Lonigo (VI), 20-21 ottobre 1990
Seminario promosso dai PO del Veneto


 

Chi volesse dal di fuori semplificare le nostre posizioni in un indirizzo collettivo considerando i pretioperai italiani come rami di un unico albero, dovrebbe pur rendersi conto che il suo tronco è ricoperto di assai ruvida e scagliata scorza. Forse derivata anche da esposizioni sempre troppo prolungate al gelo invernale della solitudine e della marginalità. Certo di spessore tale da impedire l’identificazione dei cento rivoli in cui scorre la linfa della vita di ciascuno di noi. Solo i frutti racconteranno quanto queste nostre storie fanno parte di un unica storia.

La segreteria nazionale



«Signore, che io veda il tuo volto
attraverso
la polvere sollevata dai tuoi testimoni» (Anonimo)

Note introduttive

Questi sintetici appunti introduttivi hanno semplicemente lo scopo di mettere a fuoco il senso e i contenuti del Seminario, che intende riflettere attorno al dualismo: storia/trascendenza. Esso si colloca come “voce” nel vasto panorama di ricerche e confronti che, particolarmente in questi ultimi mesi, hanno caratterizzato la vita della chiesa in Italia, tutta protesa a ridefinire il suo ruolo evangelizzante, alla soglia, come si ama dire, del terzo millennio.
Il Seminario, che pure è frutto di due anni di studio dei preti operai del Veneto, non è un Seminario sui preti operai, ma su alcune domande radicali che nascono dalla condizione concreta di chi (come il prete operaio) vive il sacerdozio al di fuori della gestione del sacro, vedendo il problema “dall’altra parte”, dalla parte dei compagni di lavoro che conoscono prevalentemente il fenomeno religioso come consumo di servizi sociali (dall’educazione dei figli all’organizzazione del tempo libero, dall’assistenza ai marginali alla valorizzazione della festa…) e di beni sociali, di cui fanno parte anche l’interpretazione della storia, il senso del vivere e del morire.
È quindi un Seminario solo casualmente organizzato dai preti operai, che sentono di dare voce a quanti intendono fare riferimento alla parola del Vangelo, senza che essa, per una lettura superficiale della sua assolutezza, sfugga ai traumi della storia, ma anche senza che dalle mutevoli scelte umane essa sia catturata.
È quindi un Seminario aperto a tutti.
Il permanere del credente all’interno degli egoismi dei singoli e dei gruppi nella ricerca di soluzioni a volte disperate al problema del vivere dignitoso e della sopravvivenza, accanto alla convinzione che il regno di Salvezza è già operante all’interno delle vicende umane, ci spinge a far chiarezza e distinzione tra il piano della fede e quello della politica.

