“CHI LOTTA E SOFFRE SU UNA ZOLLA DI TERRA
LOTTA E SOFFRE PER TUTTA LA TERRA”
incontro nazionale PO / Viareggio, 1-3 maggio 1998


È difficile immaginare per noi pretioperai italiani un luogo più congeniale, accogliente e significativo di questo capannone di Viareggio. Carico di vita e di storia, credo sia un punto di incontro nel quale ciascuno possa tranquillamente sentirsi a casa sua. Ricordo quando nel convegno nazionale del ’79 i pretioperai viareggini ce lo presentarono con un atteggiamento che oscillava tra fierezza e timore. Una tale imprenditorialità, sia pure artigiana, rappresentava una svolta rispetto alle nostre più riconosciute tradizioni. Nel corso degli anni, da luogo di creatività artigiane, impersonate da Sirio, Beppe, Rolando e Luigi, si è via via passati ad un centro organizzatore ed erogatore di servizi (per dirla con una composizione molto apprezzata da Luigi una holding socio-psico-assistenzial-manuale ). Credo che in buona parte questo capannone simbolicamente possa rappresentare molte delle transizioni che sono avvenute tra noi per le modificazioni che hanno interessato, oltre che il quadro storico di riferimento, anche l’organizzazione materiale della nostra vita, l’inserimento nell’ecclesiale e nel sociale ed il nostro modo di pensare.
Anche in questo convegno si registra una svolta rispetto ai precedenti. Non è stato preparato da una segreteria o da un coordinamento nazionale rappresentativo delle diverse realtà regionali. Un gruppo di volontari, assieme agli amici di Viareggio, si sono adoperati per predisporre una proposta di discorso ed offrire questa opportunità che voi presenti avete colto.
Per molti di noi l’incontrarsi tra pretioperai a livello nazionale continua ad essere cosa ovvia e scontata: le relazioni tra noi, costruite in tanti anni, attraverso e nonostante le differenze che ci siamo ritrovati, costituiscono ancora un dono, una ricchezza, uno spazio di dialogo ed un sostegno ai quali non vogliamo rinunciare. È possibile che una tale percezione non sia più un dato comune a tutti. Rispetto al ritrovarci insieme vi sono atteggiamenti ed opzioni diverse. Crediamo che si debba onestamente e con serenità prendere atto di questi cambiamenti che il percorso della vita ha introdotto tra noi e si debba rinunciare ad operare tentativi per “convincerci” su quale sia l’opzione migliore. Ciascuno, deve trovare in se stesso le motivazioni del proprio agire, delle continuità e delle discontinuità sulle quali intende orientarsi. Crediamo ci debba essere un profondo rispetto per ciascuno ed una accoglienza piena dell’agire libero dell’altro.
È probabile che questo passaggio, da una organizzazione minima però strutturata e rappresentativa dei PO a livello nazionale, all’iniziativa che ormai fa riferimento a volontari che propongono agli altri momenti di incontro e di riflessione comuni, dovesse avvenire. Anzi, vista la nostra storia, è bene che sia avvenuto.
Penso che il termine più appropriato per qualificare questo nostro appuntamento, viste le sue caratteristiche organizzative, sia “incontro”, più che “convegno”. Convegno forse porta con sé un certo tono di ufficialità, una pretesa di dibattito su tesi e contenuti. L’incontro sottolinea, invece, la voglia di vedersi e di incontrarsi tra persone che hanno una storia in comune, tra persone che ritengono che la storia… non sia finita e che pensano di aver ancora tante cose da dirsi. L’incontrarsi esprime libertà di adesione e spazio di libertà nella comunicazione ed espressione.
Contestualmente l’incontro ha senso se contiene una perfetta attualità, se non è la stanca deriva di un passato che si trascina, smarrito in un presente che non riesce a decifrare. Però l’interpretazione dell’oggi, e l’azione nella quale si investono le energie, non possono far a meno della memoria, perché nel passato sono custoditi tratti essenziali della nostra identità.
Affido ad alcune citazioni la sottolineatura dell’importanza della memoria:

“ Si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli dei ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire ” (O. Sacks).
“ Ciò che rimane nel pensiero è il cammino. E ciò che di misterioso le vie del pensiero nascondono è il fatto che noi le possiamo percorrere avanti e indietro, e che addirittura solo la via che ritorna indietro ci porta in avanti ” (M. Heidegger).
“ Solo chi osa incamminarsi all’indietro per sentieri da lungo tempo percorsi troverà veramente vie nuove ” (E. Jüngel).

