“IL VANGELO NEL TEMPO:
SENSO DI UNA VITA”
Incontro nazionale PO / Viareggio, 28-30 aprile 2000
Don Cesare Sommariva è venuto al nostro incontro di Viareggio tornando da Cuba e ci ha presentato il discorso che Fidel Castro ha tenuto il 12 aprile a Cuba, a “La Cumbre” di 77 Paesi del Sud. Non è stato pubblicato in Italia. La lettura di questo discorso dà certamente una visione del tempo attuale.
Prima di presentarlo, don Cesare ha sottolineato tre punti, o meglio tre contraddizioni fuori controllo:
1. L’alienazione dell’essere umano che diventa nulla perché il nulla del capitale diventi tutto.
2. L’aumento delle polarizzazioni a tutti i livelli tra chi lavora e chi no e all’interno di chi lavora.
3. La distruzione delle risorse della terra.
Come uscirne? I paesi poveri come soggetto… di strategia.
Egregi delegati e invitati:
1. mai prima d’ora l’umanità ha avuto un potenziale scientifico-tecnico così formidabile, una capacità di generare ricchezze e benessere così straordinaria e mai prima d’ora il mondo è stato così disuguale e la disuguaglianza così profonda.
Le meraviglie tecnologiche, che hanno reso il pianeta più piccolo in termini di comunicazione e distanze, coesistono con l’enorme e sempre maggiore distanza tra ricchezza e povertà, tra sviluppo e sottosviluppo. La globaliz-zazione è una realtà oggettiva, che rende manifesta la nostra condizione di passeggeri su una stessa barca, in questo pianeta abitato da tutti. Però su questa barca i passeggeri viaggiano in condizioni molto diseguali. Una esigua minoranza viaggia in camere di lusso dotate di internet, telefoni cellulari, accesso alle reti globali di comunicazione, dispone di una dieta alimentare abbondante ed equilibrata; consuma acqua limpida, ha cure mediche sofisticate e accesso alla cultura. Un’oppressa e dolente maggioranza viaggia in condizioni che somigliano alle orribili traversate del commercio degli schiavi tra Africa e America nel passato coloniale. Ammucchiata in case insalubri, con fame, malattia, senza speranza, viaggia in questa barca l’85% dei passeggeri. È evidente che grava troppa ingiustizia per mantenersi a galla e segue un corso così irrazionale e assurdo che non può raggiungere un porto sicuro. Questa barca sembra destinata a sbattere contro un iceberg. Se così fosse affonderemmo tutti i capi di stato e di governo qui riuniti, rappresentanti dell’oppressa e dolente maggioranza, abbiamo il diritto e ancora di più l’obbligo di dare un colpo di timone e correggere questa rotta catastrofica. Abbiamo l’obbligo di occupare il posto che ci spetta sul ponte di comando e fare in modo che tutti si navighi in condizioni di solidarietà, uguaglianza e giustizia.
2. Durante l’ultimo ventennio al terzo mondo è stato ripetuto un discorso semplicista e unico e gli si è imposto una unica politica. Ci è stato assicurato che il mercato senza regole, la privatizzazione massima e il ritiro dello stato dalla attività economica erano i principi infallibili per raggiungere lo sviluppo economico sociale. Seguendo tali principi, i paesi sviluppati, in particolar modo gli Stati Unti, le grandi trasnazionali beneficiarie di questa politica e il Fondo Monetario Internazionale hanno disegnato nell’ultimo ventennio l’ordine economico mondiale più ostile per il progresso dei nostri paesi e anche più insostenibile per il mantenimento della vita in termini sociali e ambientali. La globalizzazione è stata chiusa nella camicia di forza del neo liberismo e come tale tende a globalizzare non lo sviluppo, ma la povertà; non il rispetto alla sovranità nazionale dei nostri stati, ma la violazione, non la solidarietà tra i popoli ma il “si salvi chi può” nel mezzo della competizione diseguale nel mercato. Due decenni del cosiddetto aggiustamento strutturale neo liberale hanno lasciato un saldo di insuccesso economico e disastro sociale che è dovere dei politici responsabili affrontare con il proposito di prendere decisioni imprescindibili per portar fuori il terzo mondo da questa strada senza uscita. Il fallimento economico è evidente. Sotto le politiche neoliberali, l’economia mondiale ha avuto una crescita globale tra il ’75 e il ’98 che è stata appena la metà di quella raggiunta nel periodo ’45-’75 con le politiche Keynesiane di regolamento del mercato