Incontro nazionale 2007
OPERARE GIUSTIZIA IN UN MONDO INGIUSTO
Memorie e prospettive
Prima icona
L’icona “occidentale” della giustizia presenta una figura bendata con una bilancia tra le mani, immagine di imparzialità e di capacità di soppesare le ragioni dei contendenti.
L’icona “biblica”, invece, raffigura una giustizia con gli occhi e gli orecchi ben aperti, per nulla impassibile, preoccupata piuttosto di intervenire a ristabilire la giustizia laddove essa viene tolta per dare libero corso al sopruso.
La Scrittura rivela una particolare sensibilità nei confronti dell’oppressione ingiusta che smaschera opponendovisi con tutte le forze.
Al pari dell’invito ad amare il partner divino (Shemà Israel), l’imperativo di ristabilire la giustizia si presenta come filo rosso delle Scritture ebraico-cristiane. Le icone sul tema sono molteplici: alcune s’impongono allo sguardo del lettore come capolavori riconosciuti (la vicenda dell’esodo; gli oracoli profetici); altre, meno conosciute, saltano all’occhio solo in particolari circostanze. La mia attenzione è stata attirata da una di queste icone marginali…
Genesi 38: In quel tempo Giuda si separò dai suoi fratelli e andò a stare da un uomo di Adullam, di nome Chira. 2 Là Giuda vide la figlia di un Cananeo di nome Sua; se la prese e si unì a lei. 3 Ella concepì e partorì un figlio, che egli chiamò Er. 4 Poi ella concepì di nuovo e partorì un figlio, che chiamò Onan. 5 Partorì ancora un figlio e lo chiamò Sela. Giuda era a Chezib, quando ella lo partorì. 6 Giuda prese per Er, suo primogenito, una moglie che si chiamava Tamar. 7 Ma Er, primogenito di Giuda, era perverso agli occhi del Signore; e il Signore lo fece morire. 8 Allora Giuda disse a Onan: «Va’ dalla moglie di tuo fratello, prenditela in moglie come cognato e suscita una discendenza a tuo fratello». 9 Onan, sapendo che quei discendenti non sarebbero stati suoi, quando si accostava alla moglie di suo fratello, faceva in modo di impedire il concepimento, per non dare discendenti al fratello. 10 Ciò che egli faceva dispiacque al Signore, il quale fece morire anche lui. 11 Allora Giuda disse a Tamar sua nuora: «Rimani vedova in casa di tuo padre, finché Sela, mio figlio, sia cresciuto». Perché diceva: «Badiamo che anche egli non muoia come i suoi fratelli». E Tamar se ne andò e abitò in casa di suo padre. 12 Passarono molti giorni e la figlia di Sua, moglie di Giuda, morì; e, dopo che Giuda si fu consolato, salì da quelli che tosavano le sue pecore a Timna: c’era con lui il suo amico Chira, l’Adullamita. 13 Tamar ne fu informata. Le dissero: «Ecco, tuo suocero sale a Timna a tosare le sue pecore». 14 Allora ella si tolse le vesti da vedova, si coprì d’ un velo, se ne avvolse tutta e si mise seduta alla porta di Enaim che è sulla via di Timna; infatti, aveva visto che Sela era cresciuto, e tuttavia lei non gli era stata data in moglie. 15 Come Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché ella aveva il viso coperto. 16 Avvicinatosi a lei sulla via, le disse: «Lasciami venire da te!» Infatti non sapeva che quella fosse sua nuora. Lei rispose: «Che mi darai per venire da me?» 17 Egli le disse: «Ti manderò un capretto del mio gregge». E lei: «Mi darai un pegno finché tu me lo abbia mandato?» 18 Ed egli: «Che pegno ti darò?» L’altra rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Egli glieli diede, andò da lei ed ella rimase incinta di lui. 19 Allora Tamar si alzò e se ne andò; si tolse il velo e si rimise le vesti da vedova. 20 Giuda mandò il capretto per mezzo del suo amico, l’Adullamita, alfine di ritirare il pegno dalle mani di quella donna, ma egli non la trovò. 21 Interrogò la gente del luogo, dicendo: «Dov’è quella prostituta che stava a Enaim, sulla via?» Quelli risposero: «Qui non c’è stata nessuna prostituta». 22 Egli se ne tornò da Giuda e gli disse: «Non l’ho trovata e, per di più, la gente del luogo mi ha detto: “Qui non c’è stata nessuna prostituta”». 23 Giuda disse: «Si tenga pure il pegno, e non esponiamoci agli scherni! Ecco, io ho mandato questo capretto e tu non l’hai trovata». 24 Circa tre mesi dopo, vennero a dire a Giuda: «Tamar, tua nuora, si è prostituita e, per di più, eccola incinta in seguito alla sua prostituzione». Giuda disse: «Portatela fuori e sia bruciata!» 25 Mentre la portavano fuori, mandò a dire al suo suocero: «Sono incinta dell’uomo al quale appartengono queste cose». E disse: «Riconosci, ti prego, di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone». 26 Giuda li riconobbe e disse: «È più giusta di me, perché non l’ho data a mio figlio Sela». Ed egli non ebbe più relazioni con lei. 27 Quando venne il tempo in cui doveva partorire, ecco che Tamar aveva in grembo due gemelli. 28 Mentre partoriva, l’uno di essi mise fuori una mano e la levatrice la prese e vi legò un filo scarlatto, dicendo: «Questo qui esce per primo». 29 Ma egli ritirò la mano, ed uscì suo fratello. Allora la levatrice disse: «Perché ti sei fatta questa breccia?» Per questo motivo gli fu messo nome Perez. 30 Poi uscì suo fratello, che aveva alla mano il filo scarlatto; e fu chiamato Zerac.
