“AMA IL TUO SOGNO SE PUR TI TORMENTA:
PASSIONE DELLA LIBERTÀ / OBBLIGO DELLA LIBERAZIONE”

 Viareggio, 30 aprile-2 maggio 1999


 

Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male (Dt. 30, 15)
Dio è il Dio della libertà. Egli, che possiede tutti i poteri per costringermi, non mi costringe. Egli mi ha fatto partecipe della sua libertà. Io la tradisco se mi lascio costringere (Martin Buber)
.
Si dice spesso che la forza è impotente a dominare il pensiero; ma perché questo sia vero, occorre che vi sia il pensiero. Là dove le opinioni irragionevoli tengono il luogo delle idee, la forza può tutto. È assolutamente ingiusto, ad esempio, dire che il fascismo annienta il libero pensiero; in realtà è l’assenza di libero pensiero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali interamente sprovviste di significato. Per la verità, un regime del genere riesce ad accreditare ancora considerevolmente l’imbestiamento generale, e c’è poca speranza per le generazioni che saranno cresciute nelle condizioni da esso determinate (Simone Weil)
.

Ci troviamo di nuovo assieme in questo capannone che sentiamo a noi familiare. Ci era stato presentato per la prima volta 20 anni fa, al convegno nazionale di Viareggio. fl titolo che ci vedeva riuniti – Credere e operare la giustizia — non è passato di moda. Rappresenta ancora una bellissima sintesi, sia pure dentro le nostre differenze, di uno dei punti fondamentali della nascita e della storia dei pretioperai: l’unione tra la fede nel Signore e la vita vissuta nel mezzo della condizione di lavoro con tutte le sue implicazioni.
Il ritrovarci dopo tanto tempo — e il tempo oggi sembra scorrere sempre più veloce — penso che debba destare in noi gratitudine verso Colui che ci ha amato e chiamato ed anche gratitudine reciproca per il dono della presenza e quindi della storia che ciascuno di noi è venuto a condividere.
Ci ritroviamo qui in tempo di guerra, con l’Italia impegnata direttamente quale base organizzativa e logistica degli attacchi della Nato ed anche con l’impiego attivo dei propri apparati militari. La nostra costituzione, nella quale è ancora sancito il libello di ripudio nei confronti della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, ha subito una nuova gravissima ferita. Non solo però la carta costituzionale è stata lacerata, ma anche le nostre coscienze, il senso di appartenenza al nostro paese e all’occidente. Un’angoscia, accompagnata da un profondo senso di impotenza, penetra nell’anima e nei cuori, dovendo assistere a quanto non si vorrebbe mai vedere e dovendo anche immaginare quello che l’informazione “di guerra” occulta per farla apparire pulita, benefica ed etica. La guerra sradica tutti dalla vita condannandoci alla sua terribile irrealtà perché essa è per natura sua distruzione del reale. In termini biblici si potrebbe dire che essa è distruzione della creazione e restaurazione del caos.
Come al solito il nostro metodo di comprensione del reale, per non essere fagocitati nel vortice della irrealtà, richiede lo schierarsi: non secondo i fronti della guerra, ma dalla parte delle popolazioni che sono costrette a subirla nelle sue conseguenze disumane, ostaggi dei poteri elitari, ed esposte alla nuda esibizione della brutalità della forza.
Nonostante il senso di impotenza che assale, è necessario, con tutta l’energia del pensiero di cui disponiamo, cercare di pervenire ad una visione chiara del mondo che stiamo abitando, chiamando con il loro vero nome le cose che sono prodotte ed i soggetti che agiscono.
Chiudendo questo inevitabile riferimento alla guerra credo sia giusto ricordare Sirio e Beppe non solo perché siamo qui a Viareggio, nel capannone dove essi hanno trascorso molti anni di lavoro, ma in particolare per il loro impegno di azione e di pensiero contro la guerra, contro la militarizzazione della vita e della società e contro quella impostazione “pastorale” che prevede l’esistenza di una “chiesa delle stellette” con l’integrazione dei suoi ministri, con tanto di gradi e di emolumenti, nelle gerarchie militari. Può darsi che questo loro impegno, con le esternazioni che essi ne facevano nei nostri convegni, da qualcuno di noi fosse letto come una… divagazione rispetto alle strette tematiche dei pretioperai. Forse oggi, nel momento storico che stiamo vivendo, appare più chiara la ricchezza di quanto ci hanno donato e l’eredità che ci hanno lasciato come dono e come compito.

