“Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia”
Incontro nazionale PO 2008 (24)
In uno degli interventi è stato detto che in questi giorni non si è sentito parlare di povertà. A me sembra che sia uscita poco la parola, ma tutti hanno parlato di poveri, di situazioni che possiamo mettere sotto la voce povertà. Da decenni sono legato a questo tema. Sul piano più strettamente personale: mentre maturavo la decisione della scelta dello stato laicale, preparavo una serie di incontri, tenuti poi tra giovani in un corso estivo e tra famiglie lungo l’anno di lavoro, e pubblicati qualche anno dopo presso l’ed. Cittadella di Assisi col titolo: Scandalo e beatitudine della povertà. Quando ieri sera mi è stato chiesto di concludere questo incontro ho pensato di scegliere due parabole di Luca e commentarle brevemente; esse hanno a che fare con la povertà: una in maniera esplicita, l’altra in maniera indiretta.
Parlando di povertà, dobbiamo distinguere tra la povertà ontologica, cioè quella radicale fragilità della condizione umana che la Bibbia chiama basar (carne), e le povertà storiche. Per la prima porto l’esempio di Aldo Moro quando la mattina del 16 marzo 1978 venne catturato dalle BR. Era forse l’uomo politicamente più potente d’Italia; ma è bastato un istante per precipitare in una situazione dove neppure un barbone avrebbe voluto trovarsi. La povertà ontologica si era trasformata per Moro in povertà storica: in una delle forme peggiori, accanto alla fame, alla malattia, alla solitudine, all’essere fatti oggetto di forme di violenza…
Il Vangelo dice “Beati i poveri”, e qui si intendono le povertà storiche indubbiamente, a partire da quelle economiche, che non permettono di soddisfare i bisogni elementari: sono forme concrete in cui emerge la povertà di fondo, la fragilità umana. Mi rifaccio alla versione lucana delle beatitudini, che dice in seconda persona: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati…” (cap. 6). Quindi una visione escatologica. Naturalmente Luca non nega quello che afferma Matteo, che pensa alla costruzione del Regno a partire da ora, oggi, e quindi alla gioia della sobrietà e della condivisione, di quella povertà vissuta nella fraternità che è, appunto, beatitudine. Anche Luca conosce questa beatitudine della povertà nell’oggi, e ne fa uno dei tratti salienti della prima comunità cristiana (Atti 2, 42ss.); ma nella formulazione delle beatitudini e in altri detti evangelici egli intende sottolineare il carattere dirimente della scelta tra povertà e ricchezza: da questa scelta dipende la salvezza o la perdizione (“Guai a voi ricchi….”) eterna.
La vera identità
Ecco allora la prima parabola, che presenta in forma narrativa beatitudine e perdizione: il povero Lazzaro e il ricco epulone (16, l9ss.). Ho scoperto il senso di questa parabola, in una dimensione che mi sembra essenziale, in Perù, 25 anni or sono. Una domenica mattina un padre monfortano mi aveva invitato ad accompagnarlo nella celebrazione eucaristica in un villaggio andino; e strada facendo mi chiese di commentare il vangelo del giorno, che era la parabola in questione.
A quel tempo non avevo ancora affrontato con il gruppo fiorentino che seguiva le letture bibliche settimanali a Fiesole il vangelo di Luca. Ho fatto così, a 50 anni, una strana scoperta. Per la prima volta, leggendo il testo in sacristia, mi sono accorto che quell’“epulone” non era un nome proprio, ma voleva dire “banchettone”. Certo, sapevo che “epuluim” vuol dire banchetto, e non ci sarebbe voluto molto per capire il senso del sostantivo che ne deriva. Ma la corrispondenza Epulone-Lazzaro mi si era fissata fin da quando, fanciullo, avevo sentito leggere (o forse raccontare dalla catechista) per la prima volta la parabola; e non si era più schiodata dal mio cervello (nella Bibbia per il bambino [1943], restituitami di recente da mia sorella, leggo “Epulone” scritto con l’iniziale maiuscola: che sia questa la spiegazione del mistero cerebrale?).
Ci volevano dunque le Ande per farmi scoprire l’acqua calda. In realtà, la vera scoperta non è stata quella linguistica riguardante l’epulone ma quella teologica riguardante Lazzaro. Ci sarà una ragione per cui soltanto uno dei due protagonisti della parabola ha un nome proprio. E questa volta la risposta mi è venuta subito, in base a molte altre letture – bibliche e non soltanto – fatte in passato: il nome non è, nelle culture antiche, un flatus vocis; il nome è l’identità. Più tardi ho verificato, a conferma di questa elementare intuizione, che Lazzaro è l’unico nome proprio di tutte le parabole di Luca (e, se non ricordo male, di tutte le parabole evangeliche).
