SFIDA DEL 3° MILLENNIO
Seminario dei PO / Camaldoli 1997
Seconda relazione
MONDIALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA:
ricadute politiche, sociali e culturali
nel Nord e Sud del mondo
di Marco Cantarelli
(direttore dell’edizione italiana di ENVÍO, mensile dell’Università Centroamericana – UCA – di Managua, Nicaragua)
Vorrei premettere che (Giancarlo Ruffato mi è testimone) ho esitato molto nell’accettare il vostro invito, che pure mi ha fatto moltissimo piacere, perché per trattare il tema della mondializzazione della economia — mi e gli dicevo —, forse, era meglio invitare un economista; ed io non lo sono: quel che ho imparato di economia, Nord/Sud, problematiche dello sviluppo, modelli ecosostenibili, etc., è frutto anche di studi e ricerche, ma soprattutto di esperienze di cooperazione in Centroamerica: conoscenze, quindi, maturate sul campo, più che frutto di titoli accademici. Giancarlo ha però tanto insistito, memore di un dibattito di qualche anno fa a San Donà del Piave che a lui è rimasto impresso, anche se io conservo un vago ricordo di quanto dissi quella sera. Spero, quindi, di non deluderlo, né deludere tutti voi, che ringrazio ancora. Del resto, è vero che lasciar l’economia in mano agli economisti spesso è un guaio. Viviane Forrester, critica letteraria di Le Monde , nonché autrice di alcuni libri su argomenti artistici, mai in prece-denza si era occupata di tematiche economiche. Nel suo ultimo libro, però, L’orrore economico , ha criticato duramente la globalizzazione economica e l’apparente illogicità di una borsa che fa affari quando una multinazionale licenzia operai e, viceversa, crolla se aumentano i posti di lavoro. Il libro di Forrester ha già venduto oltre 300 mila copie: segno che la critica non è caduta nel vuoto. Ecco — è stato scritto —, ci voleva « una scrittrice… una non economista… una non politica » per parlare chiaro (Il manifesto , 22/4/97. Il libro è edito in Italia da Ponte alle Grazie, 1997).
Non ho pretese editoriali e spero solo di contribuire alla vostra riflessione. Mi è sembrato utile, in questo senso, rifarmi alla traccia di riflessione emersa da un seminario, tenutosi nel gennaio 1996 in Centroamerica, cui ho partecipato (per il testo completo della sintesi finale di questo seminario rimando a “Envío” [edizione italiana] del dicembre 1996). In tal senso, pur essendo debitore a molte persone per le opinioni qui espresse, va da sé che i limiti di quanto dirò sono soprattutto miei. Ultima premessa: se ho ovviamente tenuto presente la realtà italiana, vi inviterei comunque a non ricondurre ad essa tutte le considerazioni esposte.
Cosa si intende per globalizzazione
In primo luogo, vorrei verificare con voi il concetto stesso di “mondializzazione dell’economia”. Sarà pure un riflesso della globalizzazione, ma viviamo un’epoca in cui molte parole sembrano avere più e diversi significati a seconda dei contesti, mutano o perdono di senso (tema caro a Filippo Gentiloni…), mentre termini storicamente “di sinistra” finiscono in bocca alla “destra” e viceversa…
Capita persino di sentire frasi come queste: il neoliberismo « mostra sempre più i suoi limiti, perché apre la via ad un’economia selvaggia che porta con sé gravi fenomeni di emarginazione e disoccupazione, quando non anche a forme di intolleranza e razzismo ». Ad orecchi attenti come i vostri non è certamente sfuggito che a pronunciare queste parole, che potrebbero uscire tranquillamente dalla bocca di una persona di sinistra, sia stato papa Giovanni Paolo II. Nondimeno, a richiamare oltremodo l’attenzione è il contesto in cui queste sono state professate: un convegno dell’ Opus Dei sulla “Società multiculturale: competitività e cooperazione”… Cosa si intende, dunque, per “mondializzazione o globalizzazione dell’economia”? Ormai se ne fa un gran parlare e questi termini sono entrati nel lessico comune, tanto da non temere smentite. Di recente, il settimanale L’ Espresso ha tradotto e pubblicato un interessante saggio di Pam Woodall apparso sull’ Economist , dal titolo “Economia globale”, occhiello “ Capire la mondializzazione ”. È curioso come tale documento non contenga alcuna definizione — come dire, “teorica” — di cosa sia la “economia globale”. Essa è data per scontata, quasi si spiegasse da sé. E, difatti, l’autore comincia subito a parlare delle « nuove tecnologie dell’informazione che riducono i costi delle comunicazioni e quindi delle transizioni, migliorando così il funzionamento dei mercati » e sciorina dati a conforto di questa tesi.
Non è mia intenzione dar luogo a sottili disquisizioni terminologiche: tuttavia, la mia impressione è che la stessa confusione su termini come scambio, mercato, capitalismo, globalizzazione, sviluppo, etc., tenda a produrre angoscia e paralisi nell’azione trasformatrice: in altri termini, la perdita semantica di queste parole contribuisce a far apparire “lo stato di cose presenti” eterno e immutabile. Nasce da qui anche l’incapacità di individuare gli obiettivi, i percorsi di un possibile cambiamento. E ciò, a sua volta, produce o aggrava la frustrazione.
Comunque, in sintesi, dal citato saggio si può dedurre che la globalizzazione sia frutto dello straordinario progresso tecnologico, in particolare in campo informatico e telematico, che rende flessibile e diversificata come non mai la produzione, che estende a tutto il pianeta la rete commerciale e consente una crescita altrettanto mai vista del mercato finanziario. La convergenza di queste tendenze porta ad un progressivo abbattimento delle barriere di tempo e spazio: cioè, cambia il lavoro e vengono meno le frontiere.
