“PARADOSSO CRISTIANO NEL CREPUSCOLO DEL XX SECOLO”
convegno promosso dalle riviste Esodo, Il Foglio, Il Gallo, Pretioperai
Salsomaggiore 23-25 aprile 1994


Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo,
come mai questo tempo (kairon) non sapete giudicarlo?
E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
(Lc.12,56-57)

Il Figlio dell’uomo, quando verrà,
troverà la fede sulla terra?
(Lc.18,8)

Questa introduzione intende offrire ai partecipanti, ai relatori ed alle riviste che gentilmente hanno aderito al nostro invito alcuni elementi utili alla conoscenza della genesi e della storia di questa iniziativa. Pur senza entrare strettamente nel merito delle tematiche che saranno affrontate nel corso di questi tre giorni, vorremmo comunicare, riportando anche ampi stralci dei documenti del lavoro preparatorio, intendimenti, interrogativi e preoccupazioni emersi durante l’iter che ci ha portato alla formulazione della proposta. Il programma ha visto la luce dopo una serie di incontri tra rappresentanti delle redazioni di Esodo, Il Foglio, Il Gallo e Pretioperai. L’articolazione dei temi proposti esprime coerentemente i punti nodali da approfondire attorno ai quali alla fine si è polarizzata la convergenza piena.
Va sottolineato che il lavoro preparatorio è stato un’esperienza molto positiva, un cammino comune di soggetti con alle spalle storie personali ed editoriali molto diverse; differenze che hanno funzionato da sinergie, una volta che da tutti è stata con convinzione decisa la promozione dell’appuntamento che ci vede qui riuniti.
Ci auguriamo di poter partecipare a nuovi appuntamenti, simili a quello che oggi inauguriamo, che nascano dalla collaborazione di altre esperienze editoriali, quali momenti di ricerca comune. Forse, con i tempi che corrono, tali incontri non sono un lusso, ma una necessità vitale per l’esercizio attivo ed efficace del dovere di prendere la parola.

 

Storia dell’iniziativa

 
 
L’idea è nata due anni or sono nel coordinamento nazionale dei PO Uno stralcio del documento inviato da Pretioperai alle tre riviste che hanno aderito all’invito rende bene il contesto nel quale è maturata la proposta:

1. Il contesto nel quale l’idea è maturata si può identificare nel percorso che ci ha condotto al convegno nazionale dei PO ‘Vangelo o evangelizzazione’ tenuto nella primavera del ‘92 (v. Pretioperai n° 19 e n°20-21) e negli stimoli, interrogativi e desiderio di approfondimento che ne sono scaturiti. Il confronto tra le riflessioni che accompagnano la nostra vita di pretioperai… ed i percorsi di altri soggetti che si esprimono attraverso lo strumento della rivista, pensiamo possano essere fecondi per tutti.
2. Inoltre i 500 anni della conquista sono stati occasione per riflettere ancora una volta sui rischi terrificanti che corre il Vangelo quando l’inevitabile forma storica dell’evangelizzazione viene associata alla conquista, conferendole dignità e presentabilità, anzi rivestendola di provvidenziale necessità divina. Ci sembra che la posta in gioco sia troppo alta per lasciare che tutto scorra senza fare il possibile perché la storia venga letta con discernimento evangelico, non con le regole della realpolitik.
3. A 30 anni dal Concilio, da tutti noi vissuto come esplosione di vitalità e creatività nella stagione della giovinezza, non possiamo dimenticare quell’Evento che ci ha profondamente segnato e che per noi PO ha rappresentato l’impulso determinante per le scelte fondamentali della nostra esistenza. Ecco, vogliamo che il processo conciliare continui e per questo ci sembra utile costruire momenti di incontro pubblici con quanti sentono il dovere di prendere la parola, rifuggendo le tentazioni dell’introversione e dell’accidia intellettuale.
4. Pensiamo che i proclami per una nuova evangelizzazione siano occasioni da cogliere per affrontare un lavoro comune che faccia venire alla luce le ambiguità che accompagnano tali messaggi. ‘Siamo convinti che l’evangelizzazione è tanto più conforme al Vangelo quanto più assume la forma dell’autoconfessione. Di questa fa parte il coraggio di assumere la propria verità storica, anche e soprattutto quella rivelatrice di infedeltà ed errori, senza occultamenti e falsificazioni della realtà (Pretioperai n° 19, p. 7). Infatti ‘senza conversione non esiste identità cristiana. La conversione è costitutiva della chiesa: le nostre confessioni non meritano la qualifica di cristiane se non nella misura in cui si aprono alle esigenze della conversione’ (Doc. Dombes, il Regno 17/91 p. 562).
“In Europa, dopo 2000 anni di cristianesimo storico, è possibile proporre una nuova evangelizzazione senza una coraggiosa autoconfessione?” (Pretioperai, n° 19, p. 9).
5. La crisi del sistema politico italiano e l’inesorabile diaspora del mondo cattolico verso il pluralismo partitico evidenziano il vuoto a cui sono destinati gli appelli della CEI quando ancora chiedono l’unità politica dei cattolici. Emerge con urgenza l’istanza di una sprovincializzazione della figura del cattolicesimo italiano: per una fede libera e liberata dal provincialismo a cui la condanna una confluenza che la renda organica alle ragioni di un partito…
6. La nostra storia di PO ci ha portato a scoprire la libertà della non professionalizzazione del nostro essere preti, ad avvertire in maniera acuta le ambiguità della situazione oggettiva del clero in regime concordatario…
7. Il tutto in una stagione sociale e politica molto pesante e che si preannuncia dura e drammatica per le classi sociali meno protette.
Con quale cristianesimo affrontare una tale stagione?
La riflessione su questi punti ci ha portato a desiderare un incontro e magari un confronto con altri che riteniamo possano essere interessati”.

Gli obiettivi della proposta venivano così sintetizzati:

1. realizzare una comunicazione attraverso uno scambio fedele alle rispettive esperienze, ed un confronto onesto tra soggetti che, tramite la rivista, prendono la parola per esprimere la riflessione critica e responsabile della fede nel contesto storico, culturale, ecclesiale italiano ed occidentale.
2. Favorire la ripresa di un attivo ed efficace esercizio dell’opinione pubblica nella chiesa improntato al coraggio ed alla libertà di manifestare e rischiare apertamente, per reagire alle forme diffuse di omologazione e di allineamento.
3. Individuare i nodi critici e le possibilità presenti nelle figure storiche assunte dal cristianesimo in Italia a 30 anni dal Vaticano II.

La scelta delle prime riviste a cui rivolgerci è stata guidata in parte dalle conoscenze personali sulle quali potevamo contare, in parte da considerazioni di ordine pratico, quali la non eccessiva distanza geografica delle persone che dovevano collaborare insieme. Si è evitato di coinvolgere da subito testate troppo sovradimensionate, rispetto al livello nostro, perché si riteneva più difficile un discorso di collegialità paritaria, parte importante del messaggio che si intendeva lanciare.
Ne è uscita una iniziativa …nordista. Ne riconosciamo i limiti. Ma onestamente riteniamo che difficilmente avremmo potuto fare di più. Ci anima la speranza che questa esperienza possa servire da volano… Siamo veramente felici della presenza delle riviste che, rispondendo al nostro invito, hanno accolto una proposta già formulata e che porteranno il loro contributo nel corso del convegno e soprattutto alla tavola rotonda che chiude il nostro incontro.

 

Ricerca comune



In un breve documento dell’aprile dello scorso anno veniva sintetizzato

il lavoro dei delegati delle riviste e inviato alle rispettive redazioni. Ci sembra utile riportarne una parte perché indica senza equivoci le intenzioni comuni, emerse da un preciso impegno di chiarificazione, ed alcuni contenuti sui quali il discorso era particolarmente insistito, parte dei quali hanno trovato spazio nella formulazione ultima del programma del convegno.

