REINVENTARE LA VITA: TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’
Incontro nazionale PO / Bergamo / 28-30 aprile 2005
La continuità per me è questa vita operaia che mi sono scelto subito dopo la scuola, all’inizio degli anni ’70. Voi siete preti perché avete scelto di fare gli operai. La stessa cosa ho fatto anch’io, pur non essendo prete. Avevo un posto sicuro nel pubblico impiego e l’ho lasciato perché allora la classe operaia era considerata soggetto rivoluzionario. È stata una scelta di vita non solo esistenziale ma anche politica, perché in quegli anni si aveva la percezione di poter contribuire a dei grandi cambiamenti. Tanti giovani allora la pensavano così. Fatto un breve tirocinio in piccole aziende, tanto per capire com’era la fabbrica e “farsi le ossa”, arrivò l’occasione della grande fabbrica, il cuore dello scontro sociale, l’università della lotta di classe.E io sono rimasto, tra molte battaglie, diverse vittorie, la lunga parabola dell’arretramento che dura ormai da più di un ventennio. È importante però ricordare che vincere è possibile, che non è vero che nulla cambia, che tanto hanno ragione sempre i soliti, perché allora è stata dimostrata la possibilità di migliorare la vita a milioni di persone. Il protagonismo e la partecipazione dei lavoratori hanno permesso questo, e la prima rivoluzione era nei rapporti di solidarietà che gli stessi tuoi compagni di lavoro ti trasmettevano.
Poi è venuta la discontinuità, legata alla parabola discendente delle lotte, ai cambiamenti epocali, al venir meno di tanti grandiosi progetti.
Fermo restando che dobbiamo saper cogliere la positività del riflusso se ciò si traduce in seria riflessione sul senso del vissuto, vorrei sottolineare che per me, che ero e rimango comunista, la discontinuità è servita a:
1. Farmi riflettere sulla necessità di non sacrificare mai chi hai intorno in nome di ideali anche grandiosi, ma che devono incarnarsi negli uomini per avere dignità.
2. Portarmi a rivedere criticamente il percorso del socialismo storico, un socialismo che ha preso troppo le sembianze di quel capitalismo che vuole superare. Le ha prese col gigantismo economico, col mito dell’uomo produttivo, con la massifica-zione, con l’imposizione violenta, col dio partito. Questo è il vissuto che va superato e non bisogna avere paura. Mi ha molto colpito quello che scrive Frei Betto, domenicano brasiliano, teologo della liberazione: “L’economia della sufficienza evangelica … può anche essere chiamata economia socialista. Non perché è esistita l’inquisizione io ho smesso di essere cattolico e nemmeno perché il socialismo in Europa è crollato ho smesso di essere socialista. È molto difficile capire che un religioso possa non essere socialista, considerando che vive in una comunità socialista (il convento dei Domenicani di San Paolo, ndr) (Frei Betto – L. Ciotti: Dialogo su pedagogia, etica e partecipazione politica, EGA).
3. Spingermi ad un’analisi puntuale dei cambiamenti sociali, perché per capire la politica bisogna capire la società.
Cominciamo con lo sfatare l’ideologia della “scomparsa della classe operaia”. La classe dei salariati aumenta. Se chiudono una fabbrica di mille dipendenti in Italia ma ne aprono una di 10.000 in Cina o in India, come si fa a dire che sta sparendo il proletariato? Si può dire che le concentrazioni operaie si spostano, non che spariscono!
Poi è vero che in paesi “maturi” come l’Italia è cambiato il rapporto operai/impiegati a favore di quest’ultimi e questo frena la disponibilità alla lotta. È vero che c’è la tendenza all’incremento del terziario rispetto all’industria (che detiene comunque la quota maggiore del PIL). E tutti sappiamo che il terziario è un settore frastagliato, di bassa e recente sindacalizzazione… ed anche qui ci sono difficoltà. C’è poi il fenomeno dell’abbassamento della professionalità operaia. Stiamo diventando quasi tutti poco più che manovali, che devono lavorare a velocità supersoniche, per aumentare la produttività e con regimi d’orario sempre più flessibili. Una volta l’operaio professionalizzato era anche quello sindacalizzato e politicizzato, ti faceva scuola in tutti i sensi, ti instradava, ti formava anche, magari peccando un po’ di aziendalismo.
Oggi quei punti di riferimento non ci sono più ed è una “mille miglia” continua. Tutti che corrono come pazzi e non si guardano in faccia.
Per resistere e non farsi travolgere è utile rifarsi agli scritti di Gramsci sul fordismo (fine anni ’20). Egli vedeva nell’operaio “scimmia”della catena di montaggio l’opportunità dialettica di trasformare l’instupidimento in riflessione politica, “staccando la spina” dall’impegno del cervello nel lavoro. Ora è più difficile, anche perché si parla poco di politica, ma ci si può provare, eppoi il fenomeno della diffusa precarietà, dei diritti incompatibili col saggio di profitto, delle delocalizzazioni delle aziende, delle loro cessioni, che gettano migliaia di lavoratori nel precariato in tutti i sensi) e che li disperdono nel territorio.
Non c’è più l’insediamento territoriale dell’operaio, quello che dava il senso di appartenenza e che ha prodotto pagine importanti nelle lotte di emancipazione. Tutto questo non c’è più, ma non dobbiamo avere paura. Il capitalismo liberista è vincente, ma non è eterno.
Nella mia piccola esperienza di delegato di fabbrica cerco di coltivare bene il terreno dove vivo e lavoro. I giovani ci sono. Ascoltiamoli, consideriamoli. Stimoliamoli senza la pretesa di indottrinarli e costruirli a nostra immagine e somiglianza. Testimoniare con la parola e con l’esempio, raccontando le nostre storie e soprattutto ascoltando le loro. Chissà che non ci sia un mondo da scoprire. Eppoi resistere. E cercare…
Questa è la risalita nella continuità che cerco di vivere. E qui una fede essenziale aiuta tanto. Ringrazio Mario e Bruno per ciò che mi hanno trasmesso, e ringrazio il Signore per avermi permesso di incontrarli, Il messaggio cristiano che ho visto in loro si può sintetizzare in questa esortazione. “Scopri l’uomo che c’è in te”.
Graziano Giusti
operaio a Cambiago (MI), delegato sindacale Fiom/Cgil