In questo senso, la mondializzazione presuppone e, a sua volta, incrementa una concentrazione, a livelli mai visti prima dall’umanità, del sapere, che appare sempre più il nuovo motore dell’economia.
In realtà, ha scritto sul quotidiano spagnolo El País il sociologo Alain Touraine, « oggi siamo dominati da un’ideologia neoliberale basata fondamentalmente sull’affermazione che per garantire lo sviluppo sia sufficiente liberalizzare l’economia e sopprimere forme superate e degradate di intervento statale. È come dire che l’economia dev’essere regolata solo da se stessa, dalle banche, dagli studi degli avvocati, dalle agenzie di “rating” e dalle riunioni dei capi degli Stati più ricchi e dei governatori delle loro banche centrali. Questa ideologia ha inventato un concetto: quello di globalizzazione. Ma si tratta di una costruzione ideologica e non la descrizione di un nuovo modello economico. Constatare l’aumento degli scambi mondiali, lo sviluppo delle nuove tecnologie e la multipolarizzazione del sistema di produzione è una cosa; dire che questo costituisce un sistema mondiale autoregolato e, pertanto, che l’economia sfugge e deve sfuggire ai controlli politici è una cosa molto diversa. (In sostanza), si sostituisce una descrizione molto precisa con un’interpretazione erronea » (In “Villaggio globale”, Internazionale 2/96). Del resto, « la liberalizzazione dei mercati è una scelta politica, non un dogma », ammette candidamente William Pfaff, nella International Herald Tribune (ibidem).
Insomma, si ha l’impressione che l’ideologia della globalizzazione tenda ad assumere e reinterpretare, piegandone il senso, un po’ tutte le categorie economiche in questo nuovo schema. Per esempio, è provato che lo scambio risalga all’età della pietra. Non tutti gli scambi in ogni epoca e in ogni dove sono, però, assimilabili al capitalismo globalizzante. Per secoli, l’umanità ha accumulato ricchezza, in beni e anche capitali: ma ciò non autorizza a considerare capitalistica l’economia sumera o maya.
Anche il mercato è sempre esistito, anche laddove, financo in tempi recenti, veniva negato teoricamente, salvo apostrofarlo come nero, clandestino, illegale… Uno dei maggiori studiosi dell’avvento della nostra civiltà, lo sto-rico francese Fernand Braudel, ha analizzato la formazione nel corso del tempo di diverse economie-mondo . Tre sono a suo dire, le caratteristiche fondamentali di queste:
1) l’occupazione di un preciso e relativamente continuato nel tempo, spazio geografico;
2) l’esistenza di uno o più poli centrali, « New York piuttosto che Washington » o Bonn piuttosto che Bruxelles;
3) l’articolazione delle stesse in un centro, in aree pericentrali e altre intermedie e, quindi, in zone periferiche.
Economia-mondo non è automaticamente sinonimo di economia mondiale, né di mondializzazione dell’economia. Anche se può diventarlo e, forse, in parte lo è già.
Ma, anche per Braudel, l’economia di mercato va distinta dal capitalismo. La prima garantisce un rapporto fra il mondo della produzione e quello del consumo. L’economia di mercato fa conto sul valore d’uso, in essa la concorrenza garantisce uno scambio uguale. Il secondo, invece, è interessato unicamente al valore di scambio, produce e sfrutta situazioni di monopolio che stanno alla base dello scambio ineguale. Del resto, chi può dubitare che la costituzione di un monopolio sia un “fatto politico”, non certo una “evoluzione naturale”?
È evidente in questa distinzione l’“omaggio” di Braudel, che marxista non era, allo stesso Marx, che nel Libro I del Capitale analizza il dualismo del mercato ed argomenta come siano proprio le tensioni fra i due tipi di mercato a generare il modo di produzione capitalistico. Per Marx, il mercato di capitali, mosso dalla logica D-M-D (denaro-merce-denaro), non nasce dal mercato proprio della piccola produzione mercantile, dominato a sua volta dalla logica M-D-M (merce-denaro-merce): quest’ultimo risulta, anzi, antagonista rispetto al primo. In realtà, Marx distingue anche la produzione destinata al produttore stesso, cioè al consumo familiare e alla riproduzione della forza lavoro, da quella destinata allo scambio, cioè la produzione di “merci” vere e proprie.
La comprensione di tale antagonismo può essere di notevole aiuto sul piano pratico nel rispondere alle sfide poste oggi dalla globalizzazione.
Tale rilettura si rende oltremodo necessaria anche perché gran parte del marxismo di questo secolo ha interiorizzato l’idea che il mercato di capitali e le grandi imprese avrebbero via via eliminato la piccola produzione mercantile. Ciò non è accaduto non solo nel caso delle periferie del capitalismo dove la classe contadina continua ad essere una forza sociale determinante e il settore (cosiddetto) informale urbano appare in continua espansione. Ma, nemmeno, possiamo aggiungere, ciò si è avverato in alcuni “centri pulsanti” della attuale economia mondiale: si pensi al nostro Nord-Est, fra gli altri, il cui “modello” si basa su una fitta rete di piccole e medie imprese, cementate da una miscela cultural-religioso-ideologica (certa idea della famiglia e del lavoro, un forte legame con la terra, un tenace ma curioso antistatalismo frutto anche di una crisi della rappresentanza…).
Tuttavia, in ragione del dogma secondo cui il mercato è uno solo, le forme sviluppate dalla piccola produzione raramente sono state viste, anche da quanti si proponevano un superamento del capitalismo, come alternative allo stesso. Infatti, quante volte si è detto che quella dei poveri nei confronti del mercato era una battaglia persa ancor prima di essere combattuta?