Noi pensiamo che una eventuale archiviazione della nostra memoria collettiva, quella che, a partire dai primi pretioperai si è sedimentata in questa seconda metà del secolo, ed una sua caduta nell’oblio, rappresenti un danno secco, una scissione, una perdita di contatto con noi stessi. Una tale amputazione sarebbe, a nostro avviso, un presupposto negativo per una nostra ricollocazione nel presente e per l’identificazione del cammino in avanti.
Venendo al concreto, ci sembra utile e doveroso puntualizzare alcuni dei motivi che ci spingono a ritenere questo nostro appuntamento non il frutto tardivo di una nostalgia, che non sa accettare di morire, e neppure un rendez-vous di combattenti fuori servizio che rendono omaggio ai loro caduti.
• La condizione operaia, quella nella quale siamo entrati, non è scomparsa anche se è diventata più invisibile perché sottoposta a processi di disseminazione e di occultamento. Non è diventata più elevata per la comparsa sulla scena di povertà nuove. I dati degli incidenti e dei morti sul lavoro (almeno 1200 censiti ufficialmente che non tengono conto delle diffuse situazioni “in nero” destinate alla totale invisibilità), la persistenza se non l’incremento del lavoro minorile, sono indicatori della presenza, anzi dell’aggravarsi delle situazioni di sfruttamento e di riduzione dei diritti, testimoniate anche dai nostri compagni ancora inseriti nel lavoro di fabbrica.
Il problema della povertà specifica della condizione operaia permane in- tatto nella sua oggettività anche se la gran parte di noi, per approdo alla pensione o per processi di espulsione dalla fabbrica, ha modificato la sua condizione materiale. Pensiamo che chi ha veramente provato nel corpo e nell’anima una tale condizione, ne resti segnato per sempre, portando con sé la possibilità di una comprensione vitale, una parola competente da dire ed anche una doverosità etica e politica rispetto a questo “mondo”, sempre più sommerso, che ha conosciuto dall’interno mediante la condi-visione. Sono convinto che su questo fronte siamo portatori di una fondamentale obbligazione che tale rimane fin quando ci è dato di vivere. (Qualche tempo fa Sandro scriveva: “resta il fatto che la ‘povertà’ operaia è l’unica le cui piaghe strutturali possono essere condivise: tutte le altre possono essere solo affiancate ”).
• Riteniamo che il nostro compito non sia finito. Anche se come gruppo di pretioperai italiani viviamo il crepuscolo, vi è un cammino da portare a termine. Il frammento della nostra vita e della nostra storia va completato con lucidità. La scelta del lavoro dipendente e/o manuale un tempo operata non va intesa come un momento propedeutico per poi… passare ad altro, come un’esperienza che, una volta terminata, non lascia traccia di sé. Anche se si modifica la condizione materiale della nostra vita, dovrebbe essere acquisito uno sguardo sul reale, uno schierarsi con il cuore e l’intelligenza e le forze in una linea coerente con quanto abbiamo appreso in anni di lavoro e di condivisione. Questo appare tanto più doveroso e urgente se assumiamo per vere le parole di Dossetti che nel ’94 in Sentinella quanto resta della notte? diagnosticava quanto nel nostro Paese era arrivato a maturazione: “ l’incapacità di pensare politicamente, la mancanza di grandi punti di riferimento e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e di un’etica conseguente ” (pp. 3-4). Questa doverosità appare tanto più stringente se pensiamo al dilagare del cosiddetto pensiero unico che si infiltra in tutti gli aspetti della vita. Lo scorso anno, a Camaldoli, aprendo il seminario sulla globalizzazione si diceva: “il pensiero umano e l’immaginario collettivo sono sottoposti ad un processo di colonizzazione culturale, il cui assunto di fondo è dettato dall’economia: tutto può essere pagato, tutto può essere scambiato. La razionalità dominante, alla quale viene consegnata l’ultima parola è quella del calcolo e si basa sul presupposto che solo quello che è quantificabile è reale. È la dittatura del pensiero unico”. ( Pretioperai 40-41/1998 , p. 11).
