2 giugno 2011
CONVEGNO A BERGAMO
Prima relazione
Cristianesimo senza cristianità:
illusione o esodo da un mito spiritualmente esaurito? (*)
Prima di tutto un vivissimo ringraziamento per l’invito a partecipare a questo vostro convegno. Ci si rincontra dopo 17 anni, tutti un po’ più vecchietti. Allora ci si trovò a Salsomaggiore e anche allora, come stavolta, il titolo del mio intervento era piuttosto enigmatico (“Figure del cristianesimo storico nella transizione al postmoderno”). Detto in parole semplici, oggi cercherò di proporvi alcune considerazioni sui diversi orientamenti presenti attualmente nella Chiesa cattolica, e in particolare ai suoi vertici, rispetto a una difficile e complessa situazione generale di mutamenti planetari, definibili senza esagerazioni come epocali. Lo farò con l’ottica e il metodo dello studioso di storia, attento alla consistenza dei fatti, da leggere nel loro significato e nella loro portata, ma guardandomi bene dall’affermare qualcosa che non abbia alla sua base una documentazione sicura. Penso sia superfluo aggiungere che il quadro da me offerto non potrà non essere largamente incompleto: mi auguro che la discussione possa integrarlo almeno in parte.
Comincerò con una citazione che ci permetterà, spero, di mettere in luce il problema di fondo che travaglia attualmente la Chiesa. È tratta da un discorso del padre Pedro Arrupe, preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1965 ai primi anni Ottanta, quando in seguito alla sua malattia egli si dimise dalla carica e la Compagnia fu commissariata da Giovanni Paolo II.
Due parole su di lui prima di leggervi il passo (1). Non credo una forzatura affermare che il padre Arrupe aveva una visione planetaria dei problemi e pensava il Vaticano II come un “nuovo inizio”. La consapevolezza degli enormi cambiamenti in corso, di cultura, mentalità, stili di vita, cambiamenti che si accompagnano al crescere degli squilibri e delle tensioni tra paesi ricchi e paesi poveri come all’interno degli stessi paesi ricchi, tra continenti e continenti come all’interno degli stessi continenti, gli danno il senso della drammaticità della situazione, una situazione in cui la Chiesa cattolica è pienamente coinvolta. Ne parlò più volte nel corso degli anni Settanta. La portata religiosa e sociale di tutto ciò gli era chiaramente presente. L’esprime compiutamente il passo che ora vi leggerò. È tratto da un suo intervento alla VI Settimana sociale dei religiosi di Spagna, tenuta nell’aprile 1977 (2):
«La Chiesa e la vita religiosa vivono oggi una condizione di esodo gigantesca: uscita da una cultura, da concezioni, da sicurezze, da ideologie, da un ordine sociale, uscita che impone rotture e rinunce talvolta violente e molto dolorose, altre volte inconsce, in vista di inaugurare qualcosa di nuovo, di sconosciuto, che sta generandosi come spontaneamente e al di fuori del controllo dell’uomo, proprio quando egli si riteneva capace di dominare l’universo e di modellarlo con la propria creatività. Un esodo nel corso del quale il mondo antico e il mondo nuovo escono da loro stessi all’incontro di un terzo mondo e di un quarto mondo, in virtù dell’interdipendenza delle nazioni e della crescita dei popoli nuovi. É, al tempo stesso, un esodo del terzo e del quarto mondo in direzione del primo e del secondo, in cerca di aiuto, per il loro equipaggiamento tecnico e il loro progresso economico, di formule nuove per il loro sviluppo. Un esodo totale, di tutti e di tutto, verso una regione sconosciuta, che appare come un no man’s land, che può divenire sia la “terra promessa” sia un campo di concentramento dove l’uomo si fa carnefice di se stesso, una specie di immensa Dachau».
Lascio da parte la drammaticità di alternative e di dilemmi decisivi che Arrupe delinea nella conclusione di questo passo, il senso di un urgere della storia che profila esiti radicalmente opposti per l’umanità, mai come ora così divisa e insieme così solidale nel suo destino. Ciò su cui vorrei prima di tutto soffermarmi è il fatto che in tale situazione la Chiesa, per Arrupe, è pienamente coinvolta e partecipe.
E tuttavia, attenzione: un tale impianto e una tale affermazione sono possibili solo se si accetta e si è persuasi non solo del fatto, scontato, che la Chiesa cattolica vive nella storia, ma anche del fatto che le vicende della storia la condizionano profondamente, così come l’hanno profondamente e costantemente condizionata nel corso del tempo. Detto in altre parole, se si è persuasi che, con la Chiesa e come la Chiesa, il messaggio cristiano ha dovuto misurarsi di volta in volta con la cultura, gli orientamenti, le persuasioni degli uomini che l’hanno fatto proprio e trasmesso, subendone tutti gli inevitabili condizionamenti, soffrendone tutti i possibili tradimenti, e rendendo perciò necessaria una sua costante riscoperta.
Giovanni XXIII l’aveva riconosciuto esplicitamente all’approssimarsi della morte, usando com’era suo costume parole semplici e piane, dense però di saggia esperienza e di chiarezza e onestà intellettuale (3): “Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica. Le circostanze odierne, le esigenze degli ultimi cinquant’anni, l’approfondimento dottrinale ci hanno condotto dinanzi a realtà nuove […]. Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a conoscerlo meglio […]; è giunto il momento di riconoscere i segni dei tempi, di coglierne le opportunità e di guardare lontano”.
In sintesi penso si possa dire che sono state queste l’ottica e l’attenzione che hanno animato il Vaticano II, è stato questo il senso profondo dell’aggiornamento cui Giovanni XXIII aveva voluto chiamare la Chiesa cattolica, è stata questa la prospettiva che formule come “nuovo inizio” e “nuova Pentecoste”, con cui si volle qualificare il concilio, intendevano delineare.
Era il faticoso emergere della consapevolezza che non vi è, né mai vi è stata, identità e identificazione tra Chiesa e vangelo, tra magistero e messaggio evangelico. Da un altro punto di vista – si potrebbe aggiungere e precisare – era la storia, in tutti i suoi tortuosi percorsi, che diveniva un imprescindibile banco di prova per giudicare la fondatezza delle prerogative e dei riconoscimenti che la Chiesa e le sue gerarchie rivendicavano per sé, delle pretese di cui si facevano forti di fronte alle società e agli Stati.
Non era una novità assoluta, questo guardare alle realtà della storia, alla vita concreta degli uomini, per giudicare il magistero. Voci in questo senso non erano mancate anche in passato. A ben guardare, in tempi non lontani dal concilio anche se in un clima e in un contesto profondamente diversi, l’aveva già fatto l’esperienza iniziale dei preti operai francesi tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Con la loro scelta e nel corso di essa infatti avevano rovesciato lo schema abituale con cui il magistero romano guardava al mondo contemporaneo: non sono le colpe e gli errori del secolo, né una presunta cospirazione dei tempi moderni le cause profonde e decisive della scristianizzazione contemporanea, ma l’insufficienza storica del magistero della Chiesa, la sclerotizzazione della cultura ecclesiastica, l’incapacità di vita reale che ne domina gli ambienti, la burocratizzazione banalizzante con cui essa ha tradotto l’annuncio di liberazione del Cristo (4). «Abbiamo bisogno di ritrovare de l’humain», aveva scritto il gesuita Henri Perrin prima di entrare in officina (5), e Teilhard de Chardin, in una lettera del gennaio 1954, aveva scritto dell’atmosfera sotto-umanizzata della curia, incapace di credere in un avvenire dell’uomo sulla terra (6).