La stessa visione stalinista ha impedito la lettura (non già ri-lettura) della produzione intellettuale degli ultimi dieci anni di vita e di lavoro di Marx, circa 30 mila pagine di note, senza però nessun nuovo testo “organico”, in cui il Grande Vecchio, dopo la “drammatica lezione” della Comune di Parigi, affronta seriamente — a cominciare dallo studio della lingua russa, diventata per lui « una questione di vita o di morte », scrive la moglie a Engels — la questione della sopravvivenza delle forme di produzione contadina e artigiana nella periferia del capitalismo.
In un intenso e dialettico scambio epistolare con i rivoluzionari russi dell’epoca, Marx sostiene la possibilità di una transizione ad una società socialista precisamente attraverso il legame della produzione contadina con il mercato nella Russia zarista di fine Ottocento.
Marx vede, in particolare, nella comune russa un « veicolo di rigenerazione sociale », anzi scrive che per salvarla « c’è bisogno di una rivoluzione russa… ». La comune rurale, mir (che vuol dire anche “pace”, in una accezione propriamente ecologica), può essere per lui il « punto di partenza diretto » verso la nuova società. In altre parole, l’esatto opposto di quella che Preobrazenskij e, quindi, Stalin, considereranno la necessaria “accumulazione socialista” a spese di milioni di contadini, per Marx diventa la conditio per un successo della collettivizzazione della agricoltura contadina russa, « la quale dovrà pur essere graduale, il cui primo passo dovrà essere il ristabilimento delle normali condizioni (in un contesto non di sfruttamento) delle loro attuali basi » (In Late Marx and the Russian Road : Marx and the ‘peripheries of capitalism’, di Teodor Shanin (Editor), Monthly Review Press, New York , 1983). Purtroppo, sappiamo come è andata a finire…
Qualcuno si chiederà cosa c’entri questo, pur breve, excursus con il tema in questione: a mio modesto avviso, le riflessioni di questo “terzo” e poco noto Marx — dopo il “primo”, “creativo”, “giovane” e “rivoluzionario” dei Grundrisse , e il “secondo”, considerato “maturo”, del Capitale: queste le immagini a lungo proposteci —, sono assai utili alla comprensione delle dinamiche dello sviluppo nelle periferie dell’economia mondiale capitalistica, dove computer e modem non sono (ancora) arrivati, dove non si “gioca” in borsa perché non si ha di che seminare fagioli, dove si continua a morire per malattie curabili, dove insomma vivono 3/4 dell’umanità.
Per esempio, quando “l’ultimo Marx” scrive che « il nuovo sistema sarà un revival (il termine inglese è ormai corrente anche in italiano, ndr ) in una forma superiore di un arcaico tipo sociale » a me viene da pensare alla “modernità” delle rivendicazioni sull’uso comunitario della terra e sul rispetto delle culture autoctone da parte degli indigeni del Chiapas, insorti proprio nel giorno della proclamazione del mercato unico del Nordamerica (NAFTA). E se pensiamo che il prezzo che il Messico dovrà pagare per entrare a far parte a pieno titolo del mercato comune nordamericano sarà la sostanziale cancellazione delle “conquiste” della rivoluzione dei primi di questo secolo, dando il via, fra l’altro, ad un vasto programma di privatizzazioni dell’industria petrolifera e delle terre comunali (gli ejidos ), etc., forse comprendiamo meglio l’attualità, la “centralità”, la radicalità e la drammaticità delle questioni sul tappeto.
Non va dimenticato, del resto, che negli anni Ottanta il Messico è stato presentato come l’alfiere dei paesi “in via di sviluppo” che bussavano alle porte del nuovo mercato globale. Tuttavia, sono stati proprio i due crash della borsa di Città del Messico a far traballare negli ultimi anni i mercati finanziari. Per “salvare”, certo non disinteressatamente, il Messico, gli Stati Uniti e gli organismi finanziari internazionali che essi controllano si sono mobilitati, varando un piano di “aiuti” di oltre 50 miliardi di dollari: per avere un’idea, una cifra superiore a quanto stanziato dal “piano Marshall” per la ricostruzione dell’Europa occidentale alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Non si può, dunque, continuare a scomodare Marx per giustificare l’idea secondo cui i progressi della giustizia sociale sarebbero incompatibili con l’attività mercantile. I meccanismi di mercato costituiscono, piuttosto, un elemento centrale per qualsiasi strategia alternativa di sviluppo. Tuttavia, non si può essere ciechi di fronte ai processi di concentrazione che caratterizzano lo sviluppo dei mercati nazionali ed internazionali. Il mercato, però, continua a mostrare il suo carattere duale: il mercato di capitali e i mercati propri della piccola produzione mercantile. Lo stesso capitalismo si è forgiato nella dinamica e nelle contraddizioni fra questi due tipi di mercato.
È nostra convinzione che una alternativa popolare non potrà nascere che dalle stesse tensioni fra questi due volti del mercato. Attendersi scenari diversi sembra frutto di una ingenuità ancora più grande che nel passato.