La nostra avventura cristiana è stata segnata dall’essere preti nel contesto sociologico e politico italiano e dall’ingresso e dalla permanenza in una condizione strutturale ritenuta di fatto da gran parte della chiesa estranea, se non in conflitto insuperabile, con la definizione, la teologia e la spiritualità vigenti del sacerdozio ministeriale. La nostra vita rappresenta una attestazione di possibilità, di libertà cristiana, che sa osare anche contro l’opinione pubblica, di concentrazione sul messaggio dell’evangelo discriminandolo da quelle “tradizioni degli uomini” che oscurano la tradizione di Dio. Non ci siamo mai sognati di costruire altre chiese alternative, però abbiamo osato cercare di vivere e lottare in maniera alternativa nell’ambito delle singole realtà ecclesiali ed anche al di fuori del loro perimetro: “Gente di confine”, dicevamo. Siamo convinti che un tale patrimonio debba essere condotto al massimo del suo frutto e che sia prezioso e doveroso un completamento di riflessione e di pensiero sulla nostra avventura. Forse dobbiamo applicare a noi le parole che Paolo rivolge ai Filippesi: “ sono persuaso che Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Signor e” (Fil., 1, 6).
• Ci siamo riuniti qui a Viareggio, in questo capannone, nel decennale della dipartita di Sirio e a poco più di tre mesi dalla morte di Beppe. Non siamo qui per “commemorare”, almeno nel senso che solitamente si fa quando si utilizza questo verbo. Il “fare memoria” è cosa ben diversa: è partecipazione ad una pienezza, ad un dono che ci è stato dato; è possibilità di attingere ad una completezza che queste traiettorie di vita hanno manifestato anche mediante la loro interruzione. È, soprattutto, la possibilità a noi offerta di rettificare la rotta sulla quale stiamo navigando identificando meglio la direzione. Vorrei con voi condividere una riflessione che già si era affacciata dieci anni fa al mercato del pesce nell’ultimo saluto a Sirio e che si è fortemente consolidata nel gennaio scorso al palazzetto dello sport nell’analogo addio a Beppe. Guardando i volti della folla, osservando la qualità delle presenze, ho chiaramente avvertito che era diffusa la percezione di un senso che promanava da quelle due vite, proprio nell’evento della loro interruzione. Nella luce della fine, nel loro tempo compiuto, appariva chiara la chiamata alla quale avevano aderito in tutto l’arco della vita. La risposta, concretizzata nella semplicità e necessità del lavoro umano, nella condivisione con i compagni di strada, nella libertà della parola, nella passione per l’Evangelo, è stato un messaggio universale, comprensibile e chiaro. Sì, la convinzione che in me si è consolidata è che tutta quella gente fosse raccolta perché dalla profondità di quel silenzio, nel quale la loro esistenza è stata per sempre immersa, provenisse un appello, rappresentato dalla verità del loro stile di vita, forte, chiaramente percepibile. Nel frammento di quelle loro vite appare un senso di verità che si è incarnata e compiuta.
Non siamo qui per commemorare, ma per riflettere e imparare, per raccogliere e rilanciare in avanti la nostra vita. Il contatto con questi due compagni di strada e di vita non può irrigidirsi in una memoria statica e priva di futuro. Il compimento della loro vita ci dice che la nostra vita è… incompiuta, cioè è ancora aperta, deve riprendersi in mano per giocarsi sino al compimento.
Ricordo una confessione autoironica di don Sirio, da me udita probabilmente qui a Viareggio nel convegno del ’79. “Qualche anno fa pensavo che se in Italia ci fossero stati 300 pretioperai la chiesa italiana sarebbe cambiata…!”. Forse l’autoironia si riferiva all’ingenuo sentimento di onnipo-tenza, che un tale pensiero poteva racchiudere.
A questa accosto una parola sua, forse un appello, nell’ultimo incontro che ho avuto con lui, all’ospedale di Marina di Pietrasanta, due settimane prima della sua scomparsa. “Andate avanti, anche se ne rimanesse uno solo, andate avanti!”. Non posso evitare di comunicarvi una associazione, che mi è venuta alla mente, tra questa parola di Sirio e quel dialogo misterioso e segreto di Abramo con Dio, a proposito della salvezza di Sodoma: “E se si trovassero dieci giusti…?” (Gen. 18, 22-33). Qualche commentatore si è chiesto: che sarebbe avvenuto se Abramo avesse continuato fino a ridurre all’osso la richiesta: “E se ci fosse soltanto un giusto la salveresti?”. Questo per dire che se i 300 PO potevano in qualche modo rappresentare la dimensione quantitativa, quindi la possibile “forza” di pressione, l’ uno solo esprime bene il richiamo alla qualità della vita, a quella qualità che è dato di intuire con chiarezza mentre la vita si sta spegnendo. Se una cosa è giusta, questa rimane tale anche se è uno solo a viverla!