Il concilio aveva allargato il quadro, aveva messo in discussione più cose del passato, nel rapporto della Chiesa con gli “altri”, con le tante realtà che ne sono “fuori”, ma anche nei modi di essere con cui la Chiesa aveva realizzato gran parte del percorso storico fino allora compiuto: esplicita, da parte di molti, era la volontà di superare la cosiddetta “età costantiniana”. Era una svolta radicale. Karl Rahner ne ha rilevato alcuni aspetti con la consueta chiarezza (7). Bisogna riconoscere, egli ha scritto, che prima del concilio la Chiesa cattolica considerava le Chiese e le comunità cristiane non-cattoliche come organizzazioni di eretici, come comunità di uomini che si distinguono dalla Chiesa cattolica solo a motivo di errori e di mancanze e che dovrebbero ritornare nel suo seno per ritrovarvi la piena verità e la pienezza del cristianesimo; mentre le religioni non-cristiane nel loro complesso non erano altro che le paurose tenebre del paganesimo, cioè quel prodotto religioso che l’uomo peccatore e privo della grazia ha ideato con le sue sole forze. Con il decreto conciliare Unitatis redintegratio sull’ecumenismo si era venuta affermando tra i cattolici la coscienza che anche le altre Chiese cristiane potevano apportare nell’unica Chiesa del futuro un’eredità positiva di storia del cristianesimo. Mentre con la dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane era stata avviata, oltre che una radicale revisione dei rapporti con l’ebraismo, una prima riflessione sulla funzione salvifica che anche nella loro dimensione istituzionale le religioni non-cristiane possono esercitare.
Non erano naturalmente mancate resistenze e opposizioni. Lo scisma del vescovo Marcel Lefebvre ne è stata la manifestazione più vistosa. Ma non è questo il punto. Altre sono le domande e le questioni di fondo. Con l’impianto e la prospettiva che il concilio si era dato si usciva da antiche e riposanti certezze. Ci si avviava lungo cammini incogniti vissuti come tali dai protagonisti più consapevoli.
Conseguenza della messa in discussione del percorso storico della Chiesa era il rifiuto in termini più o meno radicali della sua secolare alleanza con il potere e del suo stesso ritenersi comunque necessaria parte costitutiva nel governo della società. Era il modo di essere “Chiesa” che appariva del tutto inadeguato, un modo di essere di cui si reclamava il cambiamento. Ma cambiava anche, da parte dei credenti, il modo di rapportarsi alla gerarchia e alla fede. In primo piano veniva posta la responsabilità della coscienza individuale, un fatto del tutto nuovo rispetto al magistero degli ultimi secoli. Ne è una spia significativa un cambiamento nel linguaggio: in luogo di “fedeli” si tende a parlare piuttosto di “credenti”.
Premessa di fondo di tutto ciò, suo elemento decisivo su cui non si insisterà mai abbastanza, era il diffuso affermarsi della consapevolezza della storicità del cristianesimo. Su tale consapevolezza si fondano infatti le stesse prospettive di rinnovamento per il futuro, la possibilità stessa di pensare ad un rinnovamento. Non è per caso che tale consapevolezza venga bollata con l’accusa di relativismo da parte di quanti tendono a ridimensionare, se non sempre a negare, i risultati del concilio.
Sono alcuni dei grandi lasciti del Vaticano II. Mi sembra difficile non riconoscere che non è su questa strada (e ciò da tempo) che i vertici romani intenderebbero condurre la Chiesa e i fedeli. Senza forzare i toni, la frase detta dal cardinale Martini nei suoi Colloqui notturni di Gerusalemme è densa di implicazioni: “Certamente c’è la tendenza [non una tendenza, ma la tendenza] di allontanarsi dal concilio (Es gibt sicherlich die Tendenz, vom Konzil abzurücken”) (8). In quegli stessi Colloqui Martini aveva detto anche (9): “Un tempo avevo dei sogni per la Chiesa. Per una Chiesa che va per la sua strada in povertà e umiltà, per una Chiesa che non dipende dalle potenze di questo mondo. Sognavo anche che il sospetto venisse debellato. Di una Chiesa dunque che fa spazio alla gente che guarda lontano. Di una Chiesa che fa coraggio specialmente a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo di una Chiesa giovane. Oggi non ho più questi sogni. Ai miei 75 anni mi sono deciso a pregare per la Chiesa”. Sono frasi assai espressive, mi pare, del suo modo di guardare agli orientamenti prevalenti tra i vertici romani. Su questi aspetti vorrei soffermarmi nella seconda e ultima parte di questo mio intervento.
Centrale è la questione del concilio Vaticano II, del modo di intenderlo, del giudizio e dell’atteggiamento assunti verso di esso e verso ciò che nella Chiesa cattolica ne è seguito.
Diffidenza e sospetti nei suoi confronti fanno parte di un processo che viene da lontano, un processo cominciato già prima che il concilio si aprisse. Il periodico lefebvriano e tradizionalista “Sì Sì No No” ricordava recentemente la “profezia” di mons. Antonino Romeo, che in un articolo pubblicato su “Divinitas” nel 1960 aveva messo in guardia contro lo “spaventoso pericolo […] che si attestino all’interno della Chiesa teorie o tendenze che minacciano di sovvertire i fondamenti della dottrina cattolica” (10). E Romeo non aveva esitato a scrivere anche di tutto “un incessante lavorio di termiti” che si agitano nell’ombra, di “una piano completo di aggiramento e di sgretolamento delle dottrine di cui si forma la Fede cattolica”, di “sempre più numerosi indizi” che «attestano il graduale svolgersi di un’ampia progressiva manovra, diretta da abilissimo capi, apparentemente piissimi, tendente a togliere di mezzo il Cristianesimo finora insegnato e vissuto per 19 secoli, per sostituirgli il Cristianesimo “dei tempi nuovi”». Erano le avvisaglie dell’ottica con cui gran parte della curia avrebbe guardato all’opera della maggioranza conciliare.
In effetti timori, sospetti, allarmi per ciò che negli anni del post-concilio stava avvenendo cominciarono a manifestarsi ben presto a Roma. Non erano soltanto prelati da subito aspramente critici dell’andamento del concilio a farlo (11). Già nel dicembre 1966, a un anno dalla sua chiusura, in un discorso al Sacro Collegio e alla prelatura romana, lo stesso Paolo VI si era riferito con preoccupazione alle “espressioni di inquietudine dottrinale e di insofferenza disciplinare” che si avvertono, “rare, ma purtroppo pubbliche e varie”, nella Chiesa cattolica, invitando i pastori alla “vigilanza” (12). Il Credo, pronunciato dal balcone della basilica di San Pietro il 30 giugno 1968 suonò come un’indiretta smentita e messa in guardia rispetto al “Catechismo olandese” che tante discussioni andava suscitando nella Chiesa (13). L’enciclica Humanae vitae, sui problemi della procreazione e della limitazione delle nascite, che profilava orientamenti opposti al parere espresso dalla commissione episcopale da lui stesso nominata, costituì un’esplicita piena riaffermazione del suo primato personale sulla Chiesa, che relegava in un angolo la collegialità.
