portante della nostra storica condizione spirituale, ma che non è esegeticamente e teologicamente infondato.
Anzi, se possiamo parlare di questo stare infedelmente nella fede non come apostasia o agnosticismo ma come ultimo, fragile resto di perseveranza, è perché questo nostro stare si àncora ad un’autentica possibilità di sequela, già aperta ed operante nelle origini. È perché l’intero annuncio profetico, l’intera linea teologica deuteronomista e sapienziale appare ai nostri occhi costruita sulla rilettura della storia salvifica a partire dagli effetti che sulla fedeltà di Dio ha l’infedeltà di Israele e sull’infedeltà di Israele la fedeltà di Dio.
È perché l’intera storia della Chiesa e dei suoi interni movimenti di riforma può essere interpretata come un cammino di ricerca della fedeltà nella continua presa di coscienza della storica e concreta infedeltà. È perché lo stesso annuncio evangelico, nella narrazione marciana, ad esempio, è tutto costruito sul contrappunto tra il canto fermo della fedeltà di Gesù alla sua missione e il controcanto dell’infedeltà e dell’incomprensione degli avversari, delle folle, non meno che dei discepoli. Se Giovanni è “voce che grida nel deserto”, Gesù è uomo di Dio che vede riconosciuta la sua provenienza solo dai demoni e da Pietro; da quest’ultimo, però, secondo un’ottica trionfalistica e deformante che ne fa il più pericoloso tra i satana tentatori.

Non c’è grande manifestazione del potere messianico di Gesù che non resti oscura, incompresa o fraintesa dai suoi. Non c’è parabola che non richieda chiarimenti; non c’è miracolo che non abbia testimoni ciechi e sordi; non c’è insegnamento che non venga disatteso. Anche quando, fino all’ultimo, i suoi lo seguono, lo seguono per rinnegano.
Eppure, tutto avviene in presenza di astanti ammirati e stupefatti, di discepoli che lo amano profondamente, non sanno convincersi ad abbandonarlo e, dopo la morte, mostrano attaccamento pietoso ed affettuoso ai suoi resti.
La fine del vangelo di Marco, quella che prescinde dalla conclusione canonica, aggiunta per completamento, forse necessario ma non chiarificatore, è folgorante.
Le donne, fedelissime tra tutti, sono venute al sepolcro, vedono la tomba vuota, ricevono il messaggio dell’angelo: “Gesù il crocefisso è risorto. Non è qui… Dite ai discepoli… che vi precederà in Galilea”; ma non sanno far fronte alla novità inaudita. Fuggono, e “non dicono niente a nessuno, perchè hanno paura” (Mc. 16, 6-8).
Che altro poteva scrivere un evangelista per enunciare l’indicibilità del suo messaggio, per esprimere l’incredibilità della fede? La fuga, il timore, forse l’incredulità, certo il silenzio delle testimoni rendono testimonianza veridica a quanto non può umanamente essere configurato come vero.
La grandezza dell’opera di Dio getta luce nel cuore dell’umana incapacità di accoglierla e l’umana incapacità di accoglierla, che apertamente riconosce se stessa, è lo stoppino fumigante che permette alla luce della parola di brillare nelle tenebre. Che ne sarebbe della straordinaria efficacia dei racconti della resurrezione senza le donne di Marco, mute per lo stupore e la paura, senza lo scoraggiamento e la lentezza a capire dei pellegrini di Emmaus (Lc.24,31), senza l’esterrefatta incredulità dei discepoli di Luca (Lc.24,36-42), senza l’ostinata diffidenza di Tommaso (Gv. 20)? Che ne sarebbe della fresca novità dell’insegnamento del Nazareno senza la polemica con scribi e farisei, senza l’incomprensione dei familiari e il fraintendimento dei discepoli?
Nell’«Evangelo di Gesù il Cristo, figlio di Dio» non ci sono solo gli atti e i detti salvifici del “prediletto”, ci sono anche gli uomini con tutto il loro carico di imperfezioni e di insofferenze, di generosità confusa e di frustranti piccinerie, ci sono gli ebrei e ci sono i samaritani, ci sono sacerdoti e pubblicani, ci sono profetesse e prostitute, ci sono i demoni e c’è Giuda, ci sono asini e porci, alberi e pietre, laghi e monti, villaggi e città, monete e bastoni. Tutti coinvolti nell’unico evento-racconto.
Non si tratta di strumenti od oggetti usati da Dio come simboli o metafore del suo “essere altro”; si tratta di luoghi narrativi e teologici che racchiudono la Parola, che sono la Parola, la portano, ne sono investiti, trasfigurati, consustanziati fino a diventare nell’insieme quel Vangelo che deve essere predicato “ad ogni creatura” e che rende “belli” i piedi di coloro che portano il (suo) lieto annuncio”. (Mc.16,15; Rm.10,15).
La solidarietà dell’uomo fa dunque parte dell’evento-rivelazione almeno tanto quanto il parlare di Dio; è anzi la premessa indispensabile alla forza risanatrice della grazia (la felix culpa della teologia francescana medioevale?).
Così la fedeltà non può che emergere misurandosi con l’infedeltà. E ciò è vero non solo prima ma anche dopo il dono dello Spirito, che rende credenti gli increduli, apre gli occhi a chi non sa vedere, rende fecondi gli ammutoliti e ancora una volta conferma che la fede e la testimonianza non si fondano sulla perfetta sequela e sull’evidenza del miracolo, ma sulla perseveranza di Dio e sullo stupore dubbioso dell’uomo.