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La presenza della guerra nel contesto del nostro discorso richiama alla memoria una invocazione che sino a qualche decennio fa si faceva nei quattro giorni delle rogazioni: “a peste fame et bello libera nos Domine!”. L’invocazione riassume in maniera eccezionale l’esperienza, la storia e la memoria sedimentata dei mali e delle oppressioni collettive dalle quali le popolazioni chiedevano di essere liberate o preservate. Le pestilenze con la loro terribile capacità di decimazione delle popolazioni, erano avvolte nella oscurità della conoscenza scientifica e nell’ignoranza dei fattori eziologici. Si capisce come la loro interpretazione culturale e le misure di difesa rientravano in gran parte nell’ambito del religioso. La fame si collegava al capriccio della natura che poteva dare stagioni con vacche grasse o vacche magre, però veniva anche correlata all’ingiusta distribuzione dei beni, all’oppressione dei potenti, all’esosita del fisco, dei proprietari terrieri A differenza della malattia, le cui cause erano sconosciute, la penuria dei beni essenziali alla vita poteva essere diagnosticata, almeno in parte, nei fattori causali umani. La storia è punteggiata di lotte — ricordiamo ad es. la lotta dei contadini al tempo di Lutero — per arrivare al minimo vitale. La guerra sembra essere la somma di tutti i mali, perché con sé portava morte, fame, malattie, pulizie etniche…
L’intervento di don Cesare, che tratterà delle tematiche della libertà – liberazione a partire dall’illuminismo, ci aiuterà a riflettere su quella stagione storica della quale noi siamo eredi, nella quale avviene il processo di secolarizzazione del pensiero nella comprensione scientifica dei processi naturali, dei vari ambiti organizzati della vita sociale, economica e politica, ed anche nella comprensione dell’individuo umano.
La lettura laica dei processi storici consente di evidenziare le responsabilità umane, di analizzarne i meccanismi oggettivi e tecnici che spingono in avanti le decisioni che vengono assunte: apre cioè la possibilità di chiamare per nome le cose.
Nel 1997 è uscito un numero della rivista Concilium che porta un titolo inquietante, ma realistico: Il ritorno delle grandi piaghe. Le piaghe evocano immagini di catastrofi bibliche (Egitto, Apocalisse, castighi di Dio…). Vi è però una profonda differenza tra le piaghe evocate seguendo l’immaginario biblico e la lettura moderna e postmoderna dei grandi mali sociali:

«L’intervento dell’uomo e delle sue decisioni. Questa è probabilmente la caratteristica più originale che spiega l’uso odierno del termine distinguendolo da quanto impiegato per le piaghe tradizionali. In queste ultime l’uomo era vittima di un flagello collettivo e immenso contro il quale non poteva far nulla; peste, fame, malattie ecc. Invece oggi applichiamo il termine a flussi distruttori e pervasivi nei quali sono coinvolti l’uomo e le sue libere decisioni… I mali terribili e distruttori non schiacciano l’uomo dal di fuori, ma progrediscono proprio grazie alle sue stesse decisioni…
La stessa possibilità di fare previsioni statistiche sufficientemente esatte sul numero dei disoccupati dell’anno prossimo, sul numero di morti per
overdose o per incidenti stradali, o sul numero di utenti e vittime del turismo sessuale, conferisce al tema delle piaghe odierne uno spessore di straziante sofferenza. Ma il dolore più intollerabile viene proprio dal fatto che la macchina devastatrice diviene inarrestabile sulla base di decisioni umane concrete e reiterate nell’oscuro e tremendo ambito della libertà» (Mora G., Le piaghe. Definizione e quadro d’insieme, in Concilium 5/97 p. 28-29).