1. Non si vuole un convegno contro. L’impostazione dovrà avere un taglio propositivo.
2. L’intenzionalità che muove non si propone il raggiungimento di particolari obiettivi socio-politici.
3. L’interesse più profondo non si colloca nell’ambito strettamente ecclesiale, inteso come rapporti intra-ecclesiali.
4. Il fuoco sul quale l’attenzione si è concentrata concerne la fede…
Ecco alcune accentuazioni emerse:
a) il cristianesimo socializzandosi si è molto annacquato. La sconfitta del cristianesimo politico è anche sconfitta del cristianesimo sociale.
Problema vero è come il cristiano deve vivere il dono nella sua chiesa. Essere credente è certo una realtà, ma che vuol dire? Nell’ambito ristretto alla fede vi è un grande margine su cui lavorare. Indagare sull’autentica radice della fede cristiana.
b) Che significa evangelizzare 2000 anni dopo? Vi è (stata) una sovrapposizione tra cristianesimo politico e religioso. È possibile una nuova evangelizzazione senza una autoconfessione?
e) Sembra che la fede debba oscillare tra il disagio e la tensione idealistica. Perché una nutrita partecipazione si riesce ad organizzare attorno a situazioni sociali che hanno un carattere di urgenza, mentre il resto della vita normale non trova aggregazione significativa?
d) Nella scrittura viene rappresentato con costanza impressionante il fallimento della risposta dell’uomo al dono ed alla promessa di Dio. In particolare il vangelo di Marco sottolinea la disperazione del fallimento del cristianesimo. Di contro all’insuccesso dell’uomo nella risposta, la parola di Dio rimanda ad una ulteriorità, ad un’apertura di possibilità che genera speranza.
e) Siamo ad una svolta storica del cristianesimo. Un cristianesimo rinchiuso in sé, negatore dell’altro, è finito. Il confronto inevitabile con le culture e le religioni pone l’interrogativo sulle verità presenti al di fuori del cristianesimo storico. Si può, si deve parlare di una rivelazione anche al di fuori della tradizione biblica? Certamente si può dire che il cristianesimo storico si è troppo spesso espresso in maniera totalitaria riguardo il possesso della verità. Ma il vangelo non chiude la verità. Non la può chiudere!

Mentre i tre no e il risultano chiari nella loro connessione, appaiono più giustapposti i punti che esprimono i contenuti con i quali si tentava di dare corpo alla riflessione sulla fede. I diversi accenti, tuttavia, rappresentano in maniera adeguata il discorso in fieri che si veniva snodando, con le sottolineature che ciascuno apportava, nella ricerca di un taglio comune più preciso da dare al discorso.

 

Paradosso cristiano nel crepuscolo del XX secolo



I due passi del vangelo di Luca, riportati all’inizio, sottolineano bene quanto viene suggerito dal titolo che abbiamo voluto dare al convegno:

– il discernimento del tempo nel quale viviamo, che è tempo di grazia e di responsabilità (kairos), è un passaggio obbligato per arrivare a giudicare ed operare “ciò che è giusto” (Lc.12,56-57);
– mentre quella parola enigmatica, strana ed inquietante, del secondo testo suggerisce di non dare per scontato che la fede sarà di casa sulla terra (Lc.18,8).
A proposito del discernimento del tempo, abbiamo preferito rimanere con i piedi nel XX secolo, piuttosto che buttarlo alle spalle per fare il salto nel terzo millennio. Crediamo sia necessario fare i conti con le nostre radici, con la storia ricchissima e drammatica di questo secolo, con le domande laceranti che sono sorte dal cuore delle tragedie che si sono consumate e continuamente accadono sotto i nostri occhi, ed anche con i sogni che non sono mancati e che in qualche parte di noi non sono del tutto spenti. In questo crepuscolo, che porta il peso di una giornata lunghissima, e che ci fa sentire, quasi fisicamente, lo scivolamento verso un domani che non conosciamo, ci interroghiamo “sulle figure del cristianesimo storico nella transizione al post-moderno”. Il prof. Miccoli ci offrirà una lettura storica, mentre don Ruggieri affronterà il medesimo tema sotto il profilo teologico.
In merito al discernimento del nostro tempo ci pare utile riportare alcune sottolineature ed interrogativi che troviamo negli appunti che le singole redazioni portavano per il lavoro comune.

