Incontro nazionale 2007
OPERARE GIUSTIZIA IN UN MONDO INGIUSTO
Memorie e prospettive
Interventi
“L’ingiustizia è come i serpenti: morde solo chi è senza scarpe”
(Proverbio wolof — Senegal)
Vi confesso che questa parola – “giustizia” – mi spaventa un po’, perché chiama in causa il mio credere e il mio vivere.
Mi soffermo un momento sul tema biblico della giustizia, perché voglio ricordare un caro amico che ci ha lasciati un mese fa: Giuseppe Barbaglio. Nel Dizionario di Teologia da lui curato presenta così la giustizia di Dio nell’A.T.:
“La giustizia di Dio si presenta propriamente come un concetto di relazione. La Bibbia ebraica ignora il significato di giustizia quale conformità a una norma astratta e impersonale, come pensava il mondo greco. Dio è riconosciuto giusto nel suo rapportarsi al popolo, secondo la logica del patto da lui stipulato con Israele” (G. Barbaglio, su Dizionario di Teologia, p. 1985).
Applicando questo concetto di “relazione” al nostro modo di intendere la giustizia, arriviamo anche noi a superare la norma astratta e impersonale (“dare a ciascuno il suo”) per chiamare in causa le nostre relazioni.
Noi siamo giusti se sono giuste le nostre relazioni con gli altri.
E poiché viviamo nell’era globale e planetaria, anche le nostre relazioni di giustizia assumono ormai proporzioni universali.
Volendo specificare meglio che cosa significa “giustizia” nelle relazioni intraumane, penso che la parola più indicata sia “uguaglianza”. “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, art. 1).
Richiamo una piccola esperienza che probabilmente è stata comune ad alcuni di noi. Quando ho cominciato a lavorare in fabbrica nel novembre 1971, mi sono trovato a partecipare a un dibattito assai acceso tra i miei compagni di lavoro, se si dovesse arrivare ad una parificazione salariale. Ciascun lavoratore aveva un salario individualizzato, che aveva contrattato personalmente con il padrone, per cui a uguale lavoro non corrispondeva uguale retribuzione.
In quegli anni la linea dei sindacati era quella dell’egualitarismo, che mirava a ridurre la “forbice salariale”, ossia la differenza tra le retribuzioni più basse (gli operai manovali) e quelle più elevate (gli impiegati vicini alla dirigenza). Ma l’obiettivo prioritario che si doveva perseguire in ciascuna azienda era quello di superare le discriminazioni e i privilegi, arrivando a realizzare il principio che “a uguale lavoro corrispondesse uguale retribuzione”.
Questo comportava non solo una rivendicazione nei confronti dell’azienda, ma si trattava innanzitutto di vincere la mentalità di tanti lavoratori che erano gelosi dei loro piccoli privilegi e non accettavano di essere equiparati ad altri, che ritenevano meno capaci, meno volonterosi, e perciò meno meritevoli. Si trattava perciò di mettere in discussione le relazioni tra i compagni di lavoro.
È stata un’esperienza molto positiva perché non solo si è arrivati nel corso di qualche anno ad una effettiva parificazione salariale, ma si è anche migliorato molto il clima tra i lavoratori, con relazioni reciproche più aperte e più serene.
Venendo all’oggi, credo che neanche più in fabbrica sarebbe possibile un’esperienza del genere, perché ormai le discriminazioni e i privilegi sono istituzionalizzati.
Viviamo in un mondo difficile, dove le speranze dei poveri trovano sempre meno ascolto e considerazione. Quello che appare con estrema evidenza è la sproporzione tra il problema dell’ingiustizia (nel mondo, nei luoghi di lavoro, nella nostra società…) e la capacità che noi abbiamo di cambiare questa realtà.
E tuttavia le nostre aspirazioni e il nostro impegno partono da una esigenza che sentiamo fortemente dentro di noi, che possiamo chiamare “fame e sete di giustizia”. E i piccoli passi che riusciamo a compiere insieme ad altri, nel lavoro, nelle associazioni e nei movimenti, sono piccoli segni di speranza. Balducci direbbe “sono i germogli che annunciano l’arrivo di una nuova primavera”. E se anche questa primavera non la vedremo mai, e la storia sarà sempre una lotta sproporzionata, in cui il giusto sarà sempre sconfitto, il senso del vivere lo troviamo sempre e soltanto nel non stancarci di aver fame e sete di giustizia.
Il vescovo Jacques Gaillot dice che la speranza di un mondo nuovo e di una Chiesa nuova non può essere riposta che nelle vittime dell’ingiustizia:
“Ancor oggi sono gli esclusi che ci costringono a ricordarci che nessun sistema può mai pretendere di integrare totalmente l’essere umano. L’essere umano va al di là dei sistemi, va al di là anche delle Chiese.
Ci sono esseri umani che gridano. Siamo tentati di soffocare le loro voci, tanto essi ci disturbano.
Eppure, quelle voci non sono forse degli appelli dello Spirito, che è all’opera nella Storia? Esse fanno vivere la Chiesa, costringendola a uscire da se stessa. Se cessa di inserirsi in questo terreno, essa muore”.
(J. Gaillot, Ecco le cose in cui credo, Brescia 1998, p.106).
Piero Montecucco