 Questi accenni, riferiti alla tematica del nostro incontro, inducono a ritenere più corretto declinare il termine liberazione nel suo plurale. Parliamo quindi più concretamente di liberazioni. Su questo cammino ci indirizza il passo di A. Heschel già riportato nell’editoriale dell’ultimo numero di Pretioperai e che qui ripropongo:

«Noi non sappiamo risolvere il problema del male, ma non per questo siamo dispensati dall’occuparci dei mali; alla fine dei giorni, il male sarà sconfitto dall’Uno; in tempi storici, i mali devono essere sconfitti ad uno ad uno».

Vi è la doverosità di lottare per le liberazioni dai mali concreti e storici mediante un lavoro metodico che tocca i vari ambiti dell’agire (politico, tecnico, culturale, organizzativo ed anche religioso). Noi credenti riconosciamo che la fonte di questa obbligazione si esprime nella parola di Dio quale manifestazione del suo pensare e del suo stesso agire. Questo nulla toglie ai tanti compagni di cammino che lottano contro i mali e le oppressioni concrete perché è giusto così; perché, senza dare alcun nome, optano e agiscono per le liberazioni storiche. In questo contesto la libertà personale si coniuga come libertà per:

«L’esercizio della libertà è di fatto comandata da criteri di valore… Si dà un criterio per distinguere tra vera libertà e pura spontaneità; questa è bloccata sull’immediato, sul parziale, sul contingente, sull’istintivo; quella tende al progetto globale, totale, relazionale, fondato. La libertà non è norma a se stessa, ma trova senso e misura in un qualche valore. È liberta per» (Rizzi A., La grazia come libertà, Bologna 1975, pp. 48-49). 

L’adesione intima e pratica ai processi di liberazione rappresenta un vincolo al quale la libertà personale si lega e proprio con questo legame perviene al proprio adempimento nella contingenza e nel rischio dell’agire storico.

 

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La lettura secolare dei mali e della produzione moderna delle piaghe non ha messo a tacere le domande teologiche di cui è piena la Bibbia e che rinascono in tante coscienze umane. Anzi, l’eccesso dei mali e la loro produzione in termini di disumanità, su scala quantitativa ed a livello qualitativo forse mai prima conosciuti, incalzano destando domande non nuove ma che nel nuovo contesto assumono un rinnovato vigore.
Dopo don Cesare prenderà la parola Angelo Reginato per proporci il tema libertà – liberazione dal versante biblico – teologico. Va da sé il riferimento alla rivelazione di Dio strettamente correlata all’esodo come evento – processo di liberazione. Noi sappiamo come il Dio della liberazione storicamente è stato assunto da popoli oppressi quale riferimento essenziale per la propria fede e la propria dignità. Un esempio per tutti lo prendo da uno spiritual degli schiavi neri americani:

«Scendi Moses / nel paese d’Egitto / e di’ al vecchio faraone:
Lascia andare il mio popolo!
Quando Israele era nella terra d’Egitto…
Lascia andare il mio popolo!
…Era così oppresso che non poteva rialzarsi.
Lascia andare il mio popolo!
Noi non dobbiamo per sempre piangere e disperarci…
Lascia andare il mio popolo!
…E indossare per sempre le catene della schiavitù!
Lascia andare il mio popolo!
Io credo e non ho dubbi…
Lascia andare il mio popolo!
…Che un cristiano ha il diritto di andare gridando:
Lascia andare il mio popolo! Scendi Moses…».

Vi è però un altro aspetto che deve essere sottolineato: la liberazione riguarda anche l’uso, anzi l’abuso, che si è fatto del nome di Dio tutte le volte che è stato chiamato a puntellare e a sacralizzare poteri umani, spesso oppressivi o è stato chiamato a sostegno per distruggere gli altri. Basti su questo punto una citazione di M. Buber:

«Dio è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue… Non possiamo lavare di tutte le macchie la parola ‘Dio’ e nemmeno possiamo lasciarla integra, possiamo però sollevarla da terra…» (Eclisse di Dio, Milano 1983, pp. 30-31).