Laicità della politica, apoliticità della fede

«Ha raggiunto ai nostri giorni una certa compiutezza il movimento, iniziatosi verso il XIII secolo, che aveva come obiettivo l’autonomia dell’uomo (intendo per autonomia la scoperta di leggi in base alle quali il mondo vive e basta a se stesso, nella vita sociale e politica). L’uomo ha imparato a cavarsela da solo in tutte le questioni importanti, senza ricorrere alla “ipotesi di lavoro: Dio”. Nell’ambito genericamente umano, come in quello scientifico, “Dio” è respinto sempre più lontano dalla vita, perde terreno. Assurdi, scadenti e non cristiani ritengo gli attacchi dell’apologetica cristiana al mondo diventato adulto, quando tenta di convincerlo che non potrebbe vivere senza il tutore “Dio”» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, trad. it., Milano 1969, pagg. 245/246).
Le parole di Bonhoeffer, scritte nel 1944, indicano con chiarezza uno degli elementi caratterizzanti la cultura moderna: la conquista della laicità della scienza. Sono pagine lontane, quelle del teologo protestante, ma, anche se le abbiamo lette e rilette in questi anni, e nonostante che in Europa sia oggi caduta ogni pretesa egemonica delle varie ideologie, non resta forse ancora difficile pensare alla politica in termini di laicità, “come se Dio non ci fosse”?
La politica, come determinazione di modelli praticabili di convivenza, è sempre esigenza di risposte concrete a problemi concreti, deve manifestarsi attraverso un linguaggio preciso e comprensibile, perfettamente omologato. I suoi presupposti sono basati su elementi concordati, verificabili, i suoi obiettivi sono prevedibili e ponderabili. Sembra ormai antistorico pretendere che i progetti e i comportamenti politici vengano giustificati da assoluti di alcun tipo. La politica, in quanto scienza umana, deve essere liberata da “Dio”.
La fede si muove su un piano diverso. Essa è coscienza di una chiamata, della voce che mi fa dire: Dio c’è. È essenzialmente l’incontro con l’altro, con il trascendente. E’ un “vedere”, un essere protagonisti dell’Evento. Certo è il cogliere in mezzo alla indecifrabilità di un passaggio appena percepito, come Elia sul monte Oreb (I Re 19, 13), lo scorgere tra la nebbia (…Poi venne una nube, ed essi non Io videro più, Atti 1, 9).
Si ha l’impressione che non esistano termini univoci per definire l’incontro. Però non è forse necessario fare un vuoto intorno all’evento, per non impedire che esso si realizzi in un clima di totale libertà?
Si ha l’impressione che le questioni religiose appartengano ad una sfera di realtà che sfuggono al razionale.
È come dire che la fede è apolitica.
Tale espressione sintetizza due concetti:
a) Se si concorda sulla laicità della scienza è conseguente affermare che la fede è ininfluente nel mondo delle analisi politiche e della progettualità. Ciò ovviamente non significa che un credente non possa attingere dalla fede delle motivazioni al suo impegno storico. Cìò non significa neppure che la spinta utopica, escatologica, non permetta di leggere in chiave religiosa alcuni “segni” all’interno delle vicende umane. Ciò significa piuttosto che non è ipotizzabile nessuna traduzione politica della fede, né di destra, né di sinistra.
Ma come liberare Dio dalla politica per restituirlo alla sua assolutezza, per evitare che la fede sia un pretesto per la teorizzazione di un mondo cristiano, di un mondo “così come lo vuole Dio”?
Se oggi viviamo il sabato biblico, il giorno del riposo di Dio, è affidato all’uomo il compito di lavorare per la costruzione di una città dell’uomo, la meno violenta possibile. Alle nostre mani, spesso deboli, e alle nostr( intelligenze, spesso impazzite, il compito dei destini terreni, fintantoché Lui non ritorni.
b) Ma apoliticità della fede significa anche, e coerentemente, che non si deve confondere il linguaggio religioso con quello politico. La pretesa di tradurre il “rivelato” in termini organici ad una visione perfetta del mondo, dell’uomo e della storia, cade nel terreno della scienza, poiché di essa deve utilizzare i termini omologati e le categorie comunicative (soggetto oggetto, spazio/tempo). Ma scivolando sul terreno della scienza, non si ridurrebbe il fatto religioso ad un insieme di cose sacre da prendere o lasciare, funzionalissimo ai fin troppo noti binomi prete/laico, maestro, discepolo, sacro/profano, ma relegante il credente al ruolo di puro “consumatore”? Non verrebbe in tal modo impedita ogni possibilità di accesso all’incontro con Dio?
«Guai a voi, ipocriti, maestri della legge e farisei! Voi che chiudete agli uomini la porta del regno di Dio: non entrate voi e non lasciate entrare quelli che vorrebbero accedervi» (Mt. 23,13). Quanto abbiamo riflettuto su questa minaccia di Cristo, che oltretutto vieta allo stesso prete ogni possibile velleità di porsi come “nuovo” prete di una chiesa “nuova”.
L’esperienza della fede è sostanzialmente indefinibile, poiché Dio è infallibile, colui di cui non si può pronunciare il nome. “Ma non è solo Dio che è infallibile, lo è anche l’esperienza religiosa in quanto tale. Non ha la complessità divisibile delle altre cose, per cui ad ogni elemento possa corrispondere una parola” (L. Sartori, Esodo, n. 4/86).
Quando Saulo, sulla via di Damasco, viene raggiunto dalla Luce, incapace di esprimere l’accaduto, rimane “cieco” per alcuni giorni, anche dopo aver aperto gli occhi (Atti 9,8)… Pietro, Giacomo e Giovanni, nel monte della Trasfigurazione, dopo aver contemplato la Visione, ricevono l’ordine del Maestro: Non parlate con nessuno (Mt. 17,9)
È chiaro che se nel linguaggio “politico” è nécessaria la precisione dei termini, sul terreno dell’esperienza di fede non è necessaria, né possibile.

