INCONTRO NAZIONALE 2006 PO E AMICI
“A 40 anni dal Concilio: dov’è la Chiesa dei poveri?”

 

Quello che ho percepito allora


Ai tempi del Concilio ero studente in seminario e quello fu un avvenimento molto seguito. Ogni giorno si leggevano i sunti degli interventi che avvenivano in aula conciliare, ma erano solo relazioni ufficiali. Due furono i libri che mi hanno colpito ed ho letto con avidità perché ritengo che mi hanno dato delle dritte: “ Come loro“ di René Voillaume e “ Il concilio e la chiesa dei poveri “ di Paul Gauthier. Nel 1967 sono entrato a far parte della Comunità del “ Paradiso” di Bergamo perché mi aveva colpito lo stile di questi preti nelle periferie delle grosse città, là dove non c’erano strutture e dove si trattava di inventare un nuovo tipo di presenza. Negli anni della teologia ho maturato l’idea del prete operaio e devo dire che anche mio padre dieci anni prima me ne aveva parlato. Infatti nel 1972 ho iniziato a lavorare in una piccola fabbrica, a Milano

Qual era l’intento? Innanzitutto la gratuità del ministero: il “gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date” evangelico. Ministero inteso non come professione, e la conseguenza logica era che ognuno avesse una sua professione per guadagnarsi di che vivere come ogni uomo e donna di questa terra e per essere come tutti con le stesse preoccupazioni e i problemi del quotidiano e per non essere una casta privilegiata. Era forte l’idea del messaggio di Gesù: evangelizzare i poveri.
Questa parola significava per noi un portare qualcosa: dei recipienti pieni che riempiono i vuoti. Una specie di indottrinamento. Scegliere dei luoghi o situazioni di povertà era un primo passo ma la prospettiva era sempre quella. Ascoltare le confessioni a 25 anni ed avere dei consigli da dare a persone di 50-60 anni con problemi familiari e relazionali enormi era una pretesa. Mi sentivo a disagio. Era forte l’idea della presenza in situazioni e luoghi particolari ma anche quella aveva dei meccanismi perversi sotto: portare gli altri a Dio. Un’altra bella pretesa. Dove stava la gratuità? Testimonianza, condivisione, incarnazione potevano meglio esprimere il Vangelo. Si è ribaltato tutto, una specie di cambio di prospettiva, guardare le cose dal basso. Questo cambiò tutto. I poveri sono coloro che esprimono il Vangelo, tra loro c’è il lieto annuncio, essi esprimono la liberazione e la tensione verso il cambiamento. Non è allora un portare ma uno scoprire quello che già c’è: i ciechi vedono, gli storpi camminano… Anche la parola testimonianza è un po’ limitativa, preferisco “stile di vita”, non per assomigliare a qualcuno ma perché uno stile di vita essenziale è eccezionale: faccio questo perché mi piace, perché è bello. Imparare ad amare un mestiere soprattutto manuale, assolvere a lavori domestici fa bene, dà equilibrio. E quando si è stanchi per la giornata, negli incontri con gli altri, si va subito al sodo e si ha la capacità di dire le parole giuste al momento giusto, guardando i volti delle persone e più che dire si vuole ascoltare, anzi è meglio l’ascolto. È un dare e un ricevere reciprocamente. Ed io ringrazio i borgatari che mi hanno aiutato a crescere e direi mi hanno partorito al vivere.
Che significa allora chiesa dei poveri? Nei secoli scorsi la chiesa per marcare la sua presenza costruiva chiese, monasteri, monumenti, anche istituzioni, scuole, ospedali che sono poi diventati patrimonio comune anche della società civile. Questo modo di essere presente equivaleva ed equivale tutt’ora a questa concezione: dall’alto vedo la miseria, i problemi e quindi mi do da fare con opere di carità, assistenza e organizzazioni varie. Ma è sempre lo sguardo dall’alto ed io appaio colui che si china, che elargisce, colui che ha.
Uno degli autori a cui sono debitore è Paulo Freire con la sua “ Pedagogia degli oppressi “ e l’idea centrale è quella del prendere coscienza insieme della propria situazione e insieme progettare il cambiamento trovando gli strumenti adatti. Le riforme che nascono dall’alto hanno sempre la vita corta. Il primo anno della mia presenza a Roma non ho fatto nulla: solo lavoro e guardarmi attorno per capire. È stata una pallonata che mi ha spinto a compiere certi passi. Stavo pregando dopo una giornata di lavoro e sul prato vicino stavano giocando dei ragazzi. Una pallonata spaccò i vetri della finestra e un ragazzo entrò tutto trafelato per riprendersi il pallone e chiedere scusa. Mi fissò e dopo qualche attimo mi chiese se si poteva fare qualcosa con loro. È nato tutto da lì il mio impegno nel quartiere. “Insieme”, questa parola era il titolo del giornalino dei ragazzi della borgata. Ogni idea era vagliata, studiata, ogni decisione presa insieme. La scuola di Barbiana di don Milani ci ha insegnato molto a questo proposito. Da parte mia ringrazio i “ borgatari “ abruzzesi, calabresi, siciliani, pugliesi e marchigiani, venuti dalle montagne e dalla campagna che hanno abbandonato in cerca di lavoro, costretti ad abitare in periferie costruite da loro abusivamente. Ritenuti cittadini di serie B. Ma la loro disponibilità, capacità di collaborare e aiutarsi e considerarsi come una grande famiglia è stata eccezionale. Certamente quei tempi sono cambiati, non esistono più ma penso che i metodi rimangono gli stessi.