Al contrario, senza una espansione della democrazia economica nei paesi della periferia, vale a dire del tessuto economico ed organizzativo dei contadini, degli artigiani, dei piccoli industriali e del settore informale urbano, è anzi probabile che, nell’era della globalizzazione, siano i paesi del centro dell’economia mondiale a “disconnettersi” progressivamente e selettivamente dai primi, data la crescente smaterializzazione della produzione industriale nelle società avanzate che tende a peggiorare ancor di più i termini di scambio e ad allargare il gap tecnologico e a rendere, come dice Forrester, «per la prima volta e su tutto il pianeta, l’insieme degli uomini non più necessario», anche a causa della crescita demografica che, di questo passo, porterà a 10-12 miliardi gli abitanti del pianeta entro la fine del prossimo secolo. Tale selettiva e progressiva disconnessione del centro dalla periferia, del Nord dal Sud, dei ricchi dai poveri, manda definitivamente in soffitta alcune formule in voga qualche anno fa, che raccomandavano al Terzo Mondo di autoisolarsi dal mercato internazionale per poter svilupparsi.
Due processi
In questo contesto, la nuova società dovrà avere dimensione mondiale o non sarà. Alcuni semi hanno già messo radici, ma molti altri andranno sparsi nel terreno. In realtà, siamo oggi in presenza contemporaneamente di una mondializzazione umanizzante e di una globalizzazione disumanizzante.
Invero, aldilà di ogni manicheismo tentatore, anche negli attuali cambiamenti si può osservare come il buon grano cresca insieme alla zizzania.
È umanizzante, per esempio, la scomparsa del provincialismo, la coscienza dell’universalità con la quale viviamo negli angoli più remoti il sentimento di vicinanza che sperimentiamo come abitanti dello stesso villaggio planetario, la consapevolezza dei limiti del nostro pianeta. Altrettanto umaniz-zante è la possibilità di sentire da vicino le catastrofi della Bosnia, del Ruanda o del Burundi e come proprie le vittorie in Sudafrica o nel Salvador, così come partecipare, nonostante le distanze, ai grandi incontri
sportivi, musicali o religiosi dell’umanità.
È, invece, disumanizzante che tale universalità venga raggiunta grazie al trionfo su scala planetaria di un capitalismo che ha transnazionalizzato il massimo sfruttamento come modo di produzione e imposto a tutti lo stile di vita cosmopolita delle élites .
L’ethos che non c’è più
Storicamente – analizza José Comblin in “Envío” (In L’etica che non c’è più e quella che tarda a venire, “Envío” n. 4-5, aprile-maggio 1997) – la borghesia ha sviluppato due valori fondamentali, la nazione ed il lavoro , ed ha affidato all’ educazione pubblica il compito di educare in questo senso. « La nazione era un bene comune. Per il bene della nazione, la borghesia era disposta a privarsi delle proprie ricchezze ed anche i lavoratori accettavano di fare molti sacrifici… ». Oggi, nell’economia del sapere veicolato dalle nuove tecnologie della comunicazione, questi due valori che stavano alla base dell’ethos della società borghese sono andati smarriti. « Le nuove élites rompono la solidarietà nazionale ». La globalizzazione riguarda solo loro mentre lascia « ai margini le grandi masse ». Le prime « comunicano con i gruppi dirigenti del mondo intero, ma non con la maggioranza del loro paese. Costruiscono nei pressi delle grandi città dei veri paradisi artificiali, che abbandonano solo per andare nei paradisi turistici loro riservati … o nei paradisi fiscali, altro simbolo della rottura della solidarietà ». I nuovi ceti tecnocratici « non vogliono pagare le tasse. Vogliono uno Stato più debole che serva solo per reprimere il disordine delle masse e garantire loro i privilegi. Non si interessano della pubblica istruzione e della salute. Non hanno nessuna idea di come vivano le persone accampate nelle megalopoli, né vogliono saperlo, perché vivono in un altro mondo. Mentre, le grandi masse vivono in immensi agglomerati urbani privi di mezzi, infrastrutture, pro-getti per il domani… Si sentono abbandonati: sentono di non essere parte di nulla, sono rifiutati, esclusi, e non si sentono solidali con niente e nessuno… ».
Anche la solidarietà che derivava dal lavoro ne esce a pezzi. Nella società industriale che suol definirsi “fordista” il lavoro forniva identità personale e sociale, dignità: « il riconoscimento della propria funzione stava alla base della pace sociale, una pace più solida dei conflitti tra lavoratori e proprietari ». Il lavoro era anche il riferimento per i giovani che si preparavano ad entrare nel mondo del lavoro, in quanto « implicava l’esistenza di un’associazione di lavoratori, era il principale strumento di socializzazione e dava un’identità ed un valore ». Nell’economia basata sul sapere viene meno, invece, la stabilità del lavoro e, quindi, la stessa identità professionale. I lavori (anche se non tutti) si fanno provvisori, diversi, privi di garanzia e, a volte, di significato. Oggi, si lavora soprattutto per i soldi e, così, il lavoro diventa pura merce, vale in base a quanto denaro permette di accumulare. E anche quando è informale, il lavoro risulta sottomesso al mercato e perde la propria dignità.
Nell’economia del sapere, conclude Comblin, non c’è più ethos comune a fondamento della società perché non ci sono più valori comuni, al di fuori del mercato: «La morale rimane teorica o suscita emozioni, ma non penetra nei comportamenti, perché questi obbediscono sempre di più alla dinamica del mercato, quindi non hanno più un riferimento etico».
È altresì vero che famiglia e scuola sono sempre più soppiantate dalla tv. In molti casi, la famiglia ha smesso di educare, limitandosi ad assicurare ai propri figli beni materiali, ma non trasmette più valori. Così anche la scuola, la si vuole sempre più finalizzata al mercato. Tanto che in molti paesi, lo Stato lascia che l’insegnamento pubblico decada perché lo considera privo di scopo. Il compito di preparare buoni tecnici del sapere viene così assolto da istituzioni private maggiormente integrate al mercato.