e attiva partecipazione dello stato nell’economia. In America Latina dove il neoliberismo è stato applicato con una ortodossia dottrinale, la crescita economica della tappa neo liberale è andata poco più in là della metà di quanto si è ottenuto con le politiche di sviluppo condotte dagli stati. L’America Latina non aveva debiti all’inizio del periodo postbellico. Oggi dobbiamo quasi un milione di milione di dollari. Il debito per abitante è il più alto del mondo. La differenza di entrate tra ricchi e poveri è la più alta del mondo. Ci sono più poveri disoccupati e affamati che nei tempi peggiori della storia. Con il neo liberismo, l’economia mondiale non è cresciuta più rapidamente in termini reali, ma invece si è moltiplicata l’instabilità, la speculazione, il debito estero, lo scambio diseguale, la tendenza a frequenti crisi finanziarie, la povertà, la disuguaglianza e l’abisso tra il nord ricco e il sud impoverito. Crisi, instabilità, turbolenza e incertezza sono stati i termini più utilizzati negli ultimi due anni per parlare dell’ordine economico mondiale. La deregulation neo liberale e la liberalizzazione del conto dei capitali hanno profonde ripercussioni negative in una economia mondiale, nella quale fiorisce la speculazione dei mercati finanziari nei quali si realizzano transazioni quotidiane non inferiori ai tre milioni di milioni di dollari, la maggioranza delle quali sono totalmente speculative.
Ai nostri paesi è richiesta maggiore trasparenza nell’informazione e un’effettiva supervisione bancaria, ma enti finanziari come i fondi di copertura non offrono informazioni riguardo le proprie attività, non hanno nessuna regolamentazione e realizzano operazioni utilizzando una quantità di moneta molto maggiore di tutte le riserve presenti nelle banche dei pae-si del sud.
Nel clima di speculazione che sta straripando, i movimenti di capitale a breve termine rendono vulnerabili i paesi del sud di fronte a qualsiasi contingenza esterna. Si obbliga il terzo mondo a immobilizzare risorse finanziarie, a indebitarsi per mantenere riserve di monete con l’illusione di resistere ad attacchi speculativi. Più del 20% delle entrate di capitale negli ultimi anni è stato immobilizzato come riserva e alla fine è risultato incapace di resistere a tali attacchi, come si è dimostrato nella recente crisi finanziaria iniziata nel sud-est asiatico. Negli Stati Uniti sono stati collocati circa 727.000 milioni di dollari provenienti dalle riserve delle banche centrali del mondo. Questo dà luogo al paradosso che i paesi poveri offrano con le proprie riserve, finanziamenti a buon mercato, e a lungo termine al paese più ricco e potente del mondo, riserve che possano investirsi non solo nello sviluppo economico ma anche sociale. Se a Cuba (nonostante il blocco economico che dura già da 40 anni) si è potuto fare quello che è stato fatto nell’educazione, salute, cultura, scienza, sport e altre sfere sociali, con esito che nessuno può discutere nel mondo, e per di più abbiamo rivalorizzato sette volte la nostra moneta negli ultimi 5 anni in relazione al dollaro, questo è stato possibile grazie al privilegio di non appartenere al Fondo Monetario Internazionale.
Il sistema finanziario che obbliga a mantenere congelati una tale quantità di risorse a paesi che le necessitano disperatamente per proteggersi dall’instabilità che il proprio sistema genera e che favorisce che i paesi poveri finanzino i ricchi, è un sistema che deve essere demolito.
3. Il menzionato Fondo Monetario Internazionale è l’organizzazione emblematica dell’attuale sistema monetario, nella quale gli Stati Uniti godono di potere di veto sulle decisioni. Nella recente crisi finanziaria l’FMI ha dimostrato imprevisione, maldestro maneggio della crisi una volta iniziata e imposizioni delle proprie clausole di condizionalità che paralizzano le politiche di sviluppo sociale dei governi, creando gravi problemi interni e impedendo di ottenere le risorse necessarie nei momenti di maggiore richiesta. È ora che il terzo mondo domandi con energia la demolizione di un organismo che non offre stabilità all’economia mondiale e che funziona non per consegnare fondi preventivi ai debitori evitando loro crisi di liquidità, ma per proteggere e riscattare i creditori.
