Incontro nazionale 2007
OPERARE GIUSTIZIA IN UN MONDO INGIUSTO
Memorie e prospettive
Interventi
Da circa 31 anni respiro con entusiasmo, come prete operaio, il clima, l’onda, la passione del mondo e del movimento operaio. Ora mi ritrovo, come tutto il nostro gruppo, a vivere, per una serie di concause, la fase discendente di questa parabola, quasi al capolinea, non senza evidenziare alcune considerazioni. Mi stuzzica il tema di questo nostro incontro, soprattutto perché rivisita una delle scommesse che ho fatto quando intrapresi la strada del lavoro: “operare la giustizia”. Già allora la Chiesa preferiva parlare di carità, sorvolando la tematica della giustizia, a me invece molto cara. Per dare gambe a questa giustizia non ho avuto bisogno di inventarmi nulla; gli strumenti mi venivano offerti dalla classe operaia, dal sindacato in cui mi sono immerso, dalle lotte partecipate dai miei compagni di lavoro. Come mi sono state di aiuto le riflessioni di un Convegno dei P0 a Serramazzoni, che prendevano le distanze da un “uso antioperaio della fede”.
Ora vivo un’altra fase, più difficile, meno gratificante, nella quale il rischio è quello di passare da incendiario a pompiere, perché si è delusi non solo per gli scarsi traguardi, ma soprattutto per l’erosione cui si assiste di tutte le conquiste pregresse. Dalla eliminazione della scala mobile all’applicazione della legge Biagi, il terreno operaio è minato e si vive all’insegna del precariato e della flessibilità selvaggia. Tutto è frammentato, penso che le possibilità di contratti siano arrivate a 50, non val la pena portare in pretura cause legittime di lavoro… Da quando, per necessità, sono entrato in questo precariato, non mi avete neppure più visto ai nostri incontri annuali: mio malgrado ho dovuto sottostare à regole aziendali più rigide. Se oggi sono qui è perché c’è chi sta facendo, per sostituirmi al lavoro, un doppio turno, con il cosiddetto ‘rientro’. In due giorni c’è chi fa 26 ore di lavoro. A livello contrattuale, almeno in alcune cooperative o nella forma interinale, si sta avverando quello che quindici anni fa veniva paventato: ciascuno ha un ‘contratto ad hominem’, predefinito e ben clausolato. Di fatto ho bene a mente l’evoluzione (o involuzione?) del linguaggio ai tavoli di trattative presso una grande Cooperativa dove ho lavorato 20 anni: prima si parlava di cooperativa, poi gradualmente di azienda ed infine di impresa.
Nella mia attuale condizione di lavoratore in affitto o in appalto, mi sento un uomo imprestato, ad uso e abuso di chi ti offre un lavoro, perché almeno hai la possibilità di mangiare. Non partecipo ad un’assemblea sindacale, perché sei stato assunto appositamente per ovviare a questi disguidi interni; non posso ammalarmi, perché non pagato nei primi tre giorni o immediatamente sostituito; non godo della mensa interna; mi viene negata la retribuzione di una festività infrasettimanale, perché, se interinale, sospeso dal lavoro alla vigilia di questa… Ma soprattutto sono un esterno e perciò estraneo a tutti gli altri lavoratori garantiti, i quali soltanto si attribuiscono diritto di cittadinanza aziendale, cosicché 1i stessi rapporti interpersonali vanno intessuti con più difficoltà e umiltà.
È una situazione che ormai è bagaglio di centinaia di migliaia di persone in Italia. Mi rispecchiavo perfettamente una domenica sera nella condizione dei lavoratori soci delle cooperative che appaltano i lavori all’ospedale Umberto I di Roma – come veniva descritta dalla trasmissione Report. Ho la sensazione che si stia alimentando, con queste metodologie, una sacca di enorme vulnerabilità sociale, cioè di crisi professionale negli individui, di perdita dell’autosufficienza materiale ai fini della sussistenza, di messa in discussione della propria identità nella famiglia e nella società. La frammentazione dei lavori, il ricominciare sempre da capo, l’instabilità sembrano spingere gran parte dei lavoratori verso una focalizzazione sul presente, sui risultati a breve termine al prezzo di una sottomissione totale, al di fuori di ogni legittima prospettiva di affezione al lavoro, di progetti realistici e percorsi lavorativi apprezzabili. Il disagio interiore si traduce nella percezione di un futuro incomprensibile e incontrollabile. Per i giovani lavoratori flessibili e precari questo significa soprattutto non auto sufficienza economica e psicologica per corrispondere autonomamente al bisogno di casa, reddito continuativo, progettazione della propria vita su relazioni stabili di tipo familiare, genitoriale e partecipazione sociale, a causa della provvisorietà di ruolo e di proventi economici.
In questo contesto bisogna schierarsi: non solo subire, occorre lottare. Perciò ha ancora ragione sperare, operare la giustizia, non smettere all’interno di questi processi di essere coscienza critica, rincuorati dalla forza del Vangelo: “Se la vostra giustizia è solo come quella degli uomini…”.
Vivere, come si diceva a Taizé, la dinamica del provvisorio, elargendo quei piccoli segnali di vita nei solchi delle nostre giornate che impediscono la ristagnazione e la rassegnazione. È consolante sentirti dire anche oggi dai tuoi compagni di lavoro: “Ma chi te lo fa fare? Però tu ci sei e non ci abbandoni: Tu ami la nostra compagnia”.
Vorrei aggiungere che questo mio “esserci”, per operare giustizia continua all’insegna di ciò che ha sempre contraddistinto il nostro gruppo di PO: la laicità, che definisce il rapporto chiesa-mondo. Compito della laicità non è costruire degli spazi fuori dal religioso, ma offrire uno spazio in cui tutti, credenti e non credenti, possano trattare di ciò che è accettabile e di ciò che non lo è, delle differenze da rispettare e delle derive da impedire, e questo, nell’ascolto reciproco, senza tacere le convinzioni e le motivazioni degli uni e degli altri, ma senza scontri né propaganda.
Sono grato alla classe operaia che mi ha aiutato a scoprire la laicità come un abito mentale, un modo di essere e di pensare le relazioni umane, un metodo e uno stile di vita, quello di chi, in ogni ricerca di senso, con autonomia e indipendenza, parte da domande cui sa già di poter dare risposte solo parziali, provvisorie, raggiunte con il dubbio, la riflessione, il dialogo.
Beppe Orsello