Negli anni successivi le sue preoccupazioni si accentuarono. Nel dicembre 1968 aveva parlato dell’ora di inquietudine, di autocritica, “si direbbe persino di autodemolizione”, che attraversa la Chiesa (14), e concetti simili ripeterà anche negli anni successivi, fino al famoso discorso del 29 giugno 1972 sul “fumo di Satana, penetrato per qualche fessura nel tempio di Dio” (15). Né era mancata da parte sua l’accorata denuncia della tendenza “all’accettazione delle forme e dello spirito della riforma protestante” (16).
Erano tutte formulazioni non lontane da quanto gruppi tradizionalisti critici del concilio venivano dicendo sulla crisi presente della Chiesa cattolica. Ciò che però Paolo VI non era disposto a fare era di mettere globalmente in discussione il concilio, a fare di esso la causa prima delle difficoltà e delle tensioni che avevano colpito tanti aspetti della vita della Chiesa. Indubbio, mi pare, il suo sforzo di ridimensionarne la portata, di limitarne gli esiti. Non parlava a caso quel gruppo di autorevoli teologi che alla fine del 1968 denunciava in un documento pubblico i pericoli che sembravano incombere nuovamente sulla libertà della ricerca e della discussione teologiche (17). La lettura che Paolo VI venne progressivamente offrendo del concilio era soprattutto in termini di riforma personale, evocativa dei caratteri che aveva assunto la proposta di riforma cattolica del primo Cinquecento. Ma pur nell’angoscia per quelli che gli apparivano processi di disgregazione in corso, il Vaticano II restò per lui un punto di riferimento non suscettibile di discussione. Lo attestano con chiarezza, come si vedrà meglio tra poco, le motivazioni con cui accompagnò il suo rifiuto di concedere a mons. Lefebvre l’uso della messa cosiddetta di san Pio V.
I suoi successori andarono oltre nell’opera di ridimensionamento del concilio, sia attraverso il disciplinamento e la repressione delle iniziative e delle discussioni postconciliari, sia attraverso la nomina di vescovi di tendenza conservatrice.
Non vi è dubbio: soprattutto Giovanni Paolo II ma anche Benedetto XVI hanno frasi di grande apprezzamento dell’opera del concilio, così come entrambi hanno ribadito più volte il loro fermo impegno a una sua piena attuazione. Resta tuttavia una domanda capitale, a fronte delle tante interpretazioni circolanti sul concilio: quali sono i termini con cui essi lo intendono, quali i limiti in cui pensano di ridurlo (18)?
Non si trattò soltanto dell’insistito invito, già da parte di Giovanni Paolo II, di leggere il concilio alla luce della tradizione, con l’evidente tendenza di cancellare il significato di svolta che già il rigetto di pressoché tutti gli schemi preparatori aveva chiaramente assunto nel momento stesso in cui si era verificato, agli occhi degli uni per sottolinearne positivamente la portata, agli occhi degli altri per deprecarlo. La misura della tendenza normalizzante con cui Roma già negli anni Ottanta del secolo scorso guardava ormai al Vaticano II è offerta dalle caratteristiche assunte dal sinodo straordinario del novembre-dicembre 1985 convocato dal papa a vent’anni dalla sua conclusione per “ricordare l’evento, “verificarne l’attuazione” e “promuoverlo nella Chiesa in modo che venga pienamente vissuto”. Normalizzanti in effetti erano i due presupposti fondamentali indicati nel documento conclusivo come necessari per intendere rettamente la dottrina del concilio: “Il concilio deve essere inteso in continuità con la grande tradizione della Chiesa […]. La Chiesa è la medesima in tutti i concili” (“Ecclesia ipsa et eadem est in omnibus conciliis”) (19). Quest’ultima affermazione, non poco singolare se ci sia attiene ai fatti, riproponeva quell’idea di una Chiesa sottratta alla storia e alle esperienze e ai condizionamenti della storia che dagli anni della “ribellione” luterana caratterizzava la teologia romana e che agli inizi del Novecento aveva costituito il criterio principe per combattere il cosiddetto modernismo, mentre l’affermazione che il concilio deve essere letto alla luce della grande tradizione ne sminuiva chiaramente i molti punti di novità. Non è un caso del resto che Giovanni Paolo II, rievocando in Varcare le soglie della speranza (1994) gli anni del concilio, parlasse delle controversie tra “progressisti” e “conservatori” come di “controversie politiche e non religiose” (20), quasi che tali fossero stati gli scontri su nodi centrali come l’ecclesiologia, il rapporto tra Scrittura e Tradizione, la libertà religiosa, l’ecumenismo, il rapporto con le religioni non-cristiane, l’apertura al mondo e alla storia. Come non è un caso che nella nascita dei movimenti egli vedesse (come faceva del resto anche il cardinale Ratzinger) il frutto migliore del concilio (21).
Certo, del concilio Giovanni Paolo II apprezzava anche altro: in particolare, ed è importante, lo “stile del dialogo” verso il quale aveva voluto orientare la Chiesa (22). Ma anche qui, attenzione: questo stile, questa scelta di misurarsi con gli “altri”, di incontro con gli “altri”, imponeva per lui “una Chiesa profondamente consolidata nella propria fede”. Sono significative a questo riguardo le considerazioni presenti nella lettera da lui inviata ai vescovi tedeschi nel maggio 1980, dopo che la Congregazione per la dottrina della fede aveva tolto a Hans Küng la qualifica di teologo cattolico, negando perciò che egli potesse “in quanto tale, esercitare il compito di insegnare”, avendo avanzato opinioni che si oppongono al dogma dell’infallibilità (infallibilità della Chiesa e del papa) (23). Nella lettera Giovanni Paolo II, oltre a considerare tale infallibilità base fondamentale per le stesse verità più elementari della fede, ne affermava l’importanza e la necessità proprio in relazione “all’attuale tappa postconciliare”. Dal momento infatti che “la Chiesa deve intraprendere l’opera di rinnovamento, occorre che abbia una particolare certezza della fede, la quale, rinnovandosi secondo la dottrina del Vaticano II, permane nella stessa verità che aveva ricevuto da Cristo. Soltanto così può essere sicura che Cristo è presente nella propria barca, e la dirige fermamente anche nelle burrasche più minacciose”.
Con tali considerazioni Giovanni Paolo II intendeva riferirsi sia alle “tempeste” del post-concilio, sia alle esigenze richieste dal “dialogo” suggerito dal Vaticano II, che appunto, come scrive, “solo una Chiesa profondamente consolidata nella sua fede” può essere in grado di affrontare. È, mi pare, un rilievo di fondo: offre la ragione di quella tendenza all’irrigidimento dottrinale (fatto di crescenti messe in guardia e di condanne) che costituisce una cifra caratteristica sia del suo pontificato sia di quello successivo.
Gli esempi a questo riguardo sono numerosi e noti: riguardano personalità singole e riguardano gruppi e orientamenti collettivi, come nel caso della Compagnia di Gesù o della teologia della liberazione (24). Non è senza significato se già agli inizi degli anni Ottanta il gesuita Jean-Blaise Fellay si chiedesse su “Choisir” se si stata assistendo “al ritorno di un’era glaciale nella teologia”; e replicasse a quanti facevano carico al concilio degli sbandamenti e delle fughe in avanti in atto nella Chiesa, che “un periodo autoritario prepara molto male all’esercizio della libertà” (25). Non mi soffermerò dunque su queste vicende, che suscitarono a loro volta numerose iniziative di protesta collettiva da parte di teologi e operatori pastorali di diversi paesi. Ciò che peraltro va ricordato è che in tali vicende Giovanni Paolo II ebbe come suo principale collaboratore (e talvolta forse ispiratore) il cardinale Ratzinger, dai primi anni Ottanta prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e autore di alcuni documenti che si muovono in una direzione che sarebbe difficile definire ispirata agli indirizzi di fondo del concilio. Mi limiterò, a questo riguardo, ad alcune sommarie e rapsodiche indicazioni.
