“Carico leggero e pesanti fardelli: l’Evangelo in Italia”
Incontro nazionale PO 2008 (14)
A me degli Atti degli Apostoli piace e ricordo più spesso quella frase (credo sia al capitolo XV) in cui gli apostoli, per risolvere una questione nel cosiddetto concilio di Gerusalemme dicono “non vogliamo imporvi nessun obbligo se non queste due/tre cosette”.
Lì c’è indicato un metodo di “gestione” della comunità dei cristiani, un metodo di leggerezza e non di pesantezza.
Sappiamo tutti che i duemila anni successivi fino ad oggi in genere non sono stati all’insegna del “non vogliamo imporvi nessun peso”. In genere si vuole sempre sviluppare la dottrina e la morale per aumentare le cose da credere o le cose da fare.
Mi soffermo a riflettere insieme con voi su alcune abitudini della chiesa. Per esempio il metodo delle offerte intorno all’8 per mille, intorno alle intenzioni delle messe o intorno al cestino per la raccolta è qualcosa sentito come pesante dalla gente.
Questa pesantezza toglie spazio alla gratuità che è qualcosa di libero, di leggero, di desiderabile.
Se guardo la dottrina della chiesa (riassunta nel Diritto Canonico, nei Dogmi, nella Morale) mi accorgo di una eccessiva concentrazione sui precetti e sulle tradizioni.
Evidentemente non è che si dice “adesso non parliamo di vangelo”, non è che si dice “sono più importanti i dogmi che il vangelo”: non si ha l’abitudine di arrivare a questo punto. Però già nel 1200 Antonio di Padova aveva capito tutto se faceva notare “nella chiesa è ritenuta più importante una norma data da un papa o da un vescovo anziché un suggerimento del vangelo”. Adesso vogliamo guardare con attenzione come è organizzata la chiesa? Nella chiesa c’è la massa non prevalentemente il popolo; nella chiesa c’è un’autorità riconosciuta, un’organizzazione gerarchica, c’è una burocrazia, c’è una gestione dei beni temporali: tutto ciò non lascia facilmente spazio alla iniziativa dei singoli cristiani.
Si ha bisogno di distinzioni, si ha bisogno di distinguere laici da clero, si ha bisogno di ingigantire la distinzione tra uomini e donne. Anche il frasario, il modo di parlare dei seguaci di Gesù Cristo, non usa i termini del vangelo. Le parole “discepoli e apostoli” non le si usa volentieri, oppure si usano alla luce dell’organizzazione gerarchica; sicché prevalgono “i successori degli apostoli” (che inevitabilmente sono soltanto il papa con i vescovi) sui “discepoli di Gesù Cristo” (tutta la massa della gente che deve solo ascoltare la gerarchia).
Nell’organizzazione della liturgia abbiamo le celebrazioni, gli edifici di culto, le iniziative di preghiere pubbliche: tutto questo non lascia facilmente spazio alla preghiera nascosta, non tiene conto dell’indicazione di Gesù alla samaritana (Gv.4): “l’adorazione di Dio non è più concentrata né sul monte né nel tempio”.
Se tutto deve essere riferito alla liturgia, se la liturgia deve essere “la radice e il culmine di ogni atto di culto”, evidentemente diventa secondario tutto quello che dice Gesù sulla preghiera nascosta, diventa secondaria l’esigenza centrale per il vangelo di superare il tempio e il luogo sacro.
Nella catechesi prevale il magistero e prevalgono i catechismi. Se prevalgono i catechismi questi diventano più importanti del vangelo; se prevale il magistero evidentemente si ritrovano in ombra le parole di Gesù: “uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli”. Come faccio a sentirmi fratello di un vescovo? Come faccio a sentirmi fratello del papa? La loro parola è una parola autoritativa, la parola di qualsiasi cristiano (uomo o donna) diventa secondaria rispetto alla parola di riferimento di chi detiene il potere.
La chiesa gestisce la Caritas. I centri della Caritas, sorti per un motivo buono con intenzioni buone, permettono facilmente di raccogliere offerte di denaro, ma rendono difficoltoso il contatto con il fratello bisognoso e difficoltosa l’iniziativa personale di ogni cristiano per intervenire direttamente e immediatamente. Sicché può prevalere una gestione pesantemente burocratica della carità: non rimane molto spazio per parlare della donazione di se stessi agli altri.
Nel vangelo di Gv. 3 e 12 Gesù insiste almeno due volte (una prima volta con Nicodemo e una seconda volta con tutti) sul senso della sua missione: “non è venuto per giudicare, è venuto per salvare”. Si sente annunciatore del messaggio di Dio che non è all’insegna del giudizio, ma della salvezza gratuita. Ma tutte le religioni esistono per insegnare delle dottrine, per imporre delle regole in base alle quali si può valutare l’appartenenza più o meno buona ad una aggregazione religiosa.
Giudicare mette un predominio sugli altri, carica e appesantisce gli altri; salvare alleggerisce gli altri ma mette in questione l’annunciatore del messaggio. Una chiesa che come primo compito debba salvare ha paura di dover dire “io devo salvare”, perché poter salvare significa alle volte non avere il predominio della parola, alle volte non avere il predominio nella società, alle volte essere nell’estrema povertà. Se devo salvare, io sono al servizio degli altri. Ma la cosa più facile per gli uomini di chiesa è quella di guidare e di organizzare e giudicare.
Per giudicare scarico sugli altri i pesi difficili di qualsiasi dovere o pratica religiosa. Sicché alleggerisco la mia vita e posso difendere meglio tutta la storia, la vita e l’organizzazione della chiesa.
Secondo il vangelo Gesù sottolinea varie volte questo punto: “non sono venuto per appesantire, sono venuto per alleggerire la vostra vita e farvela vivere in maniera divina”.
Varie volte il vangelo sottolinea la ritrosia di Gesù a dare norme morali: “perché, attraverso i segni dei tempi e le cose che accadono, non decidete voi stessi quel che è bene fare?”. Gesù vuole che tutti prendano coscienza che il vangelo è già dentro di noi, dentro ogni uomo.
Son contento che l’argomento di questo nostro incontro nazionale ci abbia dato l’occasione di parlare di una cosa centrale del vangelo.
La nostra vita di pretioperai, per la maggior parte ormai pensionati, è un tentativo umile ma necessario per alleggerire e salvare gli altri, prendendoci noi la nostra parte di peso senza scaricarlo sulla società.