Proprio qui è la chiave per interpretare la parabola: l’epulone non ha un nome, e questo significa che non ha identità. Secondo la logica della parabola, la sua unica identità, il suo essere, è: “vestiva di porpora e bisso, e tutti i giorni banchettava lautamente”; vestito lussuoso, cibo voluttuoso, e, naturalmente, il loro presupposto: il danaro. Questa identità, che è quella dell’avere e dell’apparire, cessa al momento della morte. Cessa tutto, muore tutto, perché quello che egli era, era solo quello che aveva. Di lui non resta nulla: questa è la sostanza dell’inferno, la “pena del danno”: il non essere con Dio, l’avere fallito il senso ultimo della vita, che è proprio la comunione con Dio (la pena del senso, cioè le fiamme o altre forme di punizione corporale o psichica, fanno parte dell’immaginario mitologico). L’epulone muore tutto perché in lui è morto il “cuore” (nell’accezione biblica del termine): la coscienza toccata e vivificata dalla parola di Dio. Il cuore morto è il “cuore di pietra” (Ez 36, 26), che si è chiuso alla Parola, si è rannicchiato nell’orizzonte mondano comandato da mammona, e trova qui il tutto della propria vita. Quando questa finisce, precipita nel nulla.
Lazzaro è l’antitesi totale dell’epulone: vestito di piaghe, affamato, radicale nullatenente. Ma egli ha un nome, egli non ha nulla ma è; e quel nome significa l’identità del suo essere: “Dio aiuta”. Lazzaro è la professione sussistente di fede nell’amore di Dio che si china sul povero: la dice con la propria vita. Al nome di Dio – YHWH – che significa il Presente, con la presenza premurosa di padre, di madre, di pastore, risponde il nome dell’uomo che crede in lui, che a lui si affida.
Nella storia dell’Esodo ci sono due dimensioni del cuore come apertura alla Parola: quella attiva, dell’obbedienza alla legge; ma, prima ancora, quella recettiva, del vivere nel deserto, luogo umanamente invivibile, affidandosi interamente alla presenza e cura divine. Lazzaro è l’incarnazione esemplare della condizione umana come un vivere nel deserto, ma vivere abbandonati alla presenza di Dio: non ha nulla, ma sa che “Dio aiuta”. Alla sua morte, la presenza divina non è più l’oggetto di una quasi impossibile fiducia, ma l’esperienza di una dolcissima realtà. Quel “portato dagli angeli nel seno di Abramo” (v. 21) mi richiama la visione della Gerusalemme celeste (Ap 21), dove non solo non vi sarà più alcun male (pars destruens) ma vi sarà lo splendore del “Dio con gli uomini”, che “tergerà ogni lacrima dai loro occhi”: la Presenza diventata esperienza (vv. 3-4).
L’epulone all’inferno, che supplica per i parenti ancora vivi, ottiene da Lazzaro una risposta che equivale al “guai a voi ricchi!” delle beatitudini secondo Luca: questo “guai!” non è una condanna anzitempo, ma l’ammonimento alla conversione fin che c’è tempo; e la conversione è vivere “secondo Mosè e i Profeti”, ossia aprendo il cuore alla Parola; qui alla Parola-comandamento che chiama alla dimensione attiva. E siamo così alla seconda parabola: il buon samaritano (Lc 10).