È un grave rischio di ogni rinascita evangelica e di ogni radicale proposta di ritorno alle origini quello di prendere a modello la comunità primitiva, confrontandosi non con la sua concreta realtà ma col suo ideale, quasi essa rappresentasse uno storico momento esemplare e perduto di realizzazione nella fede e nelle opere del messaggio evangelico. Non lo era.
Convinti della messianicità di Gesù e della sua vittoria sulla morte, i discepoli continuano ad avere idee poco chiare e contraddittorie sulla portata della sua azione salvifica e della loro missione.
La titubanza di Pietro nei confronti dei convertiti pagani, il conflitto con Paolo, il compromesso di Gerusalemme ne sono esempi lampanti (At.10-11; At.15; Gal.2). E altrettanto vale per la prassi comunitaria ed etica. La narrazione della nascita del diaconato ci dice che l’uso, poco prima esaltato, della comunione dei beni è ben lontano dal realizzarsi (At.6,1-2). La narrazione degli episodi di Anania e di Simon Mago ha una chiara funzione dissuasiva nei confronti di chi, già allora, tentava di sottrarsi alla comunione dei beni e di trarre profitto personale dai doni spirituali (At.5,1-11;8,9-24).
Nelle lettere di Paolo vediamo all’opera una continua ricerca di orientamento dottrinale ed etico, che ci dà la misura della impressione nella fede e della confusione nei costumi. La stessa pratica eucaristica rischia, fin dal I secolo, di tradursi in egoistica e frantumante fruizione del sangue e del corpo di Cristo. E non solo per i seguaci pagani di Paolo, nella caotica e corrotta Corinto, ma persino per quelli giudeo-cristiani di Giacomo, assai più assuefatti al rispetto del culto e della legge (I Cor. Il, 17-35; Gc. 2, 1-4).
Eppure Paolo si rivolge sempre ai suoi interlocutori, sbandati e spesso fedifraghi, come a “coloro che sono stati santificati in Cristo” (1Cor.1, 2), come ai “Santi che sono in…” (2Cor.1,1;Fil.1,1;Col.1, 1); Giacomo scrive alle “dodici tribù disperse per il mondo” (Gc.1,1); Pietro ai “fedeli… eletti secondo la prescienza di Dio” (1Pt.1,1); così pressapoco fanno Giovanni e Giuda.
Scrivono per correggere errori di fede e di vita, oltre che per insegnare, testimoniare, ringraziare, sostenere, ma non cessano mai di riconoscere che in quelle comunità disperse, incerte, confuse e peccatrici, è all’opera Dio con la sua grazia, e che l’amore fedele di Gesù, spinto fino al sacrificio della croce, brilla nell’infedeltà dei suoi discepoli.

Oggi, che ci presentiamo ad inaugurare il terzo millennio di storia cristiana, dobbiamo prendere compiutamente coscienza che questa difficoltà di incarnare il messaggio evangelico, di dare radici estese e chiome frondose alla grande pianta del Regno, si perpetua nel tempo e che il seme resta seme senza moltiplicare il suo frutto.
Oggi si impone con urgenza, contro ogni trionfalismo istituzionale e contro ogni radicalismo elitario, un profondo ripensamento sul significato del rapporto tra fedeltà di Dio e infedeltà dell’uomo nella rivelazione cristiana. La riflessione sulla Scrittura, con la lunga storia di Israele e la breve storia della comunità cristiana delle origini, la riflessione sul passato della chiesa e sul nostro presente ci impediscono ormai di separare nelle vicende della rivelazione di Dio e dell’umana recezione un filone della fedeltà e un filone dell’infedeltà, un grande, facile e visibile cammino dell’errore e un difficile, nascosto, sottile sentiero della verità. Sempre l’infedeltà è nata dalla ricerca di fedeltà e la fedeltà dalla conversione dell’infedele.
Il movimento farisaico, che rappresenta nel Nuovo Testamento l’assolutizzazione formalistica della legge, è nato dal salutare bisogno di salvare la legge e la fede d’Israele dal settarismo qumranico e dall’integrazione ellenistica.
Il temporalismo spirituale del monachesimo feudale, che deprezza il mondo e al tempo stesso teorizza la sua sottomissione al potere degli uomini di Dio, è figlio legittimo del radicalismo anacoretico e protobenedettino in fuga dalla temporalizzazione del cristianesimo tardo- imperiale.
La stessa magnifica esperienza francescana, che coniuga mitezza, povertà e purezza evangelica, non ci mette più di un secolo a degenerare in lotta, ricchezza, potere ed inquisizione.
Non ci sarà, per caso, un lontano bisogno di perfezione e di fedeltà cristiana nel nostro deludente e conformistico cristianesimo gerarchico e concordatario? Non c’è nessun pericolo di illusorio purismo in noi che ne denunciamo la distanza dagli ideali evangelici e la compromissione mondana?
Mi rendo conto che questo discorso può essere utilizzato per sparare bordate qualunquistiche contro ogni impegno di riforma e rinnovamento ecclesiale e non ecclesiale. Non è questo il suo spirito e la sua sostanza, che sta nella presa di coscienza della storica imperfezione della chiesa, della necessaria tolleranza di fronte al pluralismo delle strade nel cammino di fede.