Il titolo del libro di Buber per associazione mi richiama alla memoria un appunto di Mario Cuminetti che credo utile riportarvi perché svuota uno spazio artificiosamente riempito chiamando in causa come inevitabile conseguenza l’esercizio doveroso della libertà – responsabilità che, in un contesto di fede, nell’ambito della chiesa e di fronte alla chiesa stessa, possiamo chiamare libertà cristiana.

«In fondo il problema delle chiese (e delle religioni) è quello dello statuto da dare alla presenza – assenza di Dio.
La scrittura, ma anche la chiesa, è prodotta da un lutto. L’assente fa scrivere. Non cessa di scriversi.
Colui che dovrebbe esserci non c’è.
Da qui l’antica preghiera cristiana: “Che io non sia separato da te” ‘Maranathà’ (=Signore vieni).
ll rischio è di riempire questo lutto con una presenza (quella della chiesa). Recuperare la laicità è recupero del lutto. Cioè di fronte al necessario (‘non senza di te, Signore’), divenuto in realtà impossibile — e questa è la figura del desiderio — ci si sente ammalati (‘angosciati?’) perché si è malati dell’unico, che, come dice Maria al sepolcro, ‘non c’è più’, ‘l’hanno portato via’.
Il nostro diventa il linguaggio della ‘nostalgia’ (saudade): estranei al nostro proprio luogo e desiderosi di tornare a casa.
Ma bisogna star qui, non fuggire, non superare la soglia. È la condizione di tutti.
E la chiesa ha preteso di superarla»
(Per Mario, Milano 1995, pp. 60-61).

Sono personalmente convinto che rispetto al 2000 anni di cristianesimo abbiamo la libertà e il compito di ripensare e fare discernimento. Vi è una radicata tradizione di totalitarismo spirituale che certo non viene annullata, e forse neppure indebolita, con le richieste di perdono da parte del papa. Il nodo è l’uso della forza, nelle varianti consentite dai tempi, per piegare alla sottomissione in nome della fede e dell’affermazione della “verità”. Questo modello appare in diretta antitesi con l’agire ed il parlare di Gesù di Nazareth, il quale pur nella chiarezza e nella perentorietà dei suoi appelli, non ha mai usato la forza, perché si rivolgeva all’essere umano senza violenza alcuna proponendo il libero accoglimento del suo messaggio. 2000 anni di cristianesimo portano il peso di un modello e di una organizzazione imperiale e di meccanismi autoritari sacralizzati. Penso che il dire queste cose ed il dirle oggi sia un atto di amore e di onestà intellettuale.
È possibile e legittimo che vi possano essere tra noi opinioni diverse su questo, come su altri punti. Se così fosse penso dipenda, in buona parte, dal fatto che al nostro interno, ed anche dentro ciascuno di noi, possono convivere diversi paradigmi teologici cioè modelli interpretativi, o modelli di comprensione. Per paradigma, categoria utilizzata negli studi di epistemologia, si intende “un’intera costellazione dì convinzioni, valori, modi di procedere ecc. che vengono condivisi dai membri di una determinata comunità” (Kuhn, citato in Kung H., Teologia in cammino, Milano 1987, p. 150). Questi modelli di comprensione mutano in rapporto alle situazioni nuove da affrontare. Nella chiesa, o meglio nelle chiese storiche, noi troviamo la coesistenza reale di diversi modelli interpretativi. Anche nella Bibbia incontriamo la pluralità di paradigmi.