Si tratta di una scena spesso sottovalutata, interpretata come un’interpolazione nel ciclo di Giuseppe (Gen 37-48). Oggi l’esegesi — più preoccupata di fare una lettura unitaria del testo che non di risalire alle diverse fonti che stanno dietro di esso — mette in luce i legami tra la storia di Tamar e quella di Giuseppe. Tuttavia, questi dati tecnici, che provano ad esplicitare lo stile del compositore dell’icona, qui ci interessano di meno. La nostra attenzione si concentra sulla scena raffigurata, sul mondo che essa dispiega e al quale siamo invitati a partecipare.
Qui la scena dell’oppressione non è così evidente come in altre più note icone. Anzi, Giuda appare come un padre assennato che si preoccupa della sorte dell’ultimo figlio rimastogli. In fondo si era mostrato rispettoso della legge, applicando quanto previsto dall’istituto del levirato (Dt 25,5-6: là dove la legge si svincola dalla formalità e tocca la sostanza della fraternità…). O almeno, l’aveva fatto fino a quando la normativa vigente non gli era apparsa contraria al proprio interesse (in continuità, per altro, con i tratti “ambigui” della sua personalità che emergono in Gen 37, 26-27). Onesto ma non stupido!
Quanto alla vittima, Tamar, essa non subisce un trattamento immediatamente catalogabile come ingiusto. La si rimanda alla casa paterna premurandosi di motivare la cosa e promettendo che, cresciuto l’ultimogenito, sarebbe stata di nuovo accolta nella casa di Giuda.
L’icona illustra una situazione in cui c’è la parvenza del rispetto della legge. Nessun grido, né spargimento di sangue. Solo un agire “ragionevole”, che anche agli occhi degli ipercritici appare come “male minore”.
Eppure dietro la parvenza, invisibile ai più, sta Tamar, costretta a subire nella solitudine una condizione che si rivela ingiusta col passare del tempo. Retrocessa a figlia nella casa paterna, esubero pericoloso per la discendenza di Giuda. In silenzio (per 16 lunghi versetti), subisce passivamente la situazione, impossibilitata a fare qualunque cosa. Fino a quando, inaspettatamente, intuisce una possibilità del tutto inedita, rischiosa, destinata alla riprovazione dei benpensanti
Qui il ristabilire la giustizia non batte la strada dell’indignazione e dell’agire conseguente, in opposizione allo stato di cose oppressivo. Qui si batte la strada di una scaltrezza silenziosa ma determinata, per nulla impaurita dal giudizio della gente. A volte occorre abbandonare la strada maestra ed osare battere sentieri laterali, obliqui.
Non è un invito al gesto folle e memorabile. L’icona, piuttosto, mette in scena una donna che non si è rassegnata, che ha saputo vegliare a lungo prima di intravedere una possibilità di ristabilire la giustizia. Peraltro, una possibilità per niente evidente, divenuta tale solo per la sollecitazione creativa di Tamar. Dietro il silenzio e la passività iniziale della donna non c’è niente della retorica che invita ad aspettare tempi migliori, più favorevoli agli obiettivi (tempi che non giungono mai…!). La pasta della storia è quella che è; ma il lievito della giustizia va coraggiosamente somministrato con intelligenza e creatività.
Un coraggio che è indice di una valutazione diversa della vita. Giuda vuole risparmiare l’esistenza del figlio più giovane, senza valutare che cosi gli impedisce di essere a sua volta datore di vita. Invece per Tamar la vita non si può mettere da parte, risparmiare: è fatta per essere condivisa, rischiandola. Tamar rischia la propria vita per il diritto di vivere delle generazioni future. Un tema questo ben sottolineato nell’icona, che contrappone Tamar a Onan, ovvero l’agire responsabile che si fa carico del futuro (anche remoto, non godibile da chi vi lavora per edificarlo…) e il disperdere tutto nel presente, indifferente agli esiti futuri.
È solo alla luce di una concezione messianica della storia (Tamar madre di Perez – o Fares – antenato del Messia: Mt 1,3), della tenacia di chi osa sperare contro ogni speranza che risulta possibile operare giustizia in contesti dove il senso comune la ritiene non più così necessaria, addirittura pericolosa.