Un aspetto di grande novità tra le decisioni del concilio, lo si è già ricordato, era quello ecumenico. Il 28 maggio 1992 la Congregazione per la dottrina della fede emanò la dichiarazione Communionis notio (26). In essa si affermava la priorità della Chiesa universale sulle Chiese particolari, e la centralità che assume il loro rapporto di comunione con la Chiesa universale rappresentata dal sommo pontefice. Nel caso della sua mancanza esse patiscono una ferita nel loro essere Chiese particolari. Si stabiliva o meglio si ribadiva così una differenza sostanziale tra i diversi interlocutori del dialogo ecumenico, e il problema dell’unità dei cristiani si configurava nuovamente (malgrado le smentite) nei termini di un “ritorno” dei “fratelli separati” nella Chiesa romana.
Era una svolta netta rispetto ai termini in cui da parte di molti, alla luce del decreto Unitatis redintegratio, era stato configurato il nuovo ecumenismo cattolico, che, come scrisse in riferimento alla Communionis notio il gesuita Raymond Brechet, “non significava un ritorno a Roma delle Chiese cristiane, ma tutte le Chiese, Roma inclusa, avevano il dovere di convergere insieme verso il Cristo, loro unico centro (27).
La rivendicazione per la Chiesa cattolica di essere, essa soltanto, nel possesso pieno della verità, veniva ripresa e ribadita in tutta una serie di documenti successivi. Nella Nota sull’espressione Chiese sorelle del 30 giugno 2000, nel chiaro intento di salvaguardare pienamente il primato universale di Roma, si metteva in discussione la possibilità di usare una tale espressione per le Chiese dell’ortodossia, mentre la si negava senz’altro alle confessioni cristiane uscite dalla riforma (28). Si era, merita ricordarlo, nel contesto delle cerimonie penitenziali e di richiesta di perdono indette da Giovanni Paolo II per il Grande Giubileo, cerimonie com’è noto assai malamente accolte da non pochi cardinali e vescovi, che le giudicavano variamente lesive del prestigio e della dignità della Chiesa cattolica. Nell’agosto la dichiarazione Dominus Jesus, “sull’unicità e l’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa”, ribadiva che “la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica” (29). Era un’affermazione quest’ultima che si intrecciava con la questione dell’interpretazione di una frase della Lumen gentium, 8 (“unica Christi Ecclesia […] subsistit in Ecclesia catholica”). Tra il 1973 e il 2007 furono ben cinque le dichiarazioni della Congregazione per la dottrina della fede volte ad affermare la piena equivalenza di quel subsistit all’est che figurava invece nella Mystici corporis (30), contrariamente a quanti sostenevano che proprio la sostituzione di subsistit a est segnalava la volontà di non affermare un piena e definitiva identificazione tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa romana.
Si trattò di concetti ribaditi anche in documenti successivi, come ad esempio nella Risposta ad alcuni quesiti riguardanti la dottrina della Chiesa (giugno 2007), che implicitamente ripeteva la perfetta equivalenza tra subsistit ed est, o la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione (dicembre 2007), che affermava lo stretto nesso tra verità e libertà e respingeva come relativistiche le teorie che giustificano il pluralismo religioso non solo de facto ma anche de iure. Perciò, sia ai seguaci di altre religioni sia agli altri cristiani, il cattolico ha il dovere di offrire la pienezza dei mezzi di salvezza che egli solo possiede (31).
Non diversamente dall’ecumenismo e dal rapporto con le altre religioni, veniva realizzandosi una stretta per quanto riguarda il laicato, tanto in riferimento al suo ruolo nella Chiesa, quanto in riferimento alla sua autonomia nell’ambito delle realtà temporali. L’Istruzione relativa ad alcune questioni riguardanti la cooperazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti (15 agosto 1997), mentre da una parte intende porre un freno a situazioni dove, anche per carenza di preti, il ricorso ai laici per lo svolgimento di numerosi ministeri stava divenendo un fatto compiuto, dall’altra ripropone una visione di Chiesa come un’istituzione fortemente strutturata dall’alto in basso, in termini gerarchici e centralizzati (32).
Non presenta un orientamento diverso, ma in riferimento alle realtà temporali, la Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (24 novembre 2002). Vi si afferma con tutta chiarezza (e sono concetti ripetuti a iosa) che anche nell’ambito politico rimangono primarie le parole e le indicazioni del magistero, depositario di quelle “norme morali radicate nella natura stessa dell’essere umano”, cui il politico cattolico deve costantemente richiamarsi, opponendosi ad ogni concezione relativistica del pluralismo (33).
Vanno in parallelo con tali rivendicazioni del ruolo e dei diritti del magistero le ricorrenti messe in guardia contro formule come “cristiani maturi”, “cristiani adulti”, “fede adulta”. Benedetto XVI si è espresso molto chiaramente al riguardo nel discorso di chiusura dell’anno paolino (28 giugno 2009): « La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo si intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere o non-credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire al magistero della Chiesa, anche se questo contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo» (34). Mi sembra difficile non rilevare che si ripropone in tale presentazione delle cose un tratto piuttosto consueto nei discorsi di Benedetto XVI, la semplificazione banalizzante cioè delle posizioni non coincidenti con le sue.
All’interno di tale impianto complessivo trova spazio la galassia degli svariati movimenti, da Comunione e liberazione ad Alleanza cattolica ai molteplici Legionari e Crociati, spesso divisi su alcune prospettive di fondo ma generalmente uniti a combattere e a cercare di distruggere i punti di riferimento e i resti del “cattolicesimo democratico”. Ne costituiscono una manifestazione tipica le ricorrenti campagne contro Giuseppe Dossetti “questo monaco principe, personaggio integralmente politico”, che con i suoi seguaci incarnerebbe paradossalmente a sinistra il famoso motto di Charles Maurras e dell’Action française “politique d’abord, la politica prima di tutto” (35). Non è mio costume il farlo, ma mi è difficile non definire idiozie affermazioni come queste che ricorrono con una certa periodicità in riviste come “Studi cattolici”, dove le firme di membri dell’Opus Dei si alternano a quelle di esponenti di Comunione e liberazione. Manifestazione estrema di tale campagna può essere considerato il recente libro di Gianni Baget Bozzo e di Pier Paolo Saleri dedicato appunto a Dossetti (36). Con il politico si attacca un protagonista del rinnovamento conciliare e viceversa. Non gli si perdona di aver guardato nel dopoguerra al partito comunista e alla realtà sociale che rappresentava, non gli si perdona il ruolo assunto in concilio, non gli si perdona soprattutto la sua discesa in campo a difesa della Costituzione contro l’inquinamento morale, civile e politico rappresentato da Silvio Berlusconi e dal cosiddetto “berlusconismo”.
Tali limitazioni all’autonomia e alle responsabilità politiche del laicato hanno aperto la strada, soprattutto in Italia, ad una linea di intervento della gerarchia volta ad evitare l’emanazione da parte degli organi dello Stato di norme e disposizioni non corrispondenti alla dottrina elaborata dal magistero, ma nello stesso tempo a tentare di imporne tali che vi corrispondano. Al di là delle ricorrenti dichiarazioni di intenti, la gerarchia ecclesiastica fatica ancora a riconoscere la laicità come principio che deve regolare i rapporti di uno Stato democratico con le Chiese e le confessioni religiose (37). Verrebbe da dire che la memoria del regime di cristianità opera come una sorta di riflesso condizionato, ma avvilita, per dir così, a collusioni e scambi di basso profilo.