Quello che percepisco per l’oggi e il domani


Parto da quello che ho recepito e vissuto in questi anni.
Chiesa dei poveri significa innanzitutto “chiesa povera” nelle sue strutture, direi essenziale. La struttura appesantisce quando è mastodontica e la preoccupazione per il suo mantenimento diventa primaria rispetto alle idee e principi che guidano l’azione. Non una chiesa mediatica, dalle folle oceaniche dove l’attenzione non è sull’autorità ma sul crocefisso e i crocefissi della storia. La spettacolarità non c’è nel vocabolario della fede. Non è nella tempesta, nel vento impetuoso, ma nella brezza leggera, quasi impercettibile, direi sottile. Non la chiesa del primo Elia che dà botte da orbi a tutti, ma la chiesa del secondo Elia, bastonato e che si mette in ascolto dello Spirito.

Non per nulla Gesù parlava di “piccolo gregge”, “piccolo seme“. Nella mia esperienza il piccolo gruppo, le piccole comunità a dimensione umana sono quelle che funzionano meglio. È arrivato il tempo di lavorare sui piccoli numeri e con mezzi poveri. Il rischio, anzi è attuale, è di diventare chiesa azienda dove tutto deve funzionare, dove tutto deve essere organizzato . Ma manca il cuore. Succede come nel detto: l’operazione è riuscita bene, s’è fatto tutto perfettamente, ma il paziente è morto. La parabola del fico ci può dire qualcosa: il regno ha frutti fuori stagione.
Prendere atto di quello che sta succedendo, con la consapevolezza di essere minoranza, non si è più in una società cristiana. Nonostante tutte le speculazioni che vengono fatte a questo proposito in questi ultimi tempi.
Chiesa dei poveri è una chiesa che si mette umilmente in ricerca e che non ha la ricetta per tutti i problemi che emergono, che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità, che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza. Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole, non per tattica ma per scelta.
Chiesa dei poveri è una chiesa che usa mezzi poveri, direi essenziali, alla portata di tutti, che sono soprattutto l’ascolto, la convivialità, la prossimità vissuta e praticata là dove vivono e soffrono gli uomini e le donne e certamente non incentrata sul tempio.
Chiesa dei poveri è il luogo dove tutti si sentono a casa loro, non additati e giudicati per le loro scelte e fallimenti. È ascoltando le storie degli uomini e delle donne che non c’è spazio per la condanna ma per la compassione. È un lavorare sul positivo. L’ascolto allora diventa terapeutico per chi parla e chi ascolta, e nello stesso tempo diventa il luogo progettuale dove lo Spirito suscita come vuole e quando vuole cose nuove.
Chiesa dei poveri è là dove c’è la scelta preferenziale dei poveri. Siamo tutti uguali, ma la maggioranza non è uguale. Ripartendo dagli ultimi è come ridisegnare una città a dimensione di anziani e bambini, non vedenti e disabili. Ci stanno bene tutti, anche chi scoppia di salute. Ripartendo da loro significa riconoscere l’autorità di coloro che soffrono sotto tutti i punti di vista. Il teologo Metz dice che questa è “l’unica autorità nella quale si manifesta nel mondo per tutti gli uomini l’autorità del Dio giudicante. Dare voce al dolore altrui è il presupposto di tutte le pretese universalistiche, anche e proprio quelle del discorso del Dio cristiano”.
Chiesa dei poveri è una chiesa povera, umile che non ha la pretesa di avere la verità tutta intera: essa è una comunità che insieme ad altre comunità della terra cerca di essere più che “magistra” una “mater“, sorella e compagna di viaggio.

 

Mario Signorelli


 

Share This