REINVENTARE LA VITA: TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’
Incontro nazionale PO / Bergamo / 28-30 aprile 2005


 

ALCUNE PAROLE DI SERGIO QUINZIO


• I testi di Sergio Quinzio sono una mia lettura frequente, trovandovi una esperienza di fede essenziale, libera e di una coerenza dolorosa, perciò credibile.
• Perciò desidero offrire alcune mie considerazioni, alcuni commenti ai suoi scritti ed infine alcune pagine del libro di Sergio Quinzio “La sconfitta di Dio” Ed. Adelphi.
• Le sue riflessioni e parole sono piene di compassione (patire-con) per questa umanità sofferente, violentata.
Sergio Quinzio confessa una fede nuda, tagliente come una spada, in un Dio che si è fatto carne e storia umana, coinvolto fino alla morte.
• DaIle sue riflessioni e confessioni vanno accolti il rigore e la “passione” di una profonda purificazione del nostro parlare di fede e di Dio.
• È sulla linea della fede di Giobbe, che, innocente (se mai un uomo è innocente) soffre una angoscia grande, ma che continua a riferirsi al suo Dio, il suo “goèl” e lo interroga ripetuta-mente fino a sfidarlo e a chiamarlo in giudizio.
• Sergio Quinzio fa una lettura tragica del nostro vivere oggi, lettura nella quale però la Scrittura diventa chiave di comprensione e assunzione di responsabilità. Una profonda e rara conoscenza della visione biblica ebraica e neotestamentaria, fa un tutt’uno con il suo essere dentro la storia umana, che diventa racconto di una fede problematica ma vera, fede che soprattutto fa domande.



Dalla Postfazione di Daniele Garota al libro di Sergio Quinzio
“La Speranza nell’Apocalisse” 

«Una delle prime cose che apprende chi si avvicina ai suoi scritti, è che la fede va accolta con tutto il suo carico di problemi: la fede pone domande più che dare risposte ed è da lì che si deve cominciare, dai quesiti più radicali, dai conti che non tornano. Per Quinzio soltanto una fede “consapevole della sua terribile difficoltà” può diventare “seria, vera, disperatamente viva” (S. Quinzio, Dalla gola del leone, pag. 154).
Quando veniamo a sapere dell’oceano di sofferenza che affligge in ogni istante le creature della terra, il credente non può volgere altrove il suo sguardo, perché se viene meno il dolore, anche la speranza cessa di essere tale: “la speranza è viva solo finché è vivo il dolore, l’orrore dal quale speriamo di essere salvati” (S. Quinzio, Dalla gola del leone, pag. 98)
L’originalità di Quinzio è stata proprio quella di riscoprire come un filo rosso che attraversa la storia dell’uomo e del mondo questa sete, questa esigenza di salvezza sine glossa, questa tensione, per farne l’unica ragione di vita.
Il terrore apocalittico che Quinzio sentiva incombere sul mondo, lo percepiva sull’onda delle parole dei profeti biblici, delle parole stesse di Gesù. Perciò, anziché restarne paralizzato, egli sapeva alzare il capo per invocare “venga il tuo Regno!”. Apocalisse noi sappiamo che non significa catastrofe. L’apocalittico vero e autentico è un uomo colmo di speranze, capace di sperare anche quando tutto frana senza rimedio, che sa dare fiato alla speranza proprio nel più grande pericolo, vivendo il peggio nel dolore assieme al suo Dio crocifisso che ha fatto di tutto per salvare anche l’ultima, la più lontana, delle sue creature senza riuscirci.
Quinzio ha saputo aprire gli occhi e dare speranza facendosi carico di tutto il male e di tutta la disperazione che affligge l’uomo contemporaneo… Ha avuto il coraggio di esigere quella salvezza che sembra essere del tutto dimenticata sulla faccia della terra. Bisogna partire proprio da quella miseria di “vedova” che bussa senza stancarsi: Dio non può salvare una umanità che non percepisce più il bisogno di essere salvata… Ma anche Dio ha tanto bisogno di noi: “la salvezza è oggi non solo nelle mani di Dio, ma anche nelle nostre mani”» (S. Quinzio “La Speranza nell’Apocalisse”, Ed. Paoline).