Che razionalità o che etica può avere un ordine monetario internazionale che permette ad alcuni tecnici i cui incarichi dipendono dall’appoggio nord americano, di disegnare da Washington programmi di aggiustamento economico sempre uguali, per essere applicati all’enorme varietà di paesi e problemi concreti del terzo mondo?
Chi si assume la responsabilità quando i programmi di aggiustamento provocano caos sociali, paralizzano e destabilizzano paesi con importanti risorse umane e naturali come è successo in Indonesia ed Ecuador?
Per il terzo mondo è di vitale importanza fare sparire questa sinistra istituzione e la filosofia che essa rappresenta per sostituirla con un organo regolatore delle finanze internazionali, che funzioni su basi democratiche e senza potere di veto per nessuno, che non sia il difensore esclusivo dei creditori ricchi, che non imponga condizioni di ingerenza e che permetta di regolare i mercati finanziari per frenare la speculazione straripante.
Una forma possibile per fare questo sarebbe stabilire una imposta non dello 0,1%, come proposto dal geniale Tobin, ma dell’1% come minimo alle transazioni finanziarie speculative. Questo permetterebbe inoltre di creare un fondo necessario e corposo, superiore al milione di milione di dollari ogni anno, per il vero sostenibile ed integrale sviluppo del terzo mondo. Il debito estero dei paesi sottosviluppati stupisce per la quantità gigantesca, per lo scandaloso meccanismo di sottomissione e sfruttamento che esso implica e per la ridicola forma proposta dai paesi sviluppati per affrontarlo. Questo debito supera già i 2,5 milioni di milioni di dollari e nel decennio attuale ha avuto una crescita più pericolosa di quella degli anni 70. Una gran parte di questo nuovo debito può facilmente cambiar di mano nei mercati secondari: è più dispersa ed è più difficile da rinegoziare. Ancora una volta devo ripetere quello che dal 1985 continuiamo ad impostare, il debito è già stato pagato se si considerano i termini nei quali è stato contratto, la vertiginosa e arbitraria crescita dei tassi di interesse del dollaro nel decennio precedente e l’abbassamento delle materie prime, fondamentale fonte di entrata dei paesi che ancora stanno per svilupparsi. Il debito continua ad alimentarsi in un circolo vizioso dove si chiede un prestito per poter pagare gli interessi. Oggi, è ancora più evidente che il debito non è un problema economico ma politico e pertanto esige una soluzione politica. Non si può continuare ad ignorare che si tratta di un argomento la cui soluzione deve venire fondamentalmente da coloro che hanno le risorse e il potere per questo: i paesi ricchi.
4. La cosiddetta iniziativa per la riduzione del debito dei paesi poveri altamente indebitati ha un nome lungo e risultati scarsi. L’unico appellativo che merita è quello di ridicola, poiché si propone di alleggerire l’8.3% del debito totale dei paesi del sud e a quasi quattro anni di messa in pratica, solo 4 paesi dei 33 più poveri sono riusciti a superare il complicato processo e tutto questo per condonare l’insignificante cifra di 2.700 milioni di dollari che è il 33% di quello che ogni anno si spende negli Stati Uniti solamente in consumo.
Il debito estero è oggi uno dei maggiori ostacoli per lo sviluppo ed è una bomba pronta a scoppiare sotto le fondamenta dell’economia mondiale in qualsiasi congiuntura di crisi economica. Le risorse necessarie per una soluzione di fondo di questo problema non sono grandi se si paragonano con le ricchezze e le spese dei paesi creditori. Solo nel finanziare armi e soldati quando non c’è la guerra, si spendono annualmente 800.000 milioni di dollari, non meno di 400.000 milioni in droghe e stupefacenti e in aggiunta a questo 1.000.000 di milioni in pubblicità commerciale così alienante come le droghe. Questo solo per citare tre esempi. Come abbiamo detto altre volte, con sincero realismo, il debito estero del terzo mondo è impagabile. Il commercio mondiale continua a essere, e lo sarà sempre più sotto la globalizzazione neo liberale, uno strumento di dominio dei paesi ricchi, un fattore di perpetuazione e accentuazione delle disuguaglianze e uno scenario di forte lotta tra i paesi sviluppati per controllare i mercati del presente e del futuro. Il discorso neo liberale raccomanda la liberalizzazione commerciale come formula unica e assoluta per raggiungere l’efficienza e lo sviluppo. Secondo questa tutti i paesi devono eliminare gli strumenti di protezione dei mercati interni e le differenze di sviluppo tra paesi, per grandi che siano non giustificherebbero il voler modificare il cammino che si pretende di presentare senza altra alternativa possibile.