A guardare dunque ai documenti prodotti in questi ultimi decenni dalla Congregazione per la dottrina della fede emerge chiaramente la tendenza a piegare i testi e gli orientamenti maggiori del concilio ad una interpretazione riduttiva. Non diversamente si tende a fare del concilio nella sua globalità.
È significativo ciò che il cardinale Ratzinger disse in una conferenza tenuta ai vescovi cileni il 13 luglio 1988 (38). Si era all’indomani del fallito accordo con mons. Lefebvre (un accordo fortemente caldeggiato dal cardinale e che un comunicato congiunto dei presidenti della Conferenze episcopali di Francia, Repubblica federale tedesca e Svizzera aveva giudicato espressione di “straordinaria misericordia”, “giunto fino al massimo della concessioni possibili” (39)), cui erano seguite la consacrazione da parte sua di quattro vescovi e la scomunica che per questo aveva colpito i consacranti (era presente anche il vescovo brasiliano de Castro Mayer) e i consacrati. Ratzinger, naturalmente, aveva criticato il persistente rifiuto del concilio opposto da Lefebvre (non senza concedergli, come si vedrà tra poco, una serie di giustificazioni), ma aveva criticato anche con durezza quanti ne maggiorano per dir così ruolo ed importanza, considerandolo “punto di partenza per un nuovo cammino”: “La verità è (così Ratzinger) che il concilio stesso non ha definito nessun dogma ed ha tenuto espressamente a situarsi ad un livello più modesto, semplicemente come un concilio pastorale. Malgrado ciò, numerosi sono coloro che lo interpretano come se si trattasse di un super-dogma relativizzando tutto il resto” (40).
Inoltre, pur ripetendo che Lefebvre compiva un grave errore con il rifiuto del concilio, Ratzinger aveva riconosciuto che lui e i suoi seguaci (che andavano ben oltre agli appartenenti alla Fraternità San Pio X da lui fondata) mettono in luce aspetti importanti della tradizione, “perdite” in corso negli anni del post-concilio che rendono necessario un “esame di coscienza” su ciò che sta avvenendo nella Chiesa. E Ratzinger aveva chiamato in causa in particolare tre aspetti: la manomissione e la perdita del sacro nella liturgia; la rottura con la grande Tradizione, con la conseguenza di fare del Vaticano II un super-concilio; gli svariati modi di mettere in discussione la dottrina cattolica, con il risultato di aver distrutto così la sua coerenza e l’unicità della verità. Significativa la sua conclusione: “Se noi riusciamo a mostrare e a vivere nuovamente la totalità della fede in questi tre punti, noi potremo allora sperare che lo scisma di mons. Lefebvre sia di corta durata” (41). Lefebvre insomma (una tale conclusione non mi sembra arbitraria), con la sua rottura, ha messo in evidenza “verità” e giusti modi di essere che nella Chiesa del post-concilio rischiano di oscurarsi.
In realtà, l’attacco di Lefebvre al concilio e la violenza del suo rifiuto andavano ben oltre a quanto Ratzinger sembrava evocare. Non c’è da stupirsi: costante in effetti, in questi ultimi decenni, è stata la minimizzazione da parte di Roma delle posizioni di Lefebvre e della Fraternità San Pio X, nonostante per parte loro quelle posizioni venissero sempre insistentemente ribadite. Sono aspetti su cui non posso soffermarmi ulteriormente, indicativi, mi pare di poter dire, della volontà di Roma di fare ogni sforzo per ristabilire una piena comunione con la Fraternità. Ne costituiscono un indizio le straordinarie condizioni concesse in questi ultimi anni a gruppi di lefebvriani staccatisi dalla Fraternità, che pur continuavano e continuano a definire “scandalose” la collegialità, la libertà religiosa e l’apertura alle altre confessioni cristiane (42).
Non erano quelle appena citate affermazioni isolate da parte del cardinale Ratzinger. Le citazioni potrebbero moltiplicarsi, sia in riferimento al concilio sia in riferimento ai “disordini” del post-concilio. Ne offrono, tra gli altri, esempi evidenti la lunga intervista concessa a Vittorio Messori, pubblicata alla fine del 1984 su “Jesus” e poi, ampliata, nel volume intitolato Rapporto sulla fede (43) (si era alla vigilia del sinodo straordinario per i vent’anni dalla chiusura del Vaticano II), e la sua stessa Autobiografia, dove numerose sono le pagine direttamente o indirettamente critiche del concilio e di alcuni suoi esiti (44). Da questo punto di vista è anche assai significativa l’accelerazione al processo di riconciliazione con la Fraternità San Pio X verificatasi con la sua elezione a pontefice.
Incontrando Benedetto XVI a pochi mesi dalla sua elezione il superiore della Fraternità, il vescovo Bernard Fellay, aveva posto due condizioni come preliminare necessario per ristabilire un clima di fiducia tra Roma e la Fraternità e avviare di conseguenza i necessari colloqui di approfondimento dottrinale (45): che la cosiddetta messa di san Pio V riottenesse pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa, e che fosse revocata la scomunica (di cui peraltro i lefebvriani avevano sempre negato la legittimità) che con Lefebvre aveva colpito anche i quattro vescovi da lui consacrati. Sono due condizione che Benedetto XVI ha negli anni successivi adempiuto, vincendo le resistenze di alcune conferenze episcopali.
Con il “motu proprio” Summorum pontificum e la lettera a tutti i vescovi che l’accompagna (luglio 2007) egli ha stabilito la messa di san Pio V come forma straordinaria dell’unico rito romano, accanto alla forma ordinaria della lex orandi della Chiesa che resta il messale promulgato da Paolo VI. Benedetto XVI aveva avuto cura di precisare: non si tratta di due riti ma di un uso duplice dell’unico e medesimo rito (46). Come notava la “Rivista liturgica”, mai era successo che uno stesso rito fosse celebrato in due forme diverse (47).
Benedetto XVI, nell’assumere la sua decisione, aveva avuto anche cura di precisare in particolare due punti, che intendevano rispondere a critiche e timori diffusi. Stabilire “due espressioni della lex orandi della Chiesa non porterà in alcun modo una divisione nella lex credendi, in quanto si tratta appunto di due usi dell’unico rito romano”. Definiva inoltre “infondato” il timore che in tal modo venisse intaccata l’autorità del Vaticano II (48).
Non erano affatto due punti scontati. I lefebvriani, sulla scia del loro maestro, pensavano esattamente l’opposto: per loro i cambiamenti introdotti dal concilio e nel post-concilio nella lex orandi aveva intaccato profondamente la lex credendi. Lefebvre l’aveva ripetuto in decine di occasioni (49): “A messa nuova corrisponde catechismo nuovo, sacerdozio nuovo, seminari nuovi, università nuove, […] tutte cose opposte all’ortodossia e al magistero di sempre”. “Il nuovo rito della Messa che si è voluto imporre esprime una nuova fede che non è la nostra, una fede che non è la fede cattolica”. Per Lefebvre, infatti, la messa era stata protestantizzata: scomparsa la nozione di sacrificio, sostituita dall’idea di agape, di memoriale fraterno, stravolto il ruolo del sacerdote, divenuto il presidente dell’assemblea, scomparso il senso del sacro, del mistero.