Il testimone

Qualcuno, in tempi antichi ha ricevuto il Messaggio, dai profeti fino agli apostoli, che hanno incontrato il Cristo, “la Parola definitiva del Padre”. Questi sono i primi e fondamentali testimoni della nostra fede. La loro esperienza è stata parlata, scritta, tradotta, interpretata… ed infine ridotta a “catechismo”, ad uso e consumo del “popolo di Dio”.
La distanza tra l’Evento e l’oggi è abissale, e non solo dal punto di vista cronologico. Al magistero ecclesiastico è ora affidata la trasmissione di quell’Evento nel presupposto che il “ministro ordinato” sia, a sua volta, diretto testimone dell’incontro con Dio. Ma è sempre così?
La preghiera di anonimo che abbiamo scelta come titolo del Seminario è più che una frase ad effetto: “Signore, che io veda il tuo volto attraverso la polvere sollevata dai tuoi testimoni”. È possibile annunciare il Rivelato, fuori delle approssimazioni, fuori delle metafore? Solo il linguaggio metaforico permetterebbe di parlare del divino concedendo alle parole solo lo spazio eccentrico della periferia. L’Evento si darebbe come fonte esterna al mondo e ai testi che appartengono al mondo. La stessa contraddittorietà dei testi diverrebbe ricchezza: ciò che risulterebbe patologico per un discorso politico, verrebbe affermato come valore sul piano religioso, che non attira divinità e soggetto nella scena chiusa del chiaro discorso politico.
È per questo che Gesù parlava in parabole?
“Il regno di Dio è simile ad un uomo che sparge il seme nei terreno; che dorma o che vegli, di notte e dì giorno, il seme germoglia e cresce, ed egli non sa come” (Mc. 4, 26 e 27). Con quale metro si misura la libertà di Dio?
Forse al testimone è chiesto di non superare il linguaggio eccentrico delle metafore, attivando il linguaggio laterale dei testi biblici. Questi, liberati dall’obbligo di diventare premesse a politiche, potrebbero certamente aiutare il credente a intravvedere il volto del Signore in mezzo alla polvere.

La chiesa in Italia oggi

Quando il testimone evangelizza per professione, non può fare del Messaggio che un prodotto, inchiodando il soggetto credente/ascoltante ad essere puro consumatore! Il “prodotto” è costretto a definire l’indefinibile, a sacralizzare il linguaggio vivente del rapporto con Dio, a rendere “cuore” del Messaggio ciò che è solo contorno: Bibbia, sacramenti, comunità, non esauriscono l’Annuncio, anche se possono essere la polvere, la nube entro cui attenderlo.
L’impressione è che la professionalizzazione del sacerdote italiano sia ormai data per scontata, fatta salva la buona volontà di singoli che non è qui in discussione.
Il rifiuto dell’otto per mille da parte dei pretioperai, delle comunità di base e di settori non irrilevanti del laicato cattolico, non può essere tacciato di ennesimo atteggiamento contestatario per renderlo inoffensivo, ma, se pur diversamente motivato, è un ultimo grido di allarme: che ne è del Messaggio di Salvezza se viene ridotto a bene di consumo?
Poiché il prete cattolico, dopo l’operazione concordata tra Stato e Chiesa, pare ora ufficialmente relegato al ruolo di operatore nel terziario, ministro di un cristianesimo sempre più sociale, in una chiesa mondanizzata, drasticamente destinata ad offrirsi come agenzia di servizi. A questo destino, effettivo in alcuni casi, virtuale per gli altri, è possibile trovare via d’uscita?
Non sembra certo evangelicamente apprezzabile il fatto che la chiesa oggi sia stimata e considerata da tutti: dal cristiano che spesso cerca il sacro più che Dio (non è questo il terreno dell’idolatria?), all’ateo spesso bigotto che, mentre nega la Trascendenza, pretende di vivere entro il paesaggio del sacro e relega al mondo dei preti la competenza sul senso del vivere e del morire.
C’è da chiedersi seriamente che valore abbia, in questo quadro, il parlare postconciliare della chiesa come comunità piuttosto che come gerarchia, che significhi creare spazi nuovi per il laico e per i vari carismi, quando non è messo in discussione, ma sembra anzi rafforzato, il dualismo testimone professionalizzato / laico consumatore.

