Sguardi e voci dalla stiva (4)


 

Riporto questo mio articolo che risale al 2004. Può essere utile per comprendere che il disastro sanitario lombardo, che il Covid-19 ha svelato in piena luce, abbia radici lontane. Ricordo che in quell’anno l’organizzazione sindacale dell’Azienda Sanitaria Locale (ASL) in un documento parlava dei “tagliatori di teste” riferendosi ai consulenti del Direttore generale dell’ASL che operavano nel senso di smontare i servizi ai cittadini erogati direttamente dall’Azienda Sanitaria nel territorio di competenza. Con il risultato della desertificazione del territorio stesso e della solitudine delle popolazioni apparsi in maniera eclatante e drammatica con l’aggressione del Covid-19.

Fino al dicembre 2002 ho lavorato come operatore sanitario all’Asl di Mantova. La mia carriera lavorativa iniziò nel 1973 presso l’ex Ospedale Psichiatrico del Dosso del Corso. L’ottica che ha accompagnato il mio iter professionale è stata la costruzione di servizi sanitari territoriali pubblici vicini alla gente, decentrati sul territorio. In particolare mi sono occupato della assistenza domiciliare infermieristica e dell’assistenza domiciliare integrata, quella che è fornita a casa da diverse figure professionali.
Da più di un anno sono in pensione, come operatore sanitario, e vedo dal di fuori quello che sta avvenendo nella organizzazione di cui ho fatto parte, ma vivo dall’interno le vicende sanitarie in quanto utente e in quanto osservatore abbastanza sensibile, data la mia storia professionale.

Recentemente ho incontrato l’assistente sociale di una casa di riposo conosciuta dieci anni fa in un gruppo di studio che aveva l’obiettivo di definire modalità eque di accesso alle strutture residenziali geriatriche che tenessero conto dei livelli di non autosufficienza dell’anziano e della situazione familiare. L’ammissione alle strutture spettava in via prioritaria ai casi più gravi o impegnativi. Per i parenti bastava un’unica domanda e questa era sufficiente per aprire l’accesso a quattro strutture geriatriche dell’attuale distretto di Mantova (due cittadine più quelle di Roncoferraro e Rodigo) secondo priorità documentate dall’Unità di Valutazione Geriatria (UVG), costituita e finanziata dall’ASL. In seguito tale modalità ha trovato applicazione anche in altri distretti della provincia. Ora tutta questa organizzazione è saltata, per la soppressione delle UVG, e chi fa la richiesta deve inoltrarla a ciascuna delle strutture nella speranza di trovare un posto.
L’assistente sociale sottolineava la solitudine e lo smarrimento di parenti e anziani costretti a peregrinare da una casa di riposo all’altra dovendo sempre di nuovo riprendere da capo l’iter burocratico per chiedere l’ammissione. Il concetto di rete di servizi per anziani, che per molti anni aveva guidato le scelte di politica sanitaria e sociale in Lombardia, è stato abolito in nome della libertà di scelta del cittadino, ma col vero obiettivo di ridurre i costi pubblici. Il risultato – notava l’assistente sociale – è l’aggravarsi della solitudine degli anziani, drammaticamente balzata alle cronache in Francia e in Italia l’estate scorsa, e una vita più difficile e preoccupata per chi si prende cura di loro.

Nel 2001 l’ASL ha promosso una indagine su base provinciale, commissionata all’istituto di ricerca EURISKO, per conoscere “la qualità percepita – da parte dei cittadini e degli stessi operatori – dei servizi offerti dalla Sanità pubblica mantovana”.