La zolla di terra


Abbiamo scelto come titolo del nostro incontro quella frase di N. Kazantzakis che Sirio riporta come intestazione al suo primo libro Una zolla di terra. L’abbiamo scelta perché ci è sembrata particolarmente utile al nostro incontro. Ciascuno di noi tiene i piedi e la vita in un luogo e contesto precisi. Anche se vi sono state variazioni, cambiamenti legati al lavoro, al pensionamento o ad altro, mi sembra che per la maggior parte di noi sia prevalsa la stabilità relativamente all’abitazione o al contesto sociale frequentato. È probabile che ciascuno di noi, sia pure con tutte le variazioni del caso, abbia piantato radici, occupi una collocazione dalla quale vive relazioni, scontri e condivisioni con gli altri. Forse vi sono state situazioni nelle quali i cambiamenti hanno determinato modificazioni più consistenti. In tutti i casi noi utilizziamo “zolla di terra” per indicare il posto che ciascuno di noi attualmente occupa, l’ambiente vitale nel quale produce, consuma, riposa, soffre, ama, pensa, prega, comunica, opera… Ecco: chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre per tutta la terra.
L’obiettivo che in questo incontro di pretioperai si vuole perseguire è di tentare di rispondere a queste domande: “che rapporto c’è tra l’intuizione iniziale, che ci ha portato a condividere la vita operaia e le lotte ad essa connesse, includendo in questo anche il processo spirituale che l’ha originata, accompagnata e nutrita, e il modo nel quale oggi stiamo al mondo occupando la nostra piccola zolla”? “Che cosa è rimasto nel cambiamento: quali fedeltà e quali revisioni radicali abbiamo dovuto operare?”. “La passione dello statu nascenti ha conservato una sua energia, una sua concentrazione, ha avuto delle trasformazioni nella sua destinazione, quali orientamenti ha assunto, oppure ha conosciuto il naufragio?”.
Probabilmente noi ricordiamo degli altri, la collocazione che avevano alcuni anni fa, il loro inserimento lavorativo, sindacale, ecclesiale ecc. Ma difficilmente conosciamo la transizione avvenuta, l’elaborazione che l’ha accompagnata, le modificazioni che sono intervenute.
Allora ci domandiamo l’un l’altro “in tutto questo che è rimasto del prete-operaio”?
“Questa condivisione ci ha cambiato e tale cambiamento è rilevabile in tutto quello che facciamo, che diciamo, nello stile di vita, o siamo stati riassorbiti e normalizzati”?
Se siamo attenti ci accorgiamo che l’incontro tra noi è l’occasione per uno sguardo di ciascuno su se stesso, per un’attenta revisione di vita, se volete, anche per una auto confessione ed un fiducioso lasciarsi conoscere da parte di compagni di strada con i quali si sono condivise grandi tappe della nostra esistenza.
Può darsi che qualcuno storca il naso dinanzi alla prospettiva del ri-raccon-tarci.
In verità non mi riferisco al raccontare superficiale ed aneddotico. Piuttosto parto dalla convinzione che

“ripercorrere la nostra esistenza nello specchio di ciò che siamo stati, ci fa scoprire il volto interiore che ci accompagna e che vediamo nel silenzio dell’intimità quando ricordiamo veramente, quando ci rammentiamo di noi stessi e in questo ricordo vanno apparendo, strato dopo strato, i tratti della nostra fisionomia interiore” (E. Ledò, Il solco del tempo, p. 149).