Per la nuova economia l’unico sapere che conta è quello del mercato. Le nuove tecnologie della comunicazione consentono di accumulare e sfruttare milioni di informazioni, ma gran parte di ciò che viaggia sulle linee fa riferimento al mercato: « informazioni per selezionare ed orientare la produzione, per creare ed indirizzare il mercato, per dare ai capitali i migliori rendimenti ».
Quanto alle tendenze disumanizzanti, è particolarmente triste riconoscere come sia venuto meno quell’internazionalismo solidale dei poveri della Terra che doveva essere rappresentato dalle classi proletarie e che ha finito per essere soppiantato dagli interessi di uno Stato-Partito, divenuto superpotenza, e dalla sua classe dirigente burocratizzata. Una mondializzazione della solidarietà, in forme e canali istituzionali nuovi, resta tuttora una grande sfida aperta.
In realtà, non è possibile pensare ad un progetto di nuova società in una dimensione che non faccia i conti con la mondializzazione ma, al tempo stesso, non si proponga il superamento della globalizzazione transnazionalizzante e disumanizzante di segno capitalistico, che, oggi, mina la vita di gran parte dell’umanità.
Ed è qui che occorrerebbe mutare prospettiva. Non basta analizzare la globalizzazione, constatandone l’esistenza. Di fronte ad essa e a quelle che, secondo i nostri valori, sono le sue caratteristiche disumanizzanti, andrebbe delineato un programma di sforzi convergenti perché emergano le possibilità di una mondializzazione umanizzante.
Per esempio, è urgente introdurre meccanismi democratici nel sistema mondiale emerso dai cambiamenti occorsi a partire dal 1989. Gli sforzi dovrebbero essere convergenti, realizzati sia dall’alto che dal basso. Dall’alto, ripensando i vincoli sociali di una società mondiale così eterogenea, smascherando le ideologie di globalizzazione, ponendo nuove sfide etiche, evidenziando la doppia morale che presenta come “normali” relazioni internazionali i rapporti esclusivi interni alla classe dirigente sovranazionale o che attribuisce una validità unicamente nazionale a valori che invece sono universali.
Il crescente problema delle migrazioni, l’urgenza di elaborare un diritto al lavoro a livello mondiale, la lotta contro il razzismo, sono solo alcuni dei punti nell’agenda di una mondializzazione umanizzante.
È altresì urgente lottare anche per la democratizzazione istituzionale delle Nazioni Unite e delle altre agenzie internazionali: il diritto di veto delle cinque grandi potenze andrebbe soppresso mentre andrebbe favorito l’allargamento e la partecipazione di Stati del Sud del mondo, e non soltanto dell’Italia, come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Nemmeno andrebbero risparmiate energie per democratizzare il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, grandi e vere dittature al servizio della transnazionalizzazione capitalistica.
Tuttavia, sarebbe altrettanto importante che anche dal basso si producessero sforzi convergenti, dando vita a reti internazionali di solidarietà dal seno della società civile: di organismi e persone che lottano per i diritti umani e contro l’impunità del potere, di mezzi di comunicazione alternativi, di progetti di sviluppo, di banche popolari al fine di democratizzare il credito, di progetti sanitari, abitativi, educativi, di istituzioni religiose, di organizzazioni non governative, di donne, di organizzazioni etniche, etc. Grazie alla telematica e alla informatica ciò non è solo possibile, ma più agevole che in passato; tuttavia, questo è un terreno ancora poco frequentato da chi propone alternative, nonostante, mai come adesso, la comunicazione e l’informazione siano fattori strategici.
Cercare di conferire ai movimenti popolari una dimensione mondiale di lotta, significa costruire un’identità sociale che superi le frontiere statali, occupazionali, etniche, linguistiche, religiose, di genere e generazionali.
Tendenze disumanizzanti
Ma, è sul piano economico dove più si avverte la globalizzazione, segnata da tre tendenze terribilmente disumanizzanti.
La prima, tende a sostituire, non solo a completare e rendere meno pesante, il lavoro umano con quello della macchina. Tale processo, noto alcuni anni fa come automazione e oggi come robotizzazione, è caratterizzato da una sempre minore utilizzazione di materia prima per unità di prodotto.
La seconda, vede la crescita del settore finanziario assai più che di quello produttivo, dove si specula con la produzione di denaro più che con la produzione di beni che soddisfino le necessità umane fondamentali.
Entrambe le tendenze si fondono per dar luogo a una crescita economica che non comporta automaticamente la creazione di posti di lavoro. In questo senso, scrive Forrester, « una parte degli uomini non è più sfruttabile; non c’è più sfruttamento del lavoro in quanto non c’è più lavoro ».
Queste due tendenze si accompagnano ad una terza, peraltro non nuova, che vede aumentare il divario tra pochissimi molto ricchi e tantissimi molto poveri: la nota “coppa di champagne”, che esemplifica come il 20% della popolazione riceva oltre l’80% dell’ingresso totale mondiale, mentre il 20% più povero ne riceve un misero 1,4%.
È evidente come una teoria economica basata sulla fiducia cieca nel libero gioco del mercato totale non stia portando al superamento delle grandi disparità economiche che lacerano l’umanità e nemmeno a soddisfare le necessità fondamentali della maggior parte degli esseri umani. Di per sé, il mercato crea unicamente quei posti di lavoro che consentano al capitale di riprodursi con i massimi tassi di profitto e nel più breve tempo possibile. In breve, la globalizzazione mondiale mette a nudo l’imperante legge del maggior lucro.