Dopo le ardue negoziazioni nell’OMC, si riconoscono ai paesi poveri alcune piccole differenze nelle rate per entrare pienamente in questo sistema nefasto. Mentre il neo liberismo ripete il discorso sopra le opportunità che offre l’apertura commerciale, il peso dei paesi sottosviluppati nelle esportazioni mondiali è stato, nel 1998, inferiore a quello che aveva 45 anni addietro, nel 1953. Il Brasile con 8,5 milioni di chilometri quadrati, 168 milioni di abitanti e 51.100 milioni di dollari di esportazione nel 98, esporta molto meno che l’Olanda con i suoi 41.500 chilometri quadrati, 15.7 milioni di abitanti e 198.700 milioni di dollari nello stesso anno. La liberalizzazione nel commercio ha significato fondamentalmente una eliminazione unilaterale degli strumenti di protezione da parte del sud, senza che i paesi sviluppati abbiano fatto lo stesso per permettere l’entrata, nei propri mercati, delle esportazioni dal terzo mondo. I Paesi ricchi hanno promosso la liberalizzazione in settori strategici vincolati al dominio tecnologico nei quali godono di enormi vantaggi che il mercato senza regole si incarica di accrescere. Sono i casi classici dei servizi, della tecnologia dell’informazione, della bio tecnologia e delle telecomunicazioni. Al contrario, settori come l’agricoltura e il tessile , di grande importanza per i nostri paesi, non sono riusciti neppure a eliminare le restrizioni accordate già durante la Ronda Uruguay, poiché non rispondono agli interessi dei paesi sviluppati. Nei paesi dell’OCDE, il gruppo dei più ricchi, il dazio medio applicato all’esportazione dei manufatti dei paesi sottosviluppati è 4 volte maggiore a quello che si applica ai paesi dello stesso gruppo. Contro i paesi del sud si alza un vero muro di barriere che non sono daziali. Nel commercio internazionale si è instaurato un discorso ipocrita ultra liberale che si combina con un protezionismo selettivo imposto dai paesi del nord. I prodotti di base continuano a essere l’anello più debole nel commercio mondiale. Per 67 paesi del sud questi prodotti rappresentano non meno del 50% delle entrate per esportazione.
L’ondata neo liberale ha spazzato con gli schemi difensivi la relazione di interscambio dei prodotti basilari. Il supremo diktat del mercato non poteva tollerare nessuna distorsione e pertanto, i convegni dei prodotti di base e altre formule difensive per combattere l’interscambio diseguale sono state abbandonate. Per questo prodotti come lo zucchero, il cacao, il caffè e simili, oggi, hanno un potere d’acquisto equivalente al 20% di quello che avevano nel 1960 e non riescono neppure a coprire i costi di produzione. La relazione speciale è differenziata verso i paesi poveri, che è il riconoscimento non solo delle enormi differenze nello sviluppo che impediscono di applicare alla stessa stregua per ricchi e poveri ma anche di un passato storico coloniale che esige compensazione, è stata giudicata non come un atto di giustizia elementare e una necessità che non può essere ignorata, ma come un esercizio temporaneo di carità. La fallita riunione di Seattle ha espresso la stanchezza e l’opposizione che la politica neoliberale provoca in crescenti settori dell’opinione dei paesi del sud e del nord. Gli Stati Uniti hanno presentato la ronda di negoziazione commerciale che doveva partire da Seattle come un passaggio superiore nella liberalizzazione commerciale, senza preoccuparsi e talvolta senza ricordarsi della presenza dell’aggressiva discrimi-natoria legge di commercio estero che include disposizioni come la cosiddetta “SUPER 301” che è un campionario di discriminazione e minacce di sanzioni verso altri paesi per ragioni che vanno dalla supposta applicazione di barriere a prodotti nord americani fino all’arbitraria, interessata e molte volte cinica qualificazione che un governo vuole dare a un altro riguardo il tema dei diritti umani. A Seattle c’è stata una sollevazione contro il neo liberismo che ha avuto un antecedente nel rifiuto agli intenti di imporre un’Accordo Multilaterale di Investimenti. Sono manifestazioni del fatto che l’aggressivo fondamentalismo del mercato che ha prodotto enormi perdite ai nostri paesi, sta sollevando una forte e meritata repulsione mondiale. In aggiunta alle calamità economiche riferite, gli alti prezzi che raggiunge il petrolio costituiscono un fattore di sostanziale impoverimento della situazione dei paesi del sud, che sono importatori di questa risorsa vitale.