Se vogliamo un esempio autorevole ed efficace lo troviamo nella stessa Bibbia: non si fa altro che raccontare sempre di nuovo la storia dell’Alleanza che Dio vuole portare a termine con gli uomini. Dinanzi a nuovi contesti e in epoche storiche lontane le une dalle altre, sempre emerge quel punto luminoso che diventa il leitmotiv nella infinita creatività del racconto.
Incontrarci tra noi vuol dire in gran parte un ri-raccontarci perché nel frattempo la vita è andata avanti, nuove decisioni sono intervenute, abbiamo imparato cose nuove, possiamo riferirci a nuove esperienze ed interlocutori, domande antiche o recenti sono presenti in noi, forse è emersa una fatica del vivere che pensavamo di aver già superato, forse siamo nel dubbio ed abbiamo bisogno di confrontarci ed ascoltare gli altri… Soprattutto abbiamo bisogno di rimettere a fuoco i grandi interrogativi. Al di là dei limiti della nostra storia e delle nostre risposte, la vita di ciascuno di noi ha cercato di muoversi seguendo le grandi domande: queste vanno sempre di nuovo rimesse al centro. Il rischio di finire in percorsi di piccolo cabotaggio è sempre dietro l’angolo. Possiamo aiutarci a tenerci svegli perché non ci accada di mollare l’aratro sul più bello. “ Coloro che sono svegli hanno un mondo comune ” (Eraclito).
La zolla di terra nella quale abbiamo piantato radici, il punto nel quale noi consistiamo, coincide con le nostre possibilità di giocare il nostro atomo sulla bilancia del mondo. Chi di noi non avverte l’enorme sproporzione? Chi di noi non ha sentito la voglia di tirare i remi in barca, visto che alla tanta fatica nel remare contro corrente sembrano essere corrisposti ben magri bottini?
“ Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze ” dice il servo di Jahvé (Is. 49,4), a cui fa in qualche modo da pendant il mito classico di Sisifo, condannato a spingere con il petto il macigno fin sulla montagna per poi vederselo rotolare a valle, con il dovere di riprendere tutto da capo.
Nonostante le penose sensazioni che talvolta o spesso sono venute a trovarci, ci siamo detti alla lombarda “tiremm innanz” : la mia goccia avrà pure un suo peso nel bilancio del mondo; questa è la zolla nella quale sono chiamato a lavorare, è la mia, nessun altro può dissodarla e farla produrre se non la mia fatica e il mio sudore. E allora coraggio!

 

Chi lotta e soffre…

Nella lettera con la quale si invitava a questo incontro ci siamo riferiti alla lotta sirianamente intesa come amore . Lotta come amore si accompagna inevitabilmente con la tensione della sofferenza. Nello stesso invito sono state indicate 4 dimensioni che fanno parte, attraversandolo, del nostro vivere, sollecitando ciascuno a prenderne in considerazione qualcuna sulla quale articolare la propria comunicazione. In questo modo si è inteso non lasciare nessuno fuori dalla porta, qualunque sia la sua situazione attuale, qualunque sia il modo nel quale sta coltivando la sua zolla. Il che significa che ciascuno possiede una reale competenza che, almeno in qualcuno dei campi indicati, può e deve mettere in comune. Inoltre, distinguendo le dimensioni, dal punto di vista metodologico può diventare più chiaro il livello nel quale si colloca la comunicazione, consentendo un miglior ordine al lavoro di questi giorni. Resta fermo che si dovrebbe tentare comunque di interloquire con gli interrogativi sopra formulati. Ci sembra utile soffermarci un istante a fornire qualche spunto, alcuni interrogativi, sulle dimensioni che metodologicamente dovrebbero ordinare i nostri interventi, anche se nella lettera invito alcune indicazioni già sono state offerte, prendendo ispirazione dagli scritti di Sirio.

1) Dimensione esistenziale
Si riferisce all’organizzazione concreta e materiale della giornata di ciascuno, al suo costume di vita, alle opzioni etiche personali che guidano le scelte fondamentali, al dialogo interiore che ciascuno intrattiene tra sé e sé. Quale forma di vita ne emerge? Se la nostra attuale organizzazione di vita non prevede più che dobbiamo timbrare il cartellino che cosa è rimasto della condizione operaia vissuta per anni? Sono impresse delle sensibilità, delle capacità di lettura, che orientano il nostro sguardo, la nostra passione, che fanno scattare la nostra indignazione? Fa parte di questa dimensione anche la percezione degli anni che sono trascorsi, della vita che abbiamo spesa, della salute che non è più la stessa, dei vuoti che si sono creati attorno a noi: sono annunci del limite della nostra vita sottoposta al morire.

2) Dimensione spirituale o mistica
Possiamo intenderla come la storia personalissima di una domanda e di una necessaria risposta che durano l’intero arco della vita. La domanda è la stessa che il Signore ha con insistenza rivolto a Pietro e continua a indirizzare a ciascuno di noi: mi ami tu? La risposta “è la storia di una compagnia segreta, fatta di fedeltà e infedeltà, di invocazione e silenzio, di luce e tenebre, di tentazione, caduta e risurrezione, di attaccamento e spoliazione, di intercessione, delusione e speranza che rinasce, di senso di inutilità accompagnato dalla percezione della necessità di una obbedienza” (dalla lettera di invito al convegno). O, per dirla con parole di Sirio, “nel vivere di ogni giorno ognuno deve sapere il morire che gli è stato chiesto in nome di Cristo. Ciascuno ha una sua storia di vita e di morte” (Una zolla… p. 191).