Farsi prossimo
Il tema è ancora il rapporto tra povertà e vita eterna; ma qui non è la vita eterna promessa al povero, bensì a chi ama il povero facendosi prossimo a lui. Alla domanda su qual è la condizione per entrare nella vita eterna, Gesù risponde approvando la risposta dell’interlocutore: l’osservanza della Legge (è la stessa risposta data da Lazzaro all’epulone): amare Dio e il prossimo. “Ma chi è il mio prossimo?” Questa domanda non chiede una definizione in astratto della prossimità, ma una specie di delimitazione: chi devo considerare prossimo e chi no? (Forse si riferisce a un dibattito presente tra scuole rabbiniche, che avevano misure diverse per determinare l’ambito del prossimo). In ogni caso, c’è una linea di confine: chi è al di qua (o dentro): è prossimo, chi è oltre (o fuori) non lo è. E il comandamento dell’amore al prossimo abbraccia i primi, non gli altri (che appunto non sono prossimi). Raccontando la parabola del samaritano, Gesù abbatte questo presupposto, e risponde: l’essere prossimi – nel senso del comandamento – non è la condizione di partenza (inclusiva o esclusiva) di chi dev’essere amato, ma è il “farsi prossimo” da parte di chi deve amare: farsi prossimo a chiunque è nella condizione di povertà esistenziale, storica, a chiunque ha bisogno di te. Il malcapitato della parabola è anonimo (“un uomo”); ma qui non è l’anonimato del ricco epulone; è quello della condizione umana di povertà ontologica, che diventa povertà storica quando egli viene aggredito e lasciato “mezzo morto”. La parabola si chiude riprendendo la domanda iniziale e dandole risposta: “Chi entra nella vita eterna?” “Chi si è fatto prossimo”.
La conclusione converge con quella della parabola di Lazzaro: entra nella vita eterna, nella comunione senza fine con Dio, il povero che accoglie la propria povertà; e vi entra il ricco che soccorre il povero facendosi prossimo a lui.
Due elementi integrativi
Primo: perché il Gesù di Luca prende un samaritano, mettendolo a confronto con un sacerdote e un levita? Perché il samaritano, pur non essendo un pagano, è per i giudei – diremmo oggi – un eretico; ed è proprio quest’eretico a “farsi prossimo”. Questa scelta da parte di Gesù indica un nuovo sfondamento sul fronte della prossimità: il comandamento dell’amore cancella ogni confine non soltanto nella direzione di chi deve essere amato ma in quella di chi è chiamato ad amare; non soltanto bisogna amare ogni uomo, aldilà di ogni spazio di co-appartenenza, ma ogni uomo è chiamato ad amare ed è capace di farlo, aldilà di ogni professione di fede. In quanto “farsi prossimo”, il comandamento dell’amore è doppiamente universale: tutti vanno amati e tutti sono capaci di amare; tutti sono “carne”, fragilità e bisogno, e tutti sono “cuore”, suscitato dalla parola-comandamento di Dio.
Il Dio padre di tutti è presente nella fragilità di ognuno e nella responsabilità di ognuno: è questa circolarità a fare dell’umanità il “popolo di Dio”, che Israele e la comunità cristiana rappresentano e testimoniano.
Secondo: la parabola dice che il samaritano, vedendo il malcapitato, “ebbe compassione”. Non si tratta di una semplice emozione e fugace commozione (come di chi dice:”poverino” e poi tira dritto); è una compassione attiva, che interviene e salva. Il verbo greco (esplanchnesen) deriva da un sostantivo che significa “viscere” (diciamo ancora, a volte: avere viscere di compassione), e che nella Bibbia traduce abitualmente “rachamim” (derivato da rechem = utero), che ha il significato base di “tenerezza”.
Ebbene: nel vangelo di Luca, al cap. 7, leggiamo l’episodio della morte di un giovane, che è figlio unico di una donna già vedova. Questa donna è l’icona della povertà esistenziale: la perdita dei due poli che, soprattutto in una cultura antica, definivano la dignità femminile: il marito e il figlio; una donna senza appoggio e, per di più, sterile di ritorno: una solitudine non solo affettiva ma socio-culturale. Gesù, guardandola, “ebbe compassione” (esplanchnesen): lo stesso verbo del samaritano. E la stessa conseguenza: la compassione attiva che là salva dalla morte e qui addirittura restituisce la vita. Mi pare plausibile pensare che quando, tre capitoli dopo, Luca racconta la parabola del samaritano, egli intenda dirci che la sua compassione attiva riproduce quella di Gesù. Non che il samaritano sia discepolo di Gesù, suo seguace in senso letterale! Ma dentro il suo “farsi prossimo” c’è, aldilà di ogni spazio confessionale (ebreo o cristiano o anche altro), la partecipazione alla carità di Gesù il Cristo. Come nella scena del giudizio finale (Mt 25) c’è la cristologia implicita della presenza anonima di Gesù in ogni povero (“avevo fame … avevo sete… ero nudo…”), così nella parabola del samaritano c’è là cristologia implicita della presenza anonima di Gesù in ognuno che si fa prossimo al povero. È il cerchio della carità divina che continuamente si apre e si chiude nei giorni della storia umana.