 

Dalla Presentazione di Carlo Carretto al libro di Sergio Quinzio
“La Speranza nell’Apocalisse” 

 
«Sergio Quinzio crede e spera con tutte le sue forze che un giorno il Signore ci salverà e che in Lui saremo consolati di tutte le sofferenze, ma proprio per questo, il dolore che c’è ancora nel mondo non cessa di scandalizzarlo, ma è uno scandalo patito e vissuto come invocazione a Dio perché ce ne liberi.
È lo scacco di Dio che lo tormenta assieme al desiderio di vedere consolato, assieme al nostro dolore, il dolore dell’Agnello sgozzato e crocifisso. A questo Dio resosi impotente per amore, a questo Dio crocifisso e insanguinato, a questo Dio travolto dal dolore del mondo, Sergio ha guardato con pietà e con lacrime in tutte le sue opere, direi in tutta la sua vita, anche nei momenti più oscuri e difficili.
E proprio in questa “impotentia Dei” egli vede l’abisso più profondo e il segreto nascosto del mistero di Dio: questo Dio fattosi carne umana, carne mortale, porterà sempre con sé le stimmate della sua sofferenza e della sua umiliazione. E per essa sarà glorificato.
È questa la sua speranza dell’Apocalisse. Quando l’Agnello salirà sul trono e i morti risorgeranno nei loro corpi per essere con Lui consolati nel suo Regno.
E lo crediamo anche noi, contro noi stessi e contro le nostre paure (pag. 9-10)

Il testo “Dalla gola del leone”, Ed. Adelphi, ha all’inizio una nota di Sergio Quinzio indicativa del suo riflettere. “Ho raccolto qui pensieri annotati negli ultimi anni soltanto per me, o per qualche persona vicina. Legati da un filo tenace alla mia storia personale, segnano la strada percorsa da un credente nella verità cristiana “sine glossa” il quale è stato condotto a farsi le più difficili domande circa la fede, quelle che non avrebbe mai osato.

Mentre si assiste al rilancio mondano di ogni genere di trionfali sacralità, prossime o remote, sono domande che insistono sull’umile e delusa da millenni speranza di una salvezza che già nell’ottavo secolo prima di Cristo, il profeta Amos aveva detto misera e paradossale: “come un pastore salva dalla gola del leone due zampe e un brandello d’orecchia, così saranno salvati i figli d’Israele”, pag. 9».


 

Brani dell’ultimo capitolo di “La sconfitta di Dio” di Sergio Quinzio – Ed. Adelphi
QUASI UNA SINTESI DEL SUO CREDERE E SPERARE CONTRO OGNI SPERANZA


• Ma se Dio sarà sconfitto? Se Dio non salverà mai più? Se i morti non risusciteranno? Se le ingiustizie e sofferenze continueranno per sempre? È ancora fede quella che si vede precipitare verso un esito più catastrofico, per la fede stessa, di qualunque catastrofe? O non è semplicemente l’abbandono, la perdita della fede? (pag. 96).