1. L’esperienza della fine:
• fine della modernità: la “ragione” non è riuscita a realizzare la vera democrazia, l’uomo adulto e responsabile, un mondo pacificato e felice (ha dato forse benessere – in qualche parte del mondo e a scapito di un’altra ben più consistente – ma non lo star bene);
• fine del cristianesimo come interpretazione della storia e del mondo, capace di fondare la salvezza;
• fine della chiesa che, scegliendo il ruolo politico, ha rinunciato al ruolo profetico (va riletta come estremamente attuale la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoewskij, il cui Cristo, tornato sulla terra, è condannato a morte per il bene della gente che ha bisogno di autorità, miracoli e mistero…).
2. Epoca del paradosso:
• la modernità non è in qualche modo compimento del cristianesimo? suo prodotto? Pertanto non è tranquillo il fatto che la fine della modernità consegni necessariamente la storia alla rivincita cristiana…
(“ESODO”).

Altra sottolineatura troviamo negli appunti di “ IL GALLO”: 

L’oggi: indagare il contesto mutato dopo il crollo del muro di Berlino per coglierne poi le domande che pone alla fede.
Domande:
– quali tendenze più significative affiorano dopo l’89?
– le culture, i soggetti storici, le altre religioni interrogano la fede? quali domande emergono?
– in un mondo in cammino verso un avvenire sconosciuto quali le sfide per l’uomo e quindi anche per la sua fede?

Le interrogazioni qui riportate per l’interpretazione dell’oggi, sono esempi di una pluralità di prospettive e di sguardi presenti. Il punto ove avviene la convergenza è l’intenzionalità comune, espressa in formulazioni plurime, che intende coniugare questo oggi con la fede:

• due polarità: la fede e l’oggi;
nel crogiolo dell’oggi, difficoltà e possibilità per la fede.
• credere oggi.
• con quale cristianesimo affrontare questa stagione?».

 Nella sostanza è questa la questione vitale che ci poniamo in tempi nei quali sperimentiamo da un lato tutta la povertà nostra di fronte alla “perla preziosa” (o al “granello di senape”), che sentiamo non essere nostra proprietà; e dall’altro l’impossibilità di appaltare a terzi la responsabilità di una ricerca e di un’attesa insonne.
Va aggiunto che la scelta operata nel titolo del convegno “paradosso cristiano…” esprime un’opzione significativa proprio in riferimento ad una connotazione ritenuta decisiva per la fede stessa. Per dirla con I. Mancini: “cristianesimo paradossale è quella forma caratterizzata dalla categoria dell’impossibilità di fronte alle normali possibilità dell’uomo, sia di natura teoretica come di natura morale come di natura estetica” (Tornino i volti, Genova, Marietti, p. 21).
Per offrire un quadro sintetico, ma sufficiente nell’economia di questa introduzione, riportiamo un passo della relazione di apertura della segreteria dei PO veneti al seminario La polvere e i testimoni, tenuto a Lonigo nel 1990:

Prendendo a prestito le espressioni di I. Mancini, potremmo dire che esistono tre forme in cui viene vissuto oggi il cristianesimo nella chiesa italiana: la cultura della presenza, la cultura della mediazione, la logica del paradosso.
La cultura della presenza propone la fede visibile, l’organizzazione e l’occupazione di spazi, crea steccati tra chiesa e mondo, anzi propone un mondo alternativo, antagonista, chiuso. Questa forma di cristianesimo esige un’evangelizzazione ‘forte’, come colonizzazione, molto nostalgica nei confronti della cristianità perduta.
La cultura della mediazione rifiuta l’integrismo, parte da esigenze di apertura e solidarietà. I suoi valori sono l’incarnazione della fede nella storia, la mediazione tra Vangelo e culture, la ricerca di possibili punti di contatto con altre visioni del mondo. Essa si esprime attraverso un’evangelizzazione più rispettosa, disponibile, al limite, a concedere spazi di radicalità in cambio del successo mondano del cristianesimo. Ma sempre pretende di poter battezzare il mondo, di fronte al quale si propone come parola risolutiva per dare all’umanità un assetto politico stabile e pacifico.
C’è infine la forma del cristianesimo basata sulla logica del paradosso. Essa ritiene impossibile una conciliazione tra Vangelo e mondo, che risultano grandezze separate, incapaci di fondersi. Per essa la divinità, l’Evento, il religioso, devono essere rispettati nella loro santità, nella loro essenziale separatezza, non essendo catturabili dalla logica umana. Di qui la rivendicazione della duplice fedeltà: alla radicalità della fede e alla storia» (Pretioperai n° 16/91, pp. 11-12).

È questa terza forma a dare la nota al convegno che ci vede qui riuniti. Occorre mantenere alta e incolmabile la categoria della differenza tra due termini irriducibili e però, nello stesso tempo, si deve affermare la loro relazione ìndissolubile quale paradossale segreto del mondo, nel quale vivere opere e giorni.
Ma quanto è effettivamente praticabile una tale logica del paradosso? Se è possibile sfuggire alla tentazione della “insolente identità” (Barth) espressa dalla cultura della presenza, come è evitabile la caduta, se di caduta si tratta, nei territori della mediazione? La dimensione sociale, con la sua necessaria visibilità, espressa dalle persone che comunicano, si aggregano, si organizzano, non è per sua natura lo spazio della mediazione? Se l’Evento “tocca” il singolo nell’unicità ed irripetibilità della sua esistenza, questo “tocco” può permanere nelle relazioni, senza che declini in una necessaria degradazione? Oppure l’incontro con l’Evento e con la sua paradossalità si colloca al livello della nascita e della morte, ovvero negli spazi della solitudine, nella quale accade una nuova nascita?
Altre nuove domande possono essere aggiunte. Qui basti riportare un testo del Manzoni, citato nel nominato libro di Mancini, che conserva una tragica contemporaneità, dal quale sembra emergere che il paradosso rimane l’unica via per sfuggire all’irretimento blasfemo del “santo”, al suo consumo politico ed alla conseguente omologazione che calpesta le frontiere della differenza.

A malgrado degli sforzi di alcuni buoni e illuminati cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni del mondo, malgrado la disposizione di molti increduli stessi a riconoscere questa separazione, e a lasciare la religione almeno in pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi hanno aggiunto al simbolo. Quando la fede si presenta al popolo così accompagnata, si può mai sperare che egli si darà la pena di distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è immaginazione degli uomini?» (o.c., pp.25-26).

 

Parola e azione

 