Quando regna l’ambiguità, quando è occultata la scena dell’oppressione e si corre il rischio di non percepire più l’ingiustizia, venendo meno di conseguenza la risoluzione di operare per il ristabilimento del diritto, l’icona di Tamar è collirio per occhi spenti, medicina per il nostro subire passivo, stimolo per l’intelligenza e la creatività…
Un’icona sacra, in quanto simbolo della passione divina per una storia giusta; ma anche de-sacralizzante, in quanto non demanda a Dio il compito di operare giustizia, bensì invita ad assumerlo in prima persona. Cosa non da poco in tempi in cui il ricorso a Dio, nominato perlopiù “invano” e per secondi fini, si presenta come dato epocale e, dunque, ovvio.
Tamar agisce nel quadro della legalità (l’istituto del levirato), cogliendo tuttavia i limiti di un tale quadro, spesso solo formale, avendo perso la forza che sta all’origine del provvedimento legislativo e la volontà politica di applicarlo anche andando contro gli interessi del più forte. E la nuora di Giuda non si limita a percepire un tale svuotamento, a denunciarne la non applicazione. Passa invece all’azione in nome della legge, ma con gli strumenti suggeriti da una scaltra creatività. Dove la scaltrezza dice tenacia nel tener desto per anni, senza che venga meno per sfinimento, il senso e la passione per la giustizia; discernimento della situazione, delle opportunità che nasconde; ed il rischio dell’azione. Non solo un agire simbolico, “rituale”, facilmente prevedibile e neutralizzabile da chi ha interesse a mantenere la situazione ingiusta. L’azione di Tamar ha la caratteristica della “tattica” evocata da M. de Certeau (in: L’invenzione del quotidiano, ed. Lavoro, Roma 2001). Mentre la “strategia” calcola i rapporti di forza a partire da uno spazio proprio, la “tattica” ha come luogo quello dell’altro, deve giocare su un terreno che le è imposto, all’interno del campo del nemico. Non ha modo di mantenersi autonoma, a distanza. Non ha la possibilità di darsi un piano di battaglia complessivo (simile al progetto moderno dell’Io, declinato in termini più o meno ideologici o utopici…), né gli è possibile totalizzare l’avversario in uno spazio distinto, visibile e oggettivabile. Si sviluppa di mossa in mossa. Approfitta delle “occasioni” dalle quali dipende, senza alcuna base operativa da cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e prevedere sortite… Coglie al volo le chances che offre un istante. Deve approfittare, grazie a una continua vigilanza, delle falle che le contingenze particolari aprono nel sistema di sorveglianza del potere sovrano, attraverso incursioni e azioni di sorpresa, che le consentono di agire là dove uno meno se lo aspetta. È insomma astuzia: la rivincita del più debole sul più forte. L’arte di mettere a segno colpi azzeccati, tiri mancini, abili mosse e imboscate da cacciatori, trovate ingegnose e incursioni inattese, quale estrema risorsa. La tattica è dettata dalle casualità della storia, è determinata dall’assenza di potere, così come la strategia si fonda invece sul postulato di un potere.
Le tattiche, le traiettorie, la loro vitalità e la loro fragilità, creano pertanto luoghi di fuga rispetto a ruoli rigidi e a spazi ritenuti invalicabili. Aprono una falla all’interno di un regime obeso, mimetico e globale. La tattica può considerarsi l’emblema di un soggetto intelligente e astuto, caratterizzato dall’audacia del suo desiderio.
La tattica si pone non sul versante del discorso per il quale si afferma la strategia, ma della pratica, del fare, dell’avvenimento che è maestro nella sua capacità di alterare e di mettere in movimento la vita. È dunque nella direzione di una acutezza esperienziale e di una docilità alla vita.
Queste considerazioni di de Certeau mi sembrano utili per leggere meglio l’icona di Tamar che parla di una giustizia non ridotta ad idea astratta bensì cercata nelle vicende concrete della vita.
Ed il qui e ora che ci è dato di vivere si presenta come un contesto di legalità e, insieme, di occultamento dell’oppressione.
Un contesto appiattito sul presente, interessato unicamente agli “utili” (e non solo in campo economico!) da conseguire in fretta, senza alcuna considerazione delle conseguenze future (annullando, di fatto, quel principio-responsabilità che, come ha indicato H. Jonas, chiede di agire in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra… di non compromettere le condizioni necessarie alla sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra).
Un contesto ambiguo, sotto il segno di chi, come Giuda, rivendica la competenza del giudizio anche su coloro che sono stati precedentemente esclusi ed ingiustamente allontanati come pericolosi: ci si appella alla legge dopo averla impunemente disattesa!
In un tale contesto spesso ci sentiamo spaesati e impotenti. Come Tamar sperimentiamo l’imperativo ad abbandonare il luogo pubblico della visibilità operativa, costretti a ritornare tra le mura domestiche (delle case o delle chiese…). Senza più un ruolo preciso, in lutto per la morte di quelle appartenenze che hanno segnato la nostra esistenza, l’alternativa è tra un atteggiamento di resa, di disincanto, di lamento e risentimento oppure un raccogliere la sfida di inventarsi un nuovo ruolo, nuovi tipi di pratiche, come ha fatto Tamar. La quale non ha esitato a deporre gli abiti vedovili e a mascherarsi per smascherare l’ingiustizia.