Interventi

 
Mi ricollego anch’io alla bella citazione di Etty Hillesum1 perché anche per me le cose che vado riflettendo in questo ultimo anno si vanno condensando in poche parole: tre nello specifico, Luigi lo sa perché ogni tanto gliene parlo. La comune condizione umana è la realtà che riscopro sempre di più come l’unica esistente e che si ricollega al bel titolo di questo Convegno, il popolo oppresso non è solo perché Dio che lo guarda, lo segue e lo ascolta con amore.
È come se vedessi sempre più chiaramente nell’umanità (termine caro a Don Sirio) quel popolo senza identità che si mise in marcia dietro a Mosè (massa sbandata come l’ha definita Roberto nel suo articolo di presentazione – un coacervo di genti, un gruppo selvaggio come lo ha definito Moni Ovadia parlando a Lucca giorni fa): loro sono la rappresentazione di tutti noi.
Questo andare sbandati, seppure verso una meta, mi suscita un senso di desolazione. Mi fa interrogare sulla comune condizione umana, sul suo significato: un’identità da cancellare, dalla quale fuggire in nome di una serie di diversità (età, genere, razza, Paese, religione) o invece una fonte di ispirazione? Mi sembra possa essere la scoperta di un’identità ritrovata, come accorgersi di avere tutti la medesima pelle e allora preme la spinta a spogliarci di quella nostra, individuale, che ci avvolge definendoci, per rivestirci della pelle comune a tutti.
Mesi fa ho sentito il filosofo Roberto Mancini parlare a Lucca della giustizia: la definiva la possibilità di risanare il tessuto sociale lacerato. Di questo umile tessere, antica arte femminile … che permette all’umanità di colmare i vuoti creati dalle ingiustizie, di ricostituire il tessuto sociale violentemente strappato, ve n’è un estremo bisogno. Un tessere quotidiano e instancabile relazioni fra di noi ed anche con il mondo della Natura che ci ospita, del quale facciamo parte, amando il quale possiamo riscoprire la creaturalità da troppo tempo perduta. Un tenere insieme interno ed esterno.
Mancini parlava della giustizia restituiva come di un’azione capace di colmare, riparare, ricreare condizioni di adeguatezza, compensando gli squilibri che si creano. Per farlo, per colmare i vuoti occorre quel cuore nuovo, quella capacità di ascolto dei quali parlava Angelo Reginato nel suo ultimo articolo così ampio e profondo sull’Esodo, dove ricorda che la tradizione ebraica sottolinea che non bastava uscire dall’Egitto, occorreva che l’Egitto uscisse dal cuore di Israele.
E qui si torna al vostro tema, quello del titolo <Ho visto l’oppressione del mio popolo> legato, come lo avete, al tema della giustizia e dell’attualità politica. Una politica che è sempre più lontana dalla protezione dei deboli, degli oppressi, dei sofferenti, dei respinti …, lontana da una compensazione costante di fronte alle ineguaglianze, che della politica sarebbe il primo dovere.
Ma abbiamo ancora una possibilità da giocare: quella di ricostituire quel famoso potere orizzontale del quale parlava la Arendt, capace di essere una leva di cambiamento politico, sociale e culturale, creando, come suggeriva Mancini, zone franche dove non conta il denaro per il denaro o il potere per il potere, ma contano le persone.
E sull’esistenza di queste zone franche lungo la storia, o di essere, come diceva poco fa Angelo, un granello nell’ingranaggio delle istituzioni, voglio citarvi un piccolo episodio del passato. Si situa ai tempi della Rivoluzione Francese, l’ho incontrato recentemente, durante i miei studi alla ricerca di notizie di una ava del ramo francese della mia famiglia: si chiamava Louise Contat, era una attrice della Comédie Française che aveva creato un nuovo stile di recitazione. In pieno Terrore, lei e gli altri colleghi furono imprigionati come controrivoluzionari. Per trovare il suo nome ho dovuto leggere liste lunghissime di prigioniere (le maggiori prigioni hanno messo on-line la lista dei detenuti) e la lettura di migliaia di nomi, unita a stampe dell’epoca con lo schizzo dei volti mi ha ispirato sempre più la pietà per la comune condizione umana.