A farne le spese è soprattutto l’equilibrio planetario: si calcola che se a metà del prossimo secolo tutti gli abitanti della terra (quanti saranno, 10 miliardi?) elevassero il proprio tenore di vita ai livelli degli attuali Stati Uniti, le riserve di petrolio si prosciugherebbero in 7 anni, quelle di alluminio in 18, quelle di rame in 4, quelle di zinco in 3, e quelle di carbone in 34. Per non parlare dell’acqua potabile, delle terre agricole, etc.
Mercato e pianificazione
Il trionfo della globalizzazione sovranazionale ha significato la sconfitta della pianificazione statale centrale, come motore capace di creare ricchezza sociale, quei beni, cioè, che possano offrire soluzioni innovatrici alle necessità fondamentali dell’umanità. Questi due estremismi ideologici, il mercato totale e la totalizzante pianificazione statale centrale, hanno già mostrato i propri limiti come motori umanizzanti dell’economia. Di fronte a tali correnti disumanizzanti, l’impegno per una nuova società deve mostrare vari sforzi convergenti. Nei fatti, non è possibile rinunciare all’economia mista né a livello teorico né a livello pratico. Mercato e pianificazione dovrebbero essere vie complementari, in grado di correggersi a vicenda. I grandi costi dello Stato Sociale non possono portare a stigmatizzare una regolazione dell’economia da parte dello Stato. Ciò cui dovrebbero condurre è a decentrare e a sburocratizzare, potenziando la società civile e le sue molteplici organizzazioni al fine di regolare i meccanismi di mercato. Meno Stato non significa di per sé uno Stato più debole, ma uno Stato forte, sussidiariamente presente laddove nessun’altra organizzazione svolga un’attività sufficiente per umanizzare l’economia.
In una società nuova, le politiche economiche dovrebbero gravare fortemente le attività finanziarie puramente speculative e stimolare quelle produttive che rispondano alle necessità primarie dell’umanità a livello locale, nazionale e mondiale. Inoltre, dovrebbero stimolare la formazione di posti di lavoro. Occupazione, alimenti, vestiti, abitazioni, sanità, istruzione, credito, riposo e sicurezza per tutti: è con questi elementi che si dise-gna il progetto di una nuova società: in questo senso, la piena occupazione, vale a dire, il lavoro accessibile per quanti lo desiderino, non è un principio (solo) del socialismo. È una caratteristica di qualsiasi società che si voglia realmente umana.
Poteri nazionali e sovranazionali
Il successo della globalizzazione sovranazionale capitalistica ha fatto sì che il potere politico passasse da una concorrenza tra blocchi guidati da superpotenze ad un monopolio assoluto del blocco dei paesi più ricchi. Fino a poco tempo fa, gli Stati nazionali godevano di un certo margine per avviare trasformazioni sociali, sia inserendosi in uno dei blocchi in concorrenza o definendosi “non allineati”. Del resto, il sistema mondiale non era monolitico e nelle sue pieghe potevano svilupparsi tentativi di dar vita ad una nuova società, attraverso la conquista del potere statale. Tuttavia, nel monolitismo dell’attuale sistema mondiale, lo Stato nazionale perde potere, nella misura in cui perde la capacità di trasformare la propria società. Il trionfo della globalizzazione sovranazionale ha stimolato l’estensione e la radicalizzazione di un dottrinarismo antistatalista, prepotentemente affermato all’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Tale dottrinari-smo parte da alcuni presupposti apparentemente indiscutibili: la privatiz-zazione, cioè, l’impresa privata transnazionale è sempre più redditizia e amministra meglio dello Stato; la deregulation , che vuol dire che non esiste miglior pianificatore della crescita economica del mercato, il quale deve perciò godere di assoluta libertà; l’enfasi sul primato dell’offerta sulla domanda, che si traduce negli incentivi al capitale e ai grandi uomini d’affari piuttosto che migliorare il potere d’acquisto della maggior parte della popolazione che vive del proprio lavoro; la crescita della macroeconomia, che si esprime nella sottolineatura quantitativa di alcuni grandi indicatori economici che non vengono però accompagnati sul piano qualitativo da quei piccoli numeri che esprimono i bisogni fondamentali delle persone. Tuttavia, i postulati del dogma antistatalista si applicano con coerenza solo ai programmi di stabilizzazione e aggiustamento strutturale imposti ai paesi del Sud dai governi o, meglio, dai funzionari del Fondo Monetario e della Banca Mondiale.
In realtà, nei paesi centrali, fautori del sistema mondiale monolitico, lo Stato conserva ancora (eccome!) la capacità di proteggere la propria produzione, e, di fatto, protegge le imprese multinazionali o interi settori
dell’economia. Le sovvenzioni all’agricoltura e all’allevamento negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, così come l’assegnazione di quote nel commercio internazionale, sono, come è noto, ingenti. Come in tutte le epoche, il capitalismo continua a favorire nel mercato quanti concentrino capitale.
Tale vantaggio ha oggi la sua massima espressione nella pretesa nei confronti dei paesi con scarsi capitali di aprire totalmente il proprio mercato, mentre, al contempo, si tollera il protezionismo dei paesi che dispongono di abbondanti capitali.
In politica, tali tendenze si traducono nella diminuzione del potere dello Stato nazionale e nell’aumento della corruzione tra i politici. Il potere politico, da sempre tentato dall’opportunismo economico, oggi lo è ancor di più. L’attrattiva intrinseca del potere, cioè la possibilità di chi governa di creare o trasformare la società, ha sempre meno opportunità di realizzarsi. E se non si può utilizzare il potere statale per una certa ingegneria sociale, allora lo si utilizza per farsi pagare per amministrare ciò che non si può trasformare: è quel che pensano e, purtroppo, applicano in molti.