• L’esperienza dell’incombere del rischio supremo che Dio non salvi, e che sia quindi definitivamente sconfitto, era già contenuta nell’esperienza dell’ebreo biblico, perché affidarsi a una promessa di salvezza significa sospendere la propria vita su un abisso. L’ebreo biblico che attende tutto dalla fedeltà di Dio al patto che ha sottoscritto con il suo popolo, e vede che di fatto egli non rende giustizia e non salva, è già stretto nella nostra stessa morsa. È già costretto a passare dall’estremo della più assoluta sottomissione all’insindacabile decreto di Dio – umiliandosi nel suo senso di colpa e chiudendo gli occhi dinanzi a ogni smentita della promessa –. All’estremo opposto, quello del grido disperato, o della disperazione muta. Nè Giobbe nè Qohelet negano o dubitano che Dio esista – una via comoda e presuntuosa, e in definitiva insignificante – ma sono molto vicini a disperare che Dio salvi. (pag. 97-98).
• Ma nella fede, finché la fede può ancora sostenersi, c’è senso, non c’è indifferenza rispetto alla sofferenza e alla gioia, alla morte e alla vita. Per la fede, finché la fede sussiste, la tenerezza, la pietà, la speranza della salvezza, anche se fossero destinate al più radicale scacco, sono piene di senso… come primizia, caparra, anticipazione, presenza vera anche se soltanto incipiente della realtà escatologica.
“La fede è sostanza delle cose che si sperano, e prova di quelle che non si vedono” (Eb 11, 1) Il credente, oggi, si trova nella condizione di vivere come impossibile ciò di cui pure sta facendo realmente esperienza. Il già e non ancora tanto caro ai teologi come felice formula “risolutiva” scopre la tragicità del suo paradosso (pag. 99).
• Ma anche la fede, come Cristo, alla fine muore crocifissa nella storia del mondo. Eppure, morendo – e facendo in questa morte l’esperienza dell’incombente sconfitta di Dio – agonizzando nella consapevolezza del definitivo orrore che la sovrasta essa fa la sua invocazione più potente, la più vicina, la più simile, al limite quasi dell’identificazione, a quella di Gesù Cristo (pag. 100).
• La rivelazione ci parla di un Dio che vive nel tempo… Ogni vita è vita nel tempo. Dio è “l’Anziano” dei giorni (Dn 7, 9) e il tempo che passa incide su di lui i suoi segni. Anche “il Signore”, il Cristo dell’Apocalisse, come Dio nel libro di Daniele, ha i capelli bianchi (Ap 1, 14)… Dio si modifica, si trasforma attraverso il suo rapporto con gli uomini, fino a diventare un crocifisso risuscitato, fino ad assumere un “nome umano” (Ap 3, l2).
Il nome nella Bibbia, e non soltanto nella Bibbia, è la persona o la cosa, ne definisce l’identità… L’annunciato cambiamento finale del Nome di Dio (nella tradizione biblica Dio è indicato per reverenza come (Il Nome) adombra un cambiamento profondo che deve ancora compiersi in lui.
Come cambia attraverso gli anni ciascuno di noi, che siamo fatti a sua immagine e somiglianza, così cambia anche Dio… Prendendo la carne umana di Gesù di Nazareth, Dio non è più identico a ciò che era prima. Soffrire e morire sulla croce ha lasciato in lui una traccia incancellabile. Le sofferenze l’hanno “reso perfetto” (Eb 2, 10) di quella perfezione che non appartiene all’essere. (pag. 101-102).

• Le parole con le quali, alla fine di un lungo abuso, si è ormai costretti a parlare di Dio come se fosse un oggetto posseduto e controllato dalla nostra mente – perché da troppo tempo ormai Dio non ci parla e noi non abbiamo più la forza di invocarlo, se non mediante la nostra stessa morte – sono forse blasfeme. Ma non è lontano dalla bestemmia neanche il grido del Crocifisso. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Se si potesse dire, è come se un “resto di Dio” sopravvivesse ancora nell’agonizzante che veniva abbandonato, con la vita, dalla divinità. Un “resto di Dio”… nel senso in cui permane ancora un residuo di vita in chi è appena morto… Questo “resto di Dio” è il modello del “resto di Israele” dei profeti, e anche del “resto della fede” che sta spegnendosi nella storia del mondo: “quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra troverà ancora la fede?” (Lc 18, 8). Il “resto di Dio” è stato messo in noi con il dono del suo spirito che ci è stato fatto lo stesso giorno dell’oscura resurrezione di Gesù. …Lo Spirito Santo terza persona della S. Trinità, abita in noi (Rom 8, 9) come divina Shekhinah e in noi invoca gemiti indicibili (Rom 8, 26) primizie e anelito della resurrezione. La “sapienza del linguaggio” riduce a “niente la croce di Cristo” (I Cor 1, 17) ma la follia di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini” (I Cor 1, 25) (pagg. 102-103).

La nostra tragedia di credenti è la tragedia dello Spirito di Dio che è stato posto in noi. Noi sappiamo di non valere nulla e tuttavia ci sono davvero in noi le primizie dello Spirito, che in noi provano la nostalgia del mancato raccolto di cui sono primizie.

Noi siamo uniti a Dio nel senso che anche noi, con lo Spirito che è in noi, moriamo.
Mentre Dio è “sconfitto”, “sconficcato”, lasciato cadere dalla croce come un inutile brandello e dimenticato, noi con la nostra fede saliamo sulla croce, combattiamo l’ultima lotta, l’agonia, gridiamo: “Elì, Elì, lema sabactani?”. Così – questo chiediamo nella nostra supplica – si compirà ciò che ancora manca alla passione di Cristo (Col 1, 24) e avverrà il supremo capovolgimento. Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare, ma ci ha reso troppo stanchi, delusi, infelici per poterlo fare. (pagg 103-104).

 

a cura di BRUNO AMBROSINI


 

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