I processi negli ultimi tempi erano diventati puramente formali, il Comitato di Salute Pubblica –il cuore del potere – forniva ai giudici la lista dei prigionieri da condannare e il tipo di condanna: per chi doveva andare alla ghigliottina si apponeva una grande G rossa in testa all’incartamento.
Ma anche nel Comitato si creò una zona franca, tanto che un contemporaneo, descrivendo la sede del Comitato di Salute Pubblica sorvegliata giorno e notte da un nutrito drappello della Guardia Nazionale, annota che “le guardie scelte non impedirono al coraggio e alla umanità di aprire la porta e di entrare …”.
Era accaduto questo: un giovane impiegato, che doveva assemblare i documenti di accusa contro i prigionieri e trasmetterli al giudice, di fronte alle centinaia di esecuzioni già decise prima del processo, decide di opporsi. Si chiamava Charles Hippolyte Labussière, a margini del paragrafo che parla di lui ho annotato, parafrasando l’Arendt, <la banalità del bene>…
Era un attore dilettante, spavaldo, spiritoso, coraggioso. Capisce che per salvare quei poveretti deve fare sparire i documenti che li riguardano, in questo modo sparirà anche ogni traccia di loro. All’inizio sceglie chi salvare: i padri di famiglia numerosa, o la donna se i condannati sono marito e moglie, poi lentamente diventa più coraggioso e salva gruppi interi di persone.
Ma come farlo? La carta allora non era sottile e i documenti numerosi, per di più c’erano spie dappertutto, gli impiegati era obbligati a lavorare con le porte aperte per un controllo reciproco. mette a punto un piano ingegnoso: porta in ufficio un secchio d’acqua con la scusa di tenere in fresco la birra per il pranzo, lo colloca sotto la sua scrivania e via via vi fa scivolare i documenti. A fine giornata si avvia come tutti all’uscita, ma torna dopo cena con la scusa che il lavoro è molto: tira fuori la poltiglia che si era formata, ne fa delle palle le sgronda dall’acqua, le mette in tasche interne che si era cucito nella giacca ed esce.
Però non osa portarli a casa, che, come tutte quelle dei dipendenti del Comitato, era visitata regolarmente dalla polizia segreta. Allora si dirige verso un bagno pubblico da poco costruito lungo la Senna, prenota una stanza, svuota le tasche e ricava minuscole palline (invisibili da qualcuno che guardasse dall’esterno) che getta direttamente dalla finestra nel fiume. Ma i giudici non vedono arrivare più istanze di condanna e ordinano un’ispezione al Comitato di Salute Pubblica, sicuri che lì s annida un traditore. La richiesta arriva l’8 di Termidoro, il giorno dopo, il 9 Termidoro, Robespierre è messo in stato di accusa. Labussière e i suoi protetti hanno salva la vita: la grande storia si fonda con la piccola storia.
In questo modo il giovane sconosciuto salvò dalla ghigliottina circa 1300 persone, fra le quali la mia ava con tutto il gruppo della Comédie Française e Giuseppina Beauharnais, la futura moglie di Napoleone.
Dopo la Rivoluzione si dimenticarono di lui, che morì in miseria in un ospizio, intorno ai 40 anni. Le notizie le abbiamo attraverso un suo superiore, Fabien Pillet, che ne ha scritto le memorie. Ho voluto ricordarvelo a nome di tante altre persone di buona volontà che lungo la storia hanno creato delle zone franche.

Maria Grazia Galimberti

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1 “Io detesto gli accumuli di parole. In fondo ce ne vogliono così poche per dire quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò, e chissà poi che cosa?, mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto”


 

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