5. Il terzo mondo rifornisce circa l’80% del petrolio che si commercializza a livello mondiale, e di questo totale l’80% si esporta verso i paesi sviluppati. I paesi ricchi possono pagare qualsiasi prezzo per l’energia che sprecano al fine di sostenere consumi lussuosi e distruggere l’equilibrio ecologico. Negli Stati Uniti si consumano in un anno 8,1 tonnellate di petrolio per abitante, mentre nei Paesi del terzo mondo si consumano in media 0,8 tonnellate e tra questi nei 48 più poveri solo lo 0,3. Quando i prezzi salgono vertiginosamente da 12 a 30 dollari per barile, se non di più, l’effetto è devastante sui paesi del terzo mondo e questo va a sommarsi ai già presenti impatti negativi del debito estero, con l’abbassamento dei prezzi dei prodotti delle materie prime, alle crisi finanziarie e allo scambio diseguale. Un nuovo interscambio di questa natura, questa volta con i propri fratelli del sud emerge producendo disastri. Il petrolio è un prodotto così vitale e di universale necessità che in realtà sfugge alle leggi del mercato. Il suo prezzo di una forma o dell’altra è sempre stato deciso dalle grandi transnazionali o dai paesi del terzo mondo esportatori di petrolio, associati in difesa dei propri interessi. I prezzi bassi beneficiano fondamentalmente i paesi ricchi, grandi dissipatori di combustibile. Allo stesso tempo, limitano la ricerca e lo sfruttamento dei nuovi giacimenti, lo sviluppo di tecnologie che riducano il consumo e proteggano l’ambiente e colpiscano gli esportatori del nostro mondo. I prezzi alti beneficiano agli esportatori. Sono facilmente sopportabili dai paesi ricchi, ma tolgono la speranza e sono distruttivi per l’economia di gran parte del terzo mondo. Questo è un buon esempio di quanto, nel commercio mondiale, una relazione differenziata verso i paesi in condizioni diseguali di sviluppo debba costituire un principio giusto e imprescindibile. È assolutamente ingiusto che il Mozambico, un paese povero del terzo mondo, con 84 dollari di pil procapite debba pagare per un prodotto così vitale lo stesso prezzo che paga la Svizzera con 43.400 dollari procapite, 516 volte di più del Mozambico. Il patto di San José, stretto 20 anni fa dal Venezuela e dal Messico con un gruppo di piccoli paesi dell’area importatori di petrolio, costituisce un buon precedente di ciò che può e deve essere fatto tenendo in considerazione le condizioni particolari di ciascuno dei paesi del terzo mondo in circostanze simili, sebbene evitando questa volta condizionamenti per il trattamento differenziato che si riceve. Alcuni non sono in condizioni di pagare più di 10 dollari a barile, altri non possono pagare più di 15 dollari e nessuno può pagare più di 20 dollari. Il mondo dei paesi ricchi, sciupone e consumista può invece pagare più di 30 dollari a barile senza essere minimamente sfiorato. Se essi consumano l’80% di quello che i produttori del terzo mondo esportano, un prezzo inferiore per il restante 20% rimarrebbe vantaggiosamente ricompensato. Sarebbe una formula concreta ed effettiva di convertire la cooperazione Sud-Sud in un potente strumento per lo sviluppo del terzo mondo. Fare un’altra cosa significherebbe divorarci da soli. Nel mondo globalizzato, dove la conoscenza è la chiave di sviluppo, il divario tecnologico tra il nord e il sud si allarga maggiormente in condizione di crescente privatizzazione della ricerca scientifica e dei suoi risultati. I paesi sviluppati, con il 15% degli abitanti del pianeta, concentrano l’88% degli utenti di Internet. Solo negli Stati Uniti ci sono più computer che nel resto del mondo. Questi paesi controllano il 97% dei brevetti a livello globale, ricevono più del 90% dei diritti di licenze internazionali, mentre l’uso dei diritti