Evangelizzazione

Prendendo a prestito le espressioni di Italo Mancini, potremmo dire che esistono tre forme in cui viene vissuto oggi il cristianesimo nella chiesa italiana: la cultura della presenza, la cultura della mediazione, la logica del paradosso.
La cultura della presenza propone la fede visibile, l’organizzazione e l’occupazione di spazi, crea steccati tra chiesa e mondo, anzi propone un mondo alternativo, antagonista e chiuso. Questa forma di cristianesimo esige un’evangelizzazione “forte”, come colonizzazione, molto nostalgica nei confronti di una cristianità perduta.
La cultura della mediazione rifiuta l’integrismo, parte da esigenze di apertura e solidarietà. I suoi valori sono l’incarnazione della fede nella storia, la mediazione tra Vangelo e culture, la ricerca di possibili punti di contatto con altre visioni del mondo. Essa si esprime attraverso una evangelizzazione più rispettosa, disponibile, al limite, a concedere spazi di radicalità in cambio del successo mondano del cristianesimo. Ma sempre pretende di poter battezzare il mondo; di fronte al quale si propone come parola risolutiva per dare all’umanità un assetto politico stabile e pacifico.
C’è infine la forma del cristianesimo basata sulla logica del paradosso. Essa ritiene impossibile una conciliazione tra Vangelo e mondo, che risultano grandezze separate, incapaci di fondersi. Per essa la divinità, l’Evento, il religioso, devono essere rispettati nella loro santità, nella loro essenziale separatezza, non essendo catturabili dalla logica umana. Di qui la rivendicazione della duplice fedeltà: alla radicalità della fede e alla storia.
È evidente che, nell’esperienza dei pretioperai come in quella di tutti i “cristiani di confine”, è colta come più sintonica la logica del paradosso, che sembra garantire il rispetto della laicità della politica e della santità dell’Evento, che mette in discussione il ruolo del cristianesimo sociale e quindi la professionalizzazione del testimone.
E tuttavia la rivendicazione della duplice fedeltà non impedisce l’Annuncio, ma l’evangelizzazione che origina è “dolce”, estremamente povera perché rispettosa del soggetto che “coglie il soffio”, come della assoluta libertà di Colui che si svela.
Partendo dalla necessità di una profonda demanipolazione dei testi e dei segni, intende la testimonianza come la caligine entro la quale, con il volto coperto, Mosè incontra Dio (Es. 3,2 e segg.).
Quanto più deciso e preciso è il linguaggio politico, tanto più debole e sfumato deve essere quello religioso. Poiché se il cammino della fede è invocazione, ricerca, attesa, è soprattutto dono.
La fede è grazia, e l’accesso all’Evento non si realizza se non nell’incontro di due libertà: quella di Dio e quella dell’uomo.

Conclusione

I pretioperai non hanno organizzato questo Seminario per crisi di identità o per bisogno di scrivere il loro testamento. Certamente qualcuno la penserà così; qualcuno cercherà di non capire. Eppure questo seminario vuole essere un segno di speranza. L’esperienza della fedeltà alla fede nel radicamento alla storia, ci ha fatto vedere una stella.
“Il regno dei cieli è simile ad un mercante che va in cerca di pietre preziose: quando trova una perla di grande valore va, vende tutti i suoi averi e la compra” (Mt. 13,45-46). È l’urgenza di questa ricerca che spinge il preteoperaio a interrogarsi e a confrontarsi con altri compagni di strada, con coloro ai quali risuona fortemente provocatoria la domanda di Cristo: “Il Figlio dell’uomo quando tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”…
Troverà dei testimoni senza “tana”? Dei testimoni che al loro passaggio hanno saputo sollevare polvere, ma senza sostituirsi a nessuno, senza deleghe alla ricerca del volto di Dio? Troverà la gratuità di un annuncio diventato quotidiano ascolto dentro la vita?
Queste note introduttive risultano forse, al di là delle intenzioni, più assertive che problematiche. In realtà i pochi, ribaditi concetti, sono incalzati da mille interrogativi, quesiti senza fine.
Al dibattito il compito di approfondire piste di ricerca, utili a creare spazi di libertà di cui siamo espropriati (anche sul terreno religioso), noi e i nostri compagni di lavoro, uomini e donne per i quali la vita quotidiana è spesso conflitto mai chiuso, almeno nella speranza, per la difesa della propria soggettività.

Pretioperai del Veneto


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