A quelle che si possono anche considerare forzature di Lefebvre e dei suoi seguaci nel contrapporre drasticamente la messa di Paolo VI a quella di san Pio V (ma così avevano pensato anche autorevoli cardinali di curia, come Ottaviani e Bacci, o residenziali, come Siri (50)) Benedetto XVI risponde rimuovendo il problema. E tuttavia è difficile negare che nelle preghiere proposte nei due messali non vi siano vistose differenze, in particolare per ciò che riguarda l’atteggiamento verso gli altri cristiani e le altre religioni, differenze che delineano, mi pare di poter dire, un modo diverso, uno stile diverso, di essere cristiano (51). È quanto è stato notato subito per la preghiera del Venerdì santo riguardante gli ebrei, ma lo stesso discorso vale per la preghiera per l’unità della Chiesa (“pro unitate ecclesiae”), in cui si prega appunto “per gli eretici e gli scismatici”, “che Dio nostro Signore li strappi da tutti gli errori e si degni di richiamarli alla santa madre Chiesa cattolica e apostolica” (“ut Deus et Dominus noster eruat eos ab erroribus universis et ad sanctam matrem Ecclesiam catholicam atque apostolicam revocare dignetur”), mentre l’oratio successiva suona così: “Onnipotente sempiterno Dio, che salvi tutti e non vuoi che nessuno perisca, guarda alle anime ingannate da diabolica frode, in modo che, deposta ogni malvagità eretica, i cuori degli erranti rinsaviscano e ritornino all’unità della tua verità” (“Omnipotens sempiterne Deus, qui salvas omnes et neminem vis perire, respice ad animas diabolica fraude deceptas ut, omni heretica pravitate deposita, errantiun corda resipiscant, et ad veritatis tuae redeant unitatem”). Non starò a ricordare a voi quanto diversa suoni nel messale rinnovato la preghiera per l’unità della Chiesa.
Non si tratta però solo di questo. Paolo VI si era rifiutato di concedere a Lefebvre di “continuare a fare l’esperienza della Tradizione”, ossia di continuare a celebrare, lui e la sua Fraternità, la messa di san Pio V, proprio per il significato che essa assumeva ai loro occhi, di rifiuto cioè del concilio. Paolo VI l’aveva scritto a Lefebvre nella lunga lettera dell’11 ottobre 1976 e l’aveva ripetuto al suo amico Jean Guitton (52): “Questa messa detta di san Pio V, come la si vede ad Ecône, diventa il simbolo della condanna del concilio. E io non accetterò mai che si condanni il concilio con un simbolo. Se venisse ammessa questa eccezione il concilio ne sarebbe intaccato. E di conseguenza l’autorità apostolica del concilio”.
Questo modo di vedere di Paolo VI non è stato quello di Benedetto XVI. Non vi è dubbio però che la Fraternità San Pio X non ha abbandonato le idee del suo fondatore sul concilio e sul significato che la fedeltà alla messa di san Pio V assume al riguardo. È questo un aspetto tuttavia che non sembra essere preso più di tanto in considerazione dalle autorità romane, nella persuasione, parrebbe di poter dire, che nonostante tutto una sintesi sarà pur sempre possibile. Ma a quale prezzo?
È la domanda che è stata posta anche dopo che Benedetto XVI ha adempiuto alla seconda condizione posta da mons. Fellay nell’agosto 2005, con la revoca, resa pubblica il 24 gennaio 2009, della scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre; revoca cui è seguito l’avvio di colloqui dottrinali sui punti controversi del Vaticano II (53).
I lefebvriani l’hanno sottolineato trionfalmente: è la prima volta che Roma accetta di sottomettere a discussione punti centrali del concilio, come la collegialità, la libertà religiosa, l’ecumenismo, l’atteggiamento verso il mondo (54). In realtà ciò non avviene solo con i lefebvriani e tra i lefebvriani. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli episodi e i segni che anche da parte di Istituti e gruppi in piena comunione con Roma il concilio viene esplicitamente messo in discussione nei suoi orientamenti di fondo. Un esempio vistoso in questo senso è offerto dal seminario di studio sul concilio, organizzato nel dicembre 2010 a Roma dai Francescani dell’Immacolata, un seminario che ha visto insieme cardinali, docenti delle Università pontificie, membri della Fraternità San Pio X, esponenti di gruppi tradizionalisti (55).
Altro tuttavia, mi pare di poter dire, è ciò che più conta: il fatto cioè che, al di là della presenza sempre più evidente e rumorosa di tendenze restauratrici all’interno della Chiesa cattolica, è lo stesso magistero di Benedetto XVI, in alcuni suoi punti forti, a muoversi lungo una linea che non a caso, e da più parti, è stata definita di restaurazione, che mi pare difficile non definire di restaurazione.
Sarebbe una forzatura affermare che tali punti forti esauriscono il magistero di Benedetto XVI, così come sarebbe una pretesa avventata pensare di poter cogliere e precisare sino in fondo, allo stato attuale dei fatti e della documentazione, l’insieme delle linee portanti e delle prospettive dell’attuale pontificato. Tuttavia sono punti forti che risultano evidenti. Ed è intorno ad essi che si stanno raggruppando, a prescindere dall’esito degli specifici colloqui dottrinali tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X, i fautori di una restaurazione impegnata ad abbandonare definitivamente i tanti aspetti del concilio che avevano voluto smentire o superare giudizi e atteggiamenti tipici della tradizione intransigente.
Di questi punti forti ne individuerei in particolare tre:
1. La piena riaffermazione dell’autorità, e in particolare dell’autorità del papa, nella Chiesa e sulla Chiesa, cui tutti, vescovi, preti, religiosi e fedeli sono soggetti e devono prestare obbedienza (56). Si tratta di un problema già ampiamente presente nei decenni precedenti, quando, nel clima del post-concilio, la questione dell’autorità nella Chiesa era stata oggetto di un largo dibattito, e si era rilevato che il suo carattere monarchico (e per molti aspetti assoluto) era frutto di un adeguamento nel corso dei secoli a modelli secolari. Non a caso il padre Congar aveva potuto parlare di un’ecclesiologia che si era progressivamente ridotta a gerarcologia (57). Senza dilungarmi in troppe citazioni mi limiterò a ricordare che Benedetto XVI, pur riproponendo nella sostanza l’insegnamento e la linea che erano stati di Giovanni Paolo II, non manca di irrigidirne alcuni aspetti. Se Giovanni Paolo II infatti, nell’enciclica Ut unum sint, chiedendo aiuto e collaborazione per trovare una nuova forma di esercizio del primato del vescovo di Roma (58), aveva mostrato di essere consapevole del fatto che i termini in cui esso era venuto affermandosi costituivano uno dei maggiori ostacoli al processo ecumenico, Benedetto XVI, su questo punto, con una sfumatura di differenza che mi pare significativa, si è limitato a rivolgersi alla Vergina Maria perché “ci ottenga che il ministero petrino del vescovo di Roma non sia visto come pietra d’inciampo ma come sostegno nel cammino sulla via dell’unità” (59). Netto è lo spostamento dell’asse del discorso: non è la forma di esercizio del primato che deve cambiare ma la percezione di esso. Emblematico della posizione di Benedetto XVI è ciò che disse il 29 giugno 2010, nel corso delle solenni celebrazioni per le festività dei santi Pietro e Paolo: “il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso di piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale” (60).