Il compito che ci sta sempre dinanzi è proprio “distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è immaginazione degli uomini”. Al pastore Fulvio Ferrario abbiamo chiesto di introdurre il tema: “La Parola nella molteplicità delle parole”. Intendendo che la Parola ci raggiunge solo attraverso le mille parole che costituiscono il nostro linguaggio e le culture umane, col rischio di perdersi nelle foreste di simboli e di messaggi che occupano tutti gli spazi.
Si è fatto di tutto perché la verità della Parola non corresse un tale rischio. La si è presidiata con tutti i mezzi. Basta ripercorrere la storia dell’occidente. Ma quanto l’uso della forza e della disciplina possono proteggerla? Che cosa diventano le parole, e in esse la Parola, quando sono circondate da un’armatura che incute timore e soggezione?
Ci sembra di dover dire che “la cultura dell’occidente appare più vincente che rivelante: il cristianesimo che di essa è rivestito e impastato porta vistosamente i segni di questa contraddizione” (Documento-proposta per il convegno, Pretioperai, 26/94, p.78). L’ossessione per la propria identità ha portato a negare l’altro, ad aggredirlo, a sottrargli qualunque particella di verità e di valore.
È vero: “la modernità ha portato alla tolleranza religiosa”. Però non si sente tutto il limite e l’insufficienza di una tale posizione? “Che significa il pieno riconoscimento della verità presente nell’altro? Che vuol dire per il cristianesimo riconoscere la presenza di verità fuori dal cristianesimo?” (ibidem, p.78).
Solo il sospetto che l’Evento può accadere ovunque e in ciascuno, ovvero non ponendo le culture della presenza e della mediazione come pre-condizioni necessarie, può consentire la percezione di una Parola libera di avvenire in ogni piccola e frammentaria parola umana. Se rimane pieno il compito del cristiano di narrare nelle proprie parole la Parola incontrata, questo deve avvenire nella dolcezza, nell’esercizio attivo della nonviolenza.

Il discorso arriva così all’ultima relazione affidata ad Armido Rizzi:
“Testimonianza gratuita ed obbligo dell’agire etico”.
Ci sembra importante un approfondimento che tenga insieme ed articoli le due dimensioni della gratuità e dell’obbligazione. Il gesto assolutamente gratuito, in un mondo dominato dal mercato e dalla sua logica, rappresenta come la sospensione a mezz’aria di un corpo pesante, un’interruzione della legge di gravità. Un tale gesto, se accade, possiede “una forza interna che non ha nulla da dimostrare. Tanto meno ha da dimostrare la fede (questa si diffonde come il profumo dal fiore)” (ibidem, p.’79). Testimonianza gratuita: il gesto mostra perché ha una necessaria visibilità (però la sinistra non sappia… ), la parola racconta, l’intenzionalità che muove è che l’altro sia intimamente, sovranamente libero.
Sulla responsabilità dell’agire etico due brevi messaggi singolarmente vicini, pur provenendo da mondi lontani.
Il primo, di Bonhoeffer, lo troviamo in uno scritto intitolato Dieci anni dopo: un bilancio sul limitare del 1943:

Chi parla di soccombere eroicamente davanti ad un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico perché non osa levare lo sguardo al futuro: per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in questo affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene (Resistenza e Resa, 1988, p.64).

L’altro messaggio è la parola di un capo irochese:

Noi guardiamo avanti, perché uno dei primi mandati assegnati a noi, che siamo i capi, è di garantire che ogni decisione presa tenga conto della prosperità e del benessere della settima generazione a venire e questo è il fondamento per le nostre decisioni in assemblea. Ci chiediamo: la nostra decisione andrà a beneficio della settima generazione? Questa è la nostra regola (Citato da J. Rifkin, Guerre del tempo, Milano 1989, p.76).

 

Un tempo per serbare e un tempo per buttar via (Qo, 3, 6)



Le riviste presenti lunedì si incontreranno in una tavola rotonda. Due le domande:
1. Da quale cristianesimo dobbiamo congedarci alla fine di questo millennio e quali i nodi di questo congedo?
2. Le nostre responsabilità in tempi di transizione.

Con quale cristianesimo affrontare la stagione che viene?

È come se dovessimo metterci in viaggio per una terra sconosciuta. Ci accorgiamo che stiamo portando sulle spalle pesanti fardelli, con molte cose inutili e inservibili per il cammino che ci sta davanti. C’è da scegliere l’equipaggiamento giusto, con ciò che è più necessario. Sicuramente dobbiamo alleggerirci perché le energie si concentrino sui passi da compiere…
Intanto godiamoci assieme questa sosta, qui a Salsomaggiore.

Roberto Fiorini


 

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