È il mito della sempre più perfetta rispondenza della chiesa alla volontà del suo fondatore che si sarebbe progressivamente realizzata nella storia che si oppone ad ogni ricerca di maggiore fedeltà. È la trasformazione del detto di Matteo, “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (16,18), da assicurazione limite contro la caduta nella piena apostasia a surrettizia garanzia di “infallibilità”, a condannare la chiesa quasi all’irreformabilità, e non già l’ammissione della sua debolezza. e della relatività umana di ogni sforzo di essere “lievito” e “sale” del Regno.
“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mt. 9,13), dice Gesù a chi critica la sua presenza accanto a pubblicani e prostitute. E “giusti” non sono coloro che sono senza colpe e senza errori, ma quelli che tali si credono. E “peccatori” non sono coloro che sbagliano sicuri di sé , ma coloro che si arrovellano nella propria incapacità di uscire dall’errore.
E’ impossibile rovesciare la parabola del fariseo e del pubblicano senza rovesciarne gli esiti in un modo speculare.
Se facciamo dire al pubblicano: «Ti ringrazio Signore che mi hai fatto peccatore perchè così son degno di salvezza, invece di farmi tronfio e dannato come il fariseo!», otteniamo subito di fariseizzarlo.
Come l’uomo dell’istituzione non può fare della propria conformità alla prassi ecclesiastica un merito di fronte a Dio, senza condannarsi, così l’uomo, che si mette o è messo ai margini, non è per questo nella giustizia. L’uno e l’altro vivranno della fede, che è innanzitutto coscienza della propria infedeltà. Coscienza, cioè, di essere non l’uomo del Regno ma uomo che ha bisogno, attende e invoca il Regno.

Del resto l’atteggiamento di fondo che Gesù chiede al credente di fare suo per essere pronto alla salvezza è “amare Dio e il prossimo”, perchè il “resto segue” (Mc.12,29ss.) e l’azione umana che egli lega più strettamente ed esplicitamente ad una conforme risposta di Dio è “il rimettere agli altri i debiti” (Mt.6,12).
Il “dare da mangiare, da bere…”, è azione di tale umana e naturale pienezza, che chi fa, fa e deve fare, senza cercarci motivazioni teologiche, anche se Dio è lì eminentemente presente (Mt.25,31-46). Amare Dio e il prossimo, non giudicare, rimettere agli altri i loro debiti nei nostri confronti, riconoscersi bisognosi di salvezza, sono i veri nodi su cui deve confrontarsi il testimone che fonda la sua testimonianza sulla coscienza della propria infedeltà e che sa che tale infedeltà lo coinvolge nel destino di debolezza e fragilità dell’azione di Dio nella storia.
Non ci sono strade, che portino alla scoperta di un cristianesimo più puro, che non passino per questa forca caudina dell’umiliazione dell’essere credente e più in generale dell’essere.
Infatti questa apertura alla debolezza e all’incompiutezza del Regno, che abbiamo sperimentato nell’incapacità storica del cristianesimo di incarnare il messaggio, su su fino agli apostoli, giù giù fino a noi, si accompagna ed è espressione del destino di debolezza e incompiutezza dell’essere intramondano dell’uomo, del suo essere creaturale e ontologico, non meno che del suo essere scritturale e teologico. L’infedeltà dell’uomo a Dio non è meno certa e conosciuta ormai dell’infedeltà dell’uomo alla terra e a se stesso.
Se come cristiani sappiamo di non sapere amare Dio e il prossimo, come uomini sappiamo di non sapere amare; se come cristiani sperimentiamo di non poterci “giustificare” senza grazia, come uomini sperimentiamo di non poter operare con scienza e coscienza la nostra salvezza etica e storica; se come cristiani siamo incerti e dubbiosi nella fede, come uomini abbiamo del tutto perduto la forza di muoverci in direzione della verità.
Per questo non resta forse che riorientarsi all’azione e alla speranza ritornando al manifesto della rivelazione cristiana, a quel discorso della montagna che con le sue beatitudini, i suoi schiaffi, le sue guance, i suoi mantelli e le sue tuniche, le sue miglia percorse in compagnia poco gradita, insegna a vivere secolarmente il paradosso del Regno nel suo contrario mondano e insegna a vederne i segni nelle condizioni umane meno pertinenti alla sua pienezza: il crocefisso, innanzitutto, ma poi i sofferenti, coloro che chiedono giustizia e cercano la pace, chi lascia la sicurezza della casa e della famiglia, abbandona i beni e vive l’eunuchia non come valori perenni del Regno, che sarebbe supremo masochismo, ma come inesausto appello alla sua venuta risanatrice.
Così potremmo ben dire che tra i segni che oggi il testimone deve evidenziare agli occhi degli uomini, stanno queste tre post-moderne beatitudini: beati coloro che sanno di non sapere amare, perchè saranno amati per primi; beati quelli che si riconoscono ingiusti e impenitenti, perchè senza fare penitenza saranno giustificati; beati gli orfani del vero, perchè colui che è via, sarà per essi vita, chi è verità sarà luce nelle tenebre.