2. In secondo luogo la piena riproposizione, in linea di principio, di una drastica contrapposizione con il “mondo”, per la minaccia che il dimenticarla rappresenta per la vitalità e la consistenza della fede stessa, con il conseguente appello a serrare le file. Tratto distintivo è la condanna senza appello e senza distinzioni della secolarizzazione. Già nell’intervista concessa a Vittorio Messori Ratzinger aveva criticato le “aperture indiscriminate” al mondo che erano venute profilandosi nel corso del concilio e del post-concilio, parlando anche della necessità di “un nuovo equilibrio […] dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo” (61). E anche in seguito non erano mancati interventi suoi che avevano offerto un quadro assai fosco delle condizioni del mondo e della Chiesa: si pensi a ciò che aveva detto nel corso della Via crucis predicata al Colosseo il Venerdì santo del 2005 (62) o ai giudizi espressi nell’omelia pronunciata durante la messa pro eligendo pontifice (63). Nel suo magistero pontificio il quadro che egli offre della società occidentale, nella quale va scomparendo la presenza di Dio, non potrebbe essere più desolato: desolato per i singoli come per le collettività. Nulla di positivo, di buono, di giusto rimane nell’uomo e nelle società che prescindono dalla verità di Dio. È una persuasione che in Benedetto XVI non sembra patire dubbi o smentite (64). Con altro linguaggio tornano il giudizio sulle prospettive del proprio tempo e la radicale contrapposizione ad esso che erano state della Chiesa di Pio IX. E torna per contrasto l’immagine di un tempo in cui quelle stesse società, che si vanno distaccando dalla fede, erano invece “impregnate dal Vangelo”, come disse nel “motu proprio” Ubicumque et semper (21 settembre 2010) con cui istituiva il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (65): un giudizio che non manca di coinvolgere e di fare in qualche modo positivamente propria una realtà sociale di conformismo devoto, frutto dell’alleanza e della saldatura tra potere secolare e potere ecclesiastico quali erano venute determinandosi tra medioevo ed età moderna: una realtà sociale di conformismo devoto più o meno obbligatorio che mi sembra difficile considerare espressione e frutto della penetrazione in essa del messaggio evangelico.
3. Ma torna anche per conseguenza l’insistita richiesta (ed è questo il terzo punto forte del suo magistero) che lo Stato e le società, se vogliono salvarsi, si ispirino nella loro legislazione ai principi del diritto naturale, iscritti nel cuore dell’uomo, ma di cui la Chiesa è la suprema interprete e regolatrice. Da qui l’invito agli “agnostici” (o come dirà in altra occasione “ai nostri amici che non credono”), formulato già quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, di accettare di vivere “come se Dio ci fosse”, perché una società che non riconosce Dio è destinata alla rovina (66). Non siamo ancora all’esplicita rivendicazione di Lefebvre e dei suoi seguaci di “una legislazione civile conforme alle leggi della Chiesa”, ma la linea di tendenza sembra nuovamente questa.
Non ho nessun titolo per pronunciarmi sulla validità ecclesiale (e cristiana) di tale linea. Ciò che mi pare evidente, e che mi sento di poter dire, è che le sue ricadute nei rapporti della Chiesa cattolica con la società contemporanea comportano esiti ai quali si lega inevitabilmente una condizione configurabile in termini o di compromesso con i poteri che reggono la società o di scontro, secondo lo schema già più volte collaudato di una contrapposizione tra “clericali” e “anticlericali”. Una condizione, questa, che mi è difficile non definire profondamente negativa in entrambe le sue alternative, perché impedisce quella leale collaborazione fra tutti gli “uomini di buona volontà” (fra i quali naturalmente figurano, o dovrebbero figurare, cristiani e non-cristiani, credenti e agnostici) più che mai necessaria nell’attuale passaggio storico. Riconosco tuttavia che in tale giudizio entrano opzioni e punti di vista personali. Sugli stessi fatti e sulle stesse prospettive, punti di vista e opzioni diversi potrebbero formulare un giudizio opposto.
Aggiungo un’ovvietà, che comunque è bene avere presente: che cioè una tale linea restauratrice è comunque ben lontana dall’assorbire e comprendere la complessa e articolata realtà che vive nella Chiesa cattolica e mantiene nonostante tutto diritto di cittadinanza in essa. Da questo punto di vista il Vaticano II non è stato invano.
Così come non è stata cancellata, nonostante l’accusa di relativismo che la colpisce, la consapevolezza che il cristianesimo come la Chiesa vivono un percorso storico che sempre ne ha condizionato modi di essere ed espressioni, un percorso storico nel corso del quale costantemente si è posto e si pone (o dovrebbe porsi) il problema dei termini in cui esprimere e cercare di vivere e di realizzare il proprio messaggio e la propria testimonianza.
Il problema di accettare questa realtà, di trarne le dovute conseguenze, resta tuttavia pienamente all’ordine del giorno, secondo una prospettiva indubbiamente alternativa ad ogni confusa restaurazione; secondo una prospettiva dunque ben lontana dall’essere condivisa e perseguita da parte degli attuali vertici romani.
Vorrei concludere citandovi ancora una volta un testo. Mi è stato segnalato da un carissimo amico. È un testo reso pubblico alla fine del novembre 1965, con l’adesione iniziale di un centinaio di vescovi (67). Scandisce, in 13 punti, il loro impegno di vita per il futuro, un impegno di vita semplice e povera e di condivisione. Mi limito a leggervi i primi punti, tutti sorretti da precisi richiami evangelici:
“Noi cercheremo di vivere secondo lo standard di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (cfr. Mt 5, 3; 6, 33; 8, 20). Noi rinunceremo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (questi segni devono essere effettivamente evangelici) (cfr. Mc 6, 9; Mt 10, 9; At 3, 6). Noi non avremo proprietà né di immobili né di mobili, né conti in banca o cose del genere a titolo personale; se sarà necessario averne le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cfr. Mt 6, 19; Lc 12, 33) […]. Noi rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimono concetti di grandezza o di potenza (per esempio eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di padre […]”.
Sono frasi che nella loro semplicità quasi elementare riassumono meglio di ogni altro discorso la prospettiva di Chiesa che era venuta configurandosi nel Vaticano II. Per molti aspetti è stata una prospettiva del tutto rimossa. Sommessamente tuttavia (e sempre a titolo personale) mi sentirei di dire che quella è la Chiesa, quella sarebbe la Chiesa, che potrebbe parlare, che potrebbe dire qualcosa agli uomini, al di là di ogni confine e divisione confessionale o ideologica.
Giovanni Miccoli
(*) Il testo è quello detto a Bergamo, integrato delle parti che, per ragioni di tempo, erano state riassunte od omesse. Le note sono ridotte all’essenziale. Sigle usate: DC “Documentation catholique”; EV = Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, Edizioni Dehoniane, Bologna; RA = “Il Regno attualità”; RD = “Il Regno documenti”.
(1) Una biografia di Arrupe offre P. M. Lamet, Pedro Arrupe. Un’esplosione nella Chiesa, Ancora, Milano 1993, pp. 451. Tra i molti contributi esistenti sul suo generalato vedi in particolare Pedro Arrupe. Un uomo per gli altri, a cura di Gianni La Bella, il Mulino, Bologna 2007, pp. 1084 (sono una trentina di interventi, quasi tutti di gesuiti: offrono un ampio quadro della sua opera).