Mi limito a riportare un dato relativo all’assistenza domiciliare fornita dai servizi dell’ASL, con personale dipendente e convenzionato. L’85% degli utenti interpellati ha dato sul servizio fruito il giudizio di qualità “molto buono o buono”. La stessa EURISKO dava il raffronto con l’equivalente dato regionale (62%) e nazionale (59%). Nonostante l’apprezzamento lusinghiero espresso dagli utenti della provincia di Mantova, questo servizio deve essere smantellato perché lo impone il dogma neoliberista della politica regionale che prevede, a differenza di altre regioni italiane, il divieto per ASL di erogare direttamente servizi, anche se ben funzionanti. Se tuttora continua a offrirli è per forza maggiore perché sul mercato non è ancora riuscita a trovare chi può colmare il vuoto di una chiusura totale. Ma è solo questione di tempo. Si può immaginare con quale respiro e programmazione si può lavorare in un servizio destinato a scomparire! Alcuni operatori se ne sono andati, chi va in pensione non viene sostituito. Certamente non è nell’interesse dei cittadini far scomparire un patrimonio organizzativo, professionale e culturale costruito con molti anni di lavoro. Il SeTRA, servizio territoriale riabilitativo di Valletta Valsecchi, passato al “Carlo Poma”, è stato chiuso da tempo e gli operatori dispersi. La cosa folle è che sono servizi utili, vicini alla gente, stimati e apprezzati per il lavoro svolto. La dissoluzione di questi servizi, in perfetta e zelante coerenza con i diktat milanesi, rappresenta un impoverimento della realtà mantovana e non hanno nulla a che vedere con la conclamata libertà di scelta del cittadino in materia sanitaria. Hanno, invece come obiettivo vero la riduzione delle protezioni sociali e sanitarie offerte sino ad ora e l’aggravamento dei costi a carico di famiglie e utenti. Questo è quanto esige l’ortodossia neoliberista imperante.
Perché l’ASL non promuove ora, come è stato fatto nel 2001, una indagine sul gradimento dei cittadini e dei dipendenti sulle novità introdotte in questi ultimi tempi e su come vengono percepite dalle parti interessate?

In questi ultimi mesi i medici sono ricorsi allo sciopero per il rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da anni, contro lo smantellamento del sistema sanitario nazionale, in corso di attuazione, e contro la devolution che avrebbe come effetto la frantumazione della sanità pubblica. Il bello è che il ministro Sirchia si dichiara solidale con loro. Ma allora che ci sta a fare al ministero della salute?
Quello che denunciano i medici lo verifichiamo anche noi andando in farmacia e constatando l’incremento annuo delle spese sanitarie da sostenere a causa della riduzione delle garanzie offerte dal sistema pubblico. La cosa non riguarda solo l’Italia, ma la maggior parte dei paesi occidentali. Il problema è come finanziare il sistema sanitario pubblico. Vi sono dei paesi, come Svezia, Danimarca e Finlandia, nei quali invece di puntare sulla riduzione delle tasse, si sceglie di garantire elevati standard di qualità per i servizi dello stato sociale (sanità, istruzione e previdenza). Da noi e in numerosi altri paesi, invece, il cavallo di battaglia della campagna elettorale è la promessa della riduzione delle tasse. In Italia questa promessa è stata ampiamente mantenuta per i redditi alti, fino a raggiungere livelli scandalosi, mentre esattamente il contrario si verifica per la maggioranza della popolazione.
“Secondo il recente studio di Dwartney e Lawson, Economic Freedom of the World (2003), nel periodo 1980-2001 nei paesi dell’OCSE la tassazione sulla quota più elevata di reddito personale è passata dal 67% al 44%, con un calo di ben 23 punti percentuali in 21 anni. Allo stesso modo, in sette anni (dal 1995 al 2003) l’aliquota marginale sui livelli massimi di reddito di impresa è caduta di quasi sette punti percentuali passando dal 37,6% al 30,9%. Nel complesso, dunque, i contribuenti più ricchi delle nazioni più ricche concorrono alla formazione del bilancio pubblico dei propri Paesi in misura notevolmente ridotta rispetto a quanto non facessero una ventina d’anni fa.” (G. Signorino, Presunta ineluttabilità dello smantellamento del welfare state, in Presbyteri 1/2004, p.59).
Di conseguenza l’iniquità fiscale a vantaggio dei più ricchi determina l’imposizione di tagli dei servizi e la richiesta di sacrifici a carico della maggioranza dei cittadini.

Roberto Fiorini


 

 

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