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Ecco infine, poche notazioni sullo stile della testimonianza, liberamente riprese dal citato scritto di J. P. Jossua.
– “Lo stato di perfezione non esiste”. La scelta radicale, religiosa o laica che sia, come specifico ed esclusivo segno del Regno, è illusione e inganno. La sola consacrazione a Dio è quella della fede operosa, è la testimonianza che viene dal nostro essere cristiani semplicemente, umanamente, interamente.
– La pretesa di fare i testimoni di professione è un pericolo pubblico e privato. Se testimoniare diventa lo scopo della nostra vita, finiremo presto per abitare le formule invece delle situazioni esistenziali. Pretenderemo di sapere tutto di tutti e di Dio, prima ancora di aver ascoltato e vissuto. Finiremo così col distruggere tutto ciò che incontriamo per obbligarlo a diventare come pretendiamo che sia.

– Chi testimonia non creda di dover rendere testimonianza alle sue qualità, al suo stile di vita, alle sue scelte. Se tutto ciò ha efficacia, ha efficacia come segno indiretto dell’amore libero di Dio, suscitatore di infinite e diverse risposte. Il frutto della testimonianza non può essere orientato, non sta nelle nostre mani, è imprevedibile e sovrabbondante.
– Il valore della testimonianza del prete e del religioso non dipende dalla condizione del suo “stato”, ma dalla limpidezza della sua persona. Tuttavia chi non trova ascolto come prete o religioso, non creda di diventare buon testimonio spogliandosi del suo “stato”. Non sta lì il problema. Tutto si gioca sul credito cristiano della vita, per noi. E per Dio? Dio ha la cura dell’uomo, del suo amore, non della sua difesa.
– Spesso finiamo con l’imporci dei sacrifici per ragioni che ci sfuggono ma che amiamo ammantare di abiti virtuosi e, ciò che è peggio, volentieri troviamo validissime anche per imporre sacrifici analoghi ad altri. Caso tipico, le limitazioni imposte all’esercizio della sessualità dalla disciplina e dalla morale cattolica, che, a causa di un’interpretazione spiritualista e dualista dell’uomo, hanno assunto valore di testimonianza cristiana sovradeterminata da motivi psicologici. “Se ci accade, per caso, di aver superato tali proibizioni, affettive, legali o ideali, non sottovalutiamo questi stessi blocchi negli altri, potremmo scandalizzare la loro fede con tutta la forza dei loro complessi. Non sopravvalutiamoli neppure, però, come potremmo avere segreto interesse a fare, perchè contribuiremmo a perpetuare una menzogna sociale.
“Ci sono dunque molti che testimoniano per gli altri, credenti e no, semplicemente perchè sono lì ed eventualmente perché parlano. Alcuni sono animati dal desiderio di testimoniare e al proposito riflettono, senza credersi più convincenti per questo. Altri sono chiamati ad un servizio pastorale nella chiesa, senza essere né più né meno testimoni dei loro fratelli, ma aiutano a far nascere e a crescere la testimonianza di ognuno. Altri ancora sentono la vocazione imperiosa a testimoniare opportune, importune. Rendiamo grazie al loro affaticarsi, anche se non sono questi i tempi di gridare ai crocicchi. La testimonianza è una mano dolce, una briglia leggera…” (pp. 106-107).

 

Aldo Bodrato


 

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