di proprietà intellettuale per molti dei paesi del sud è inesistente. Il furto si impone superficialmente per la necessità nella ricerca privata. I diritti di proprietà intellettuale escludono la conoscenza ai paesi sottosviluppati e la legislazione dei brevetti non riconosce né la conoscenza, né i sistemi tradizionali di proprietà, così importanti nel sud. La ricerca privata si concentra nelle necessità dei consumatori ricchi. Rispetto alle spese per la salute, le vaccinazioni sono la tecnologia più efficiente poiché sono capaci di prevenire una malattia con una dose che si somministra una volta sola. Producono, però, poco profitto e sono confinate rispetto a medicine che richiedono applicazioni ripetute, producendo maggiori profitti. Nuovi medicamenti, sementi migliori, e in generale le tecnologie migliori convertite in merce hanno un prezzo alla portata solo dei paesi ricchi. I tetri risultati sociali di questa corsa neo liberista verso la catastrofe sono alla vista di tutti.
6. In più di 100 paesi, il reddito per abitante è inferiore a quello di 15 anni fa. 1.600 milioni di persone vivono oggi peggio di quanto vivevano agli inizi degli anni 80. Più di 820 milioni di persone sono denutrite e di queste 790 milioni vivono nel terzo mondo. Si stima che 507 milioni di persone che abitano oggi nei paesi del sud non sopravvivranno oltre i 40 anni di età. Nei paesi del terzo mondo, che qui rappresentiamo, ogni 5 bambini 2 soffrono di ritardo nella crescita e 1 su 3 è sotto peso rispetto alla sua età. Ogni giorno muoiono 30.000 bambini che potrebbero salvarsi; 2.000.000 di bambine sono forzate a esercitare la prostituzione; 130.000.000 non hanno accesso all’educazione di base mentre 250.000.000 sotto i 15 anni sono obbligati a lavorare per sopravvivere. L’ordine economico mondiale funziona per il 20% della popolazione, ma esclude, umilia e degrada il restante 80%.
Non possiamo rassegnarci a entrare nel prossimo secolo come la retroguardia arretrata, povera, sfruttata, vittima del razzismo e della xenofobia a cui è impedito di accedere alla conoscenza e che soffre l’alienazione della propria cultura per mezzo del messaggio estraneo e consumista che i mezzi di comunicazione globalizzano.
Per il Gruppo dei 77, l’ora attuale non può essere di suppliche ai paesi sviluppati, di sottomissione, di sconfitta o divisioni interne ma di riscatto del nostro spirito di lotta, di unità e coesione intorno alle nostre domande.
50 anni fa ci promisero che un giorno non ci sarebbe più stato abisso tra i paesi sviluppati e quelli sottosviluppati. Ci promisero pane e giustizia e oggi c’è sempre meno pane e sempre meno giustizia.
Il mondo potrà globalizzarsi sotto l’egida neo liberale. Ma è impossibile governare 1.000 milioni di persone affamate di pane e di giustizia. Le immagini che vediamo di madri e bambini nelle regioni interne dell’Africa, colpite dal flagello della siccità e altre catastrofi, ci ricordano i campi di concentramento della Germania nazista, ci fanno vedere di nuovo davanti agli occhi le montagne di cadaveri di uomini, donne e bambini moribondi. Manca una Norimberga per giudicare l’ordine economico che ci hanno imposto, che ogni 3 anni uccide di fame e di malattie prevenibili o curabili più uomini, donne e bambini di quanti ne furono uccisi nei 6 anni della seconda guerra mondiale. Che fare? È quello di cui dobbiamo discutere qui.
A Cuba diciamo: “Patria o morte”. In questa conferenza del terzo mondo, ci tocca dire: “O ci uniamo e cooperiamo strettamente, o ci aspetta la morte”.
Fidel Castro
La Habana, 12 aprile 2000
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Adesso la cifra è diversa: sono 30.000 al giorno i bimbi che muoiono di malattie curabili. Più di 20 al minuto.