Lavoro e solidarietà
Tuttavia, anche il potere sociale si sta globalizzando ed appare in crescita. Di recente, in Centroamerica sono stati raggiunti positivi accordi sindacali in alcune fabbriche maquiladoras.
Il termine deriva dall’arabo makíla, che anticamente stava ad indicare la quota che il contadino riconosceva al proprietario del mulino per il suo servizio. Le maquilas odierne sono fabbriche, soprattutto, tessili e di componentistica elettronica, a forte prevalenza di manodopera femminile, in cui il capitale straniero mantiene il controllo su tutto il processo produttivo, realizzato da aziende locali alle quali viene fornita anche la materia prima di lavorazione, e sulla commercializzazione finale del prodotto. Normalmente, le maquilas sorgono in zone franche a due passi dalla frontiera, da porti e aeroporti, e godono di particolari agevolazioni fiscali e altri vantaggi comparativi. Dentro le maquilas, la vita è spesso un inferno: giornate lavorative lunghissime, turni di notte, sabati e domeniche inclusi, paghe da fame (eppure, chi vi lavora si dice fortunato/a), vietata ogni organizza-zione sindacale delle maestranze… Nell’attualità, la maquila è la forma dominante di organizzazione della produzione destinata al “mercato globale”, basata nella periferia del sistema capitalistico.
Il fatto interessante è che in queste lotte è risultato decisivo il sostegno dei sindacati statunitensi.
Esiste un’esperienza sempre maggiore di organizzazione categoriale, sindacale, a favore dei diritti umani, per lo sviluppo, etnica, religiosa e, in generale, culturale. Questo potere, situato nella società civile, già funziona
in non poche occasioni come istanza mondiale. D’altro canto, le varie federazioni mondiali di sindacati, che pure sono state pioniere in passato, appaiono oggi ancora troppo condizionate da vecchie logiche. Anche qui, forse, nuove forme più agili di collegamento e coordinamento andranno inventate.
La mondializzazione è altrettanto tangibile nelle associazioni universitarie e nelle reti di centri accademici, nelle organizzazioni indigene, nelle associazioni di teologhe e teologi del Terzo Mondo, nelle organizzazioni non governative che si riuniscono in occasione dei grandi vertici dell’ONU (ecologia, donna, questioni sociali, demografia, casa).
In queste istanze di potere sociale è pure riscontrabile un certo esclusivismo, un eccessivo verticismo, persino, a volte, corruzione e nuove forme di do-minazione. Ciononostante, questa società civile in varie forme organizzata a livello mondiale ha, oggi, la possibilità e la capacità di promuovere e sperimentare proposte alternative per una società nuova.
Oggi, molti partiti e sindacati appaiono screditati o incapaci di fungere da istanze mediatrici della partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. Di fronte alla perdita del potere dello Stato nazionale e, soprattutto, al monopolio del potere che cerca di consolidarsi intorno al nuovo monolitismo politico delle forze economiche multinazionali e dei suoi bracci esecutivi nell’FMI e nella BM, si rende necessario reinventare un modo partecipativo e solidale di far politica.
Andrebbero risvegliate le vocazioni politiche e valorizzato il carisma di servizio di chi è capace di giungere alla pubblica amministrazione e al potere dello Stato con rinnovata umiltà, consapevoli del fatto che, a differenza del passato, tale potere è… poca cosa.
Sarebbe molto importante, in un’epoca in cui la politica sembra procedere a colpi di interviste sui mass media, immaginarne una nuova in cui, aldilà delle elezioni, si consolidi l’abitudine alla consultazione, come sfida alla partecipazione e costruzione reale di una autentica democrazia.
La vera forza di un governante dovrebbe risiedere, oggi, non solo nella sua capacità amministrativa, ma soprattutto nella capacità di risvegliare l’interesse di molte persone e molte organizzazioni verso la cosa pubblica, cercando, in tal modo, di controbilanciare l’illusoria fuga verso il privato.
Globalizzazione culturale e biodiversità culturale
Una delle manifestazioni più potenti della globalizzazione è la sua dimensione culturale, che penetra in noi attraverso i mass-media. L’amore per il denaro come opportunità di pochi per vivere felicemente, la tremenda banalizzazione della vita umana nell’orgia di violenza presentata come normale, la perdita di mistero che si prova nell’essere spogliati pubblicamente e venduti come fenomeni da baraccone, l’individualismo che proclama come massimo valore la realizzazione privata dell’efficacia, sono solo alcuni degli ingredienti che i mass-media ci presentano quotidianamente come ideali. Dietro a tutto questo, vi è la manipolazione maschile del mondo, che insidiosamente introduce il principio di dominazione in tutto ciò che organizza e che finisce col violare tutto, esercitando violenza contro gli esseri umani e la natura, e costruendo un mondo uniforme, dove il consumismo distrugge la ricchezza della biodiversità culturale umana.
Anche in questo campo, però, riaffiora l’ambiguità. La globalizzazione disumanizzante della cultura ha un contrappeso umanizzante. Oggi possiamo appropriarci di ciò che è universale e ridurre il mondo intero ad un ambito comune a tutti. Tale opportunità viaggia sulla stessa rete di comunicazione universale attraverso la quale transita il progetto unifor-mante.
Il contatto con la diversità, sappiamo, può provocare spinte aggressive. Ma può anche essere vissuto con curiosità e speranza, la speranza di una vita più ricca. Ciò che non può e non deve più succedere è quanto accadde fra i secoli XV e XIX, nell’era delle “scoperte” e delle colonizzazioni: che la sorpresa di trovare esseri umani così diversi, consolidi la tentazione di negare loro un’umanità comune.