3) Dimensione ecclesiale
Per la maggior parte di noi la scelta della vita operaia di fatto si è concretizzata attraverso uno strappo rispetto a quello che la chiesa locale si aspettava da noi: ora come possiamo qualificare i nostri rapporti?
Si è registrata la confluenza di PO di diverse regioni nelle strutture pastorali normali: come valutare questo orientamento? Coloro che stanno vivendo un tale inserimento, anche da diversi anni, che cosa hanno da dirci? Sono riusciti ad introdurre innovazioni qualitativamente importanti? In che ambiti e a quali livelli? Emergono domande nel confronto tra la vita operaia e i ruoli che sono stati assunti a livello pastorale? Quali le discontinuità e le coerenze, le compatibilità o incompatibilità? Dal punto di vista soggettivo si registra un processo di integrazione tra i vari aspetti, oppure si procede per scissioni e compartimenti stagni? Tali opzioni sono vissute come cammini in avanti o come una resa dinanzi a vicoli ciechi incontrati nella vita operaia? Oppure sono l’inevitabile approdo, una volta arrivati alla pensione? È possibile tentare un mini bilancio basato sulle esperienze compiete? Possiamo aprire un confronto, che magari potrà avere un seguito, su queste problematiche?

4) Dimensione politica.
È sempre stata tra le più sofferte nei nostri incontri. Raramente si è riusciti a tentare approfondimenti, data l’infiammabilità della materia e le diversificazioni culturali e storiche presenti al nostro interno. È certo, comunque, che ciascuno di noi assolve ad una funzione politica, in modalità informali o più strutturate, nei discorsi che fa o nei silenzi, nelle azioni che compie o nelle omissioni, nelle compagnie che frequenta e negli obiettivi che assieme ad altri tenta di perseguire.
Vi è un rapporto, e quale, tra la funzione politica cui di fatto assolviamo e il pezzo di vita trascorso o che stiamo ancora impegnando, nella vita operaia? Riprendendo le domande della lettera di invito: “Come ora ci sporchiamo (o non ci sporchiamo) le mani? Quale l’intuizione politica, l’opzione di fondo che ci guida? Quale è il campo in cui esercitiamo una pratica politica?”.
Occorre dire che questa dimensione si intreccia con le altre che si sono ricordate, come pure le altre sono implicate in questa. La forma concreta che diamo alla nostra esistenza, l’impegno spirituale, la parola dell’annuncio del Vangelo nella chiesa, i rapporti umani che strutturiamo con gli altri, di quali messaggi e di quali azioni sono portatori? Creano condizioni favorenti le assunzioni di responsabilità? Una libertà veramente esercitata in qualsiasi ambito, rappresenta sempre una forma di contagio positivo. Lì ove siamo ed operiamo siamo portatori di una tale libertà?
 

Gli inviti di Beppe e di Sirio

 
Beppe, con uno scritto che riporta le sue riflessioni sul seminario di Camaldoli a cui ha partecipato esattamente un anno fa, ci invita ad ascoltare la lezione del “Vecchio castagno della foresta che circonda il monastero”. Il suo tronco è vuoto, tanto che un monaco vi sta comodamente seduto all’interno, ma…

“…la parte viva e vitale della pianta che permette la circolazione della linfa è solo quella circolare, periferica del fusto… Il mio ultimo relatore, esemplare straordinario di una foresta antica e bellissima, mi ha voluto dare (almeno così mi è parso) una magnifica lezione di speranza. Può darsi che volesse aiutarmi a volgere con più attenzione lo sguardo alla ‘periferia del mondo’, ad indagare più attentamente i segni che salgono da tutti i ‘sud’ che i molti ‘nord’ tentano in ogni modo di asservire alle proprie logiche di sfruttamento e di profitto… Stando all’interno del suo tronco, interamente avvolto dalla straordinaria capacità di accoglienza del suo ‘vuoto’ mi è sembrato di capire che la sua muta, ma eloquente lezione era un grande inno alla vit a” (Pretioperai, 41-42, p.5).

Sirio, ha posto in testa all’editoriale col quale apriva il n. 0 della rivista queste parole di Isaia: “ Una voce dice: ‘Grida!’ e io rispondo: ‘che dovrò gridare’? ”. L’ascolto e la domanda guidino questo nostro incontro.

Roberto Fiorini


 

 

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