Per venire al concreto della nostra vita e per farci un’idea sulla base dell’esperienza vissuta pensiamo alle codificazioni intervenute nella nostra esistenza con l’inserimento organico nella condizione materiale e spirituale del lavoro. Ricordiamo le nostre denunce “contro l’uso antioperaio della fede” degli anni ‘70: esse venivano esercitate sulla spinta di nuovi modelli interpretativi più aderenti all’esperienza di vita che ci consentivano di cogliere e di soffrire l’ideologia antioperaia. Peraltro noi stessi dobbiamo riconoscere che molti nostri modi di esprimere la fede non erano indenni da ideologia; probabilmente non lo sono tuttora. Credo comunque che per tutti e per ciascuno la vita concreta e il far fronte ai problemi che abbiamo dovuto affrontare abbia funzionato come un fuoco che ci ha forgiato. E’ possibile che per ciascuno sia diventato vero e vitale un pensiero di Bonhoeffer: “Non si può più tornare indietro rispetto a ciò che si è elaborato autonomamente. Ciò può essere scomodo per gli altri, ed anche per se stessi”. Forse è anche questo un aspetto della misteriosa passione della libertà che portiamo in noi stessi. Passione intesa nei due sensi: desiderio e sofferenza. Penso che in questi giorni che trascorriamo insieme siamo chiamati non solo a parlare di libertà / liberazione, ma ad esercitarle l’uno per gli altri in franchezza e rispetto.

«Dio è il Dio della libertà
Egli, che possiede tutti i poteri per costringermi, non mi costringe.
Egli mi ha fatto partecipe della sua libertà.
Io la tradisco, se mi lascio costringere».

(Martin Buber)

Roberto Fiorini


 
Riporto da Kung alcune tesi che possono essere utili sia per l’autocomprensione delle proprie posizioni culturali e teologiche, sia per una migliore comprensione delle comunicazioni degli altri:

Come nella scienza naturale anche nella teologia c’è una “scienza normale” con i suoi classici, testi base e maestri, la quale è caratterizzata:
– da una crescita cumulativa della conoscenza,
– da una soluzione di problemi residui e
– da una resistenza contro tutto ciò che potrebbe avere come conseguenza il mutamento
o la sostituzione del modello di comprensione e del paradigma stabilito…
• Come nelle scienze naturali, pure in teologia è per lo più la coscienza di una crisi crescente a costituire la situazione di partenza affinché si pervenga ad una trasformazione decisiva di certe situazioni di fondo, finora in vigore e, infine, alla comparsa di un nuovo modello interpretativo o paradigma: là dove le regole e i metodi esistenti vengono meno, si è indotti alla ricerca di nuove regole e di nuovi metodi… Il Vangelo stesso si presenta come il diretto scatenatore della crisi teologica, come la causa della discontinuità nella teologia, come impulso per un nuovo paradigma…
• Come nelle scienze naturali, anche nella teologia un modello di comprensione o paradigma vecchio viene sostituito quando ne è già pronto uno nuovo…
• Come nelle scienze naturali, anche in teologia, nell’accettazione o nel rifiuto di un nuovo paradigma entrano in gioco fattori non soltanto scientifici, ma anche extrascientifici, così che il passaggio ad un nuovo modello non può venire imposto razionalmente, ma deve essere descritto come una conversione…
• Come nelle scienze naturali, anche in teologia è solo con difficoltà che si può prevedere, in mezzo a grandi dispute, se un nuovo modello di comprensione o paradigma viene assorbito oppure sostituisce quello vecchio, o invece non viene archiviato per lungo tempo. Se viene accettato, l’innovazione si consolida in tradizione…
• Ci si deve rendere conto che i mutamenti di paradigma non sono mai così completi come potrebbe far pensare la definizione vera e propria; che i paradigmi concorrenti non sfociano mai realmente in immagini del mondo totalmente inconciliabili tra loro; e che nella scienza le discontinuità teoretiche coprono più profonde continuità metodologiche sotterranee.
Se vogliamo comprendere l’evoluzione della
teologia dobbiamo evitare la scelta, non solo tra una visione assolutistica e una relativistica, ma anche una continuità totale e una discontinuità totale» (Kung H., Teologia in cammino, pp. 157-175).


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