Nella nuova società non ci servirà la globalizzazione omogeneizzante della cultura del capitalismo, né la contrapposizione priva di solidarietà fra differenti culture. L’universalizzazione solidale e la ricca diversità etnica, di classi e di nazioni, di genere e generazioni, di religioni e cosmovisioni, dovrà fiorire in un terreno in cui, tuttavia, convivranno a lungo due forme di razzismo: quello delle élites appagate e quello della maggior parte della popolazione aggredita dalla povertà.
Anche in campo culturale, dobbiamo essere capaci di inventare sforzi convergenti per camminare verso la nuova società. Sarà necessario mantenere viva la memoria, per recuperare una società il cui motore sia il ren-dere giustizia alle tante e ai tanti cui è stata sottratta la vita e la dignità prematuramente, in guerra, nelle camere di tortura, nei ghetti, in tanto lavoro pagato con salari da fame. La memoria dei martiri è una memoria umanizzante, che recupera il passato perché i sogni di allora continuino ad illuminare la vita e perché quelle vite possano essere ancora capaci di destare solidarietà.
Il volto femminile dell’umanità
Per camminare verso la nuova società è necessario un atteggiamento che superi la semplice resistenza culturale al pacchetto di valori individualistici, ben confezionato per essere venduto sul mercato globale.
Bisogna andare oltre. Si tratta di criticare radicalmente il maschilismo che si manifesta nell’atteggiamento possessivo nei confronti della moglie e dei figli, nel saccheggio dell’ambiente e l’autoritarismo che domina i rapporti sociali. Si tratta di proporre in modo consistente e guardare in modo permanente la realtà attraverso l’altra faccia dell’essere umano, quella femminile. In ogni statistica e analisi bisogna produrre una svolta in questo senso.
È altresì urgente rivedere i grandi miti, racconti e simboli dell’umanità dal punto di vista della donna, dei più poveri e delle razze discriminate.
È pure di cruciale importanza tentare di realizzare una nuova alleanza tra scienza, tecnologia, ricerca e istituzioni universitarie, con le organizzazioni dei poveri nei loro territori rurali e urbani. Lo scambio di esperienze e la creazione comune di progetti aiuterebbe a combattere l’attuale monopolio della conoscenza e dell’informazione. Si potrebbe, in questo modo, combinare il sapere e il potere con il produrre, e si giungerebbe a un nuovo patto sociale per poter convivere. È strategico lavorare per ottenere l’accettazione della dimensione etica dell’economia, della politica e della cultura, coscienti che il capitale di origine criminale, accumulato grazie al traffico e consumo di droga, alle tangenti, etc., è solo la punta dell’ iceberg di una corruzione ormai globalizzata che minaccia di distruggere ogni tipo di convivenza umana.
Eurocentrismo e mondialismo
Pensare la storia, documentarla, teorizzarla, farsi carico della stessa, è uno dei compiti culturali di maggior rilievo. Voi tutti ricorderete come nel momento in cui il cosiddetto “socialismo reale” crollava in Europa, la filosofia eurocentrica ed occidentale celebrasse il fatto con una frase lapidatoria: “è la fine della storia”. Con sguardo miope, disprezzando il valore dell’orizzonte utopistico dell’umanità, i vincitori proclamavano l’avvento del Regno del Capitale e il culmine del mito del progresso, lasciando per il futuro soltanto il compito di raggiungere quote sempre più alte nell’unica forma di vita desiderabile, segnata dal consumismo e dalla tecnocrazia. In una prospettiva a più lungo termine è possibile una distinta teorizzazione di ciò che sta accadendo nel mondo, della grande svolta storica che stiamo vivendo. Ciò che si intravede è il principio di una storia non occidentale, non eurocentrica, in cui per la prima volta diventa possibile assumere la diversità della lunga storia dell’umanità, fatta di passi avanti e indietro. L’orizzonte immediato tradisce l’arroganza degli osservatori, soddisfatti per un bilancio tratto prima del tempo nell’ebbrezza di una effimera vittoria, e che rappresenta un insulto nei confronti della maggior parte dell’umanità, la quale viene avvisata di aver perso la corsa e di non poter aspettarsi altro che ulteriore miseria. Prospettiva poco lungimirante quella occidentale, che adotta l’Europa e il suo prolungamento, gli Stati Uniti, come centro del mondo, assume la caduta del socialismo europeo come la sconfitta di ogni altra forma di socialismo, glissando sul notevole contributo statunitense alla distruzione dei primi tentativi di socialismo per via elettorale che l’umanità abbia concepito in Cile e in Nicaragua, o sull’esperienza cinese, dove un sesto dell’umanità vive in tensione tra socialismo e capitalismo, e su quella cubana, pur segnata da errori interni e pressioni esterne.
A mo’ di conclusione
In sintesi, il sistema capitalistico globalizzante, frutto di un lungo processo di sfruttamento, dominazione ed egemonia che ha trovato terreno fertile in un sistema mondiale per la prima volta quasi monolitico, resta all’antitesi del progetto — meglio: dei progetti — di nuova società. In questo contesto, la soddisfazione dei bisogni dei poveri, cioè di gran parte dell’umanità, implica il suo superamento, la trasformazione del suo cuore non solidale in uno che sa provare compassione, perché i sei miliardi di persone che oggi vivono sul pianeta vivano felici, riconciliate con la natura e in un processo di progressiva umanizzazione (non per niente l’economista Amartya Sen vede lo sviluppo come “espansione delle funzioni umane”, ispirandosi all’etica Nicomachea di Aristotele, il quale non considerava i beni e le ricchezze come meta dell’attività economica, quanto la vita, nel senso di attività e quindi di funzioni umane).
Marco Cantarelli