(2) In P. Arrupe, Écrits pour évangéliser, présentés par J. Y. Calvez, Desclée de Brouwer, Paris 1985, p. 316.
(3) Cit. in A. e G. Alberigo, Giovanni XXIII profezia nella fedeltà, Queriniana, Brescia 1978, p. 494.
(4) Cfr. É. Poulat, Une Église ébranlée. Changement, conflit et continuité de Pie XII à Jean-Paul II, Casterman, Tournai 1980, p. 278 sg. e passim.
(5) Cfr. Itinéraire de Henri Perrin prêtre-ouvrier 1914-1954, Seuil, Paris 1958, p. 149.
(6) Cfr Lettres intimes de Teilhard de Chardin à Auguste Valensin, Bruno de Solanges, Henri de Lubac, André Ravier, nr. 125, Aubier Montaigne, Paris 1974, p. 434.
(7) Cfr. K. Rahner, Il significato permanente del concilio Vaticano II, in “Aggiornamenti sociali”, XXXI (1980), pp. 203-214 (in particolare p. 211).
(8) Cfr. Kardinal Carlo M. Martini – Georg Sporschill, Jerusalemer Nachtgespräche. Über das Risiko des Glaubens, Herder, Freiburg im Breisgau 2008, p. 119 (trad. it., Mondadori 2008, p. 103).
(9) Ivi, p. 72 (trad. it., p. 61).
(10) Cit. in Iustinus, I vescovi neo-modernisti che fecero il concilio Vaticano II…, in “Sì Sì No No”, 15 maggio 2011, p. 7.
(11) Tipica a questo riguardo la lettera indirizzata dal cardinale Ottaviani a tutti i vescovi il 24 luglio 1966: in essa egli denunciava il diffondersi nella Chiesa di 10 gravi errori dovuti ad un’errata lettura del concilio (in “Acta Apostolicae Sedis”, LVIII (1966), pp. 659-61).
(12) Cfr. Insegnamenti di Paolo VI, IV, 1966, Tipografia poliglotta vaticana 1967, p. 661 sg. Per il progressivo emergere in lui di tali timori vedi C. Falconi, La svolta di Paolo VI. Valutazione critica del suo pontificato, Ubaldini editore, Roma 1968, p. 233 sgg.; e B. Ulianich, Concilio e magistero di Paolo VI, in RD, XXI (1976), pp. 136-40.
(13) Per la portata del Credo vedi Falconi, La svolta di Paolo VI cit., p. 233 sgg.
(14) Cfr. Discorso di Paolo VI ai membri del pontificio seminario lombardo (7 dicembre 1968), in Insegnamenti di Paolo VI, VI, 1968, Tipografia poliglotta vaticana 1969, pp. 1187-89.
(15) Cfr. Resistite fortes in fide (omelia del 29 giugno 1972), in Insegnamenti di Paolo VI, X, 1972, Tipografia poliglotta vaticana 1973, p. 707 sg.
(16) Vedi RD, XIV (1969) p. 70 (udienza generale del 14 gennaio 1969).
(17) Il testo in trad. it., in RA, XIV (1969), p. 20 sg. Il testo originale francese, con l’elenco completo dei firmatari, in “Concilium”, 1/1969: si tratta di un testo di due pagine, non numerate, fuori fascicolo, pur essendo annunciato nell’indice a p. 6.
(18) Ho trattato ampiamente questi aspetti in In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Rizzoli, Milano 2007, in particolare pp. 18 sgg., 108 sgg. e 269 sgg.
(19) Relatio finalis del sinodo straordinario (Ecclesia sub verbo Dei mysteria Christi celebrans pro salute mundi), in EV, 9 (1983-1985), nr. 1785, p. 1745. Per il suo svolgimento cfr. G. Caprile S.I., Il sinodo dei vescovi. Seconda assemblea generale straordinaria (24 novembre – 8 dicembre 1985), Edizioni “La Civiltà Cattolica”, Roma 1986, pp. XI-627.
(20) Cfr. Giovanni Paolo II (con Vittorio Messori), Varcare le soglie della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 177 sg.
(21) Ivi, p. 183 sg. Per un analogo giudizio del cardinale Ratzinger vedi Rapporto sulla fede, Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Ratzinger, San Paolo, Milano 1985, p. 41 sg., e il suo intervento al IV congresso mondiale dei movimenti e delle nuove comunità (Roma, 27 maggio 1998), in RD, XLIII (1998), p. 400.
(22) Cfr. ad es. Varcare le soglie della speranza cit., p. 177.
(23) Cfr. Errori nella dottrina teologica di Hans Küng (Declaratio Christi Ecclesia del 15 dicenbre 1979), in EV, 6 (1977-1979), p. 1299 sgg. Sull’intera vicenda vedi il dossier raccolto da A. Longchamp, Les étapes du conflit, in “Choisir”, N° 243, mars 1980, pp. 2-17. La lettera di Giovanni Paolo II del 15 maggio 1980, in EV, 7 (1980-1981), pp. 352-71.
(24) Ne ho esaminato i diversi aspetti in In difesa della fede cit., pp. 31 sgg., rispettivamente 71 sgg.
(25) Cfr, J,B. Fellay, Un hiver de la théologie?, in « Choisir », N° 242, février 1980, p. 3.
(26) Vedila in EV, 13 (1991 – 1992), pp. 926-53.
(27) R. Bréchet s.j., Il y a trente ans, Jean XXIII ouvrait le Concile, in « Choisir », N° 394, octobre 1992, p. 9.
(28) Cfr. Sur l’usage approprié de l’expression « Églises sœurs » (nota della Congregazione per la dottrina della fede del 20 giugno 2000), in DC, XCVII (2000), pp.823-25, e la successiva lettera esplicativa del cardinale Ratzinger (30 giugno 2000), ivi, pp. 1068-69.
(29) Dominus Iesus, in DC, XCVII (2000), pp. 812-22. Per alcune reazioni vedi In difesa della fede cit., p. 381, n. 176.
(30) Ne offre un quadro complessivo J. Wiks, Questions et réponses au sujet des nouvelles Réponses de la Congrégation pour la doctrine de la foi, in “Irénikon”, 80 (2007), pp. 294-315.
(31) Vedi rispettivamente Congregazione per la dottrina della fede, Risposta ad alcuni quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 3-8 (è datata 29 giugno 2007); e Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede. Alcuni aspetti dell’evangelizzazione (3 dicembre 2007), in RD, LIII (2008), pp. 91-97.
(32) Cfr. Congregatio pro clericis et aliae, Instructio de quibusdam questionibus circa fidelium laicorum cooperantium sacerdotum ministerium spectantem, in “Acta Apostolicae Sedis”, LXXXIX (1997), pp. 852-77. Vedila anche in EV, 16 (1997), pp. 548-607.
(33) Vedi Nota dottrinale…, collana “Magistero”, 306, Paoline editoriale libri, Milano 2003, pp. 15-38 (i passi nel testo a p. 20 sg.).
(34) Così nel discorso tenuto il 28 giugno 2009, durante i Vespri celebrati nella solennità dei santi Pietro e Paolo, in “La Traccia”, 30 (2009)/6, p. 836.
(35) Cfr. P.P. Saleri, Il dossettismo c’è stato davvero?, in “Studi Cattolici”, N° 586 (2009), p. 832.
(36) G. Baget Bozzo – P. P. Saleri, Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica, Ed. Ares, Milano 2009, pp. 272.
(37) Vedi In difesa della fede cit., pp. 323-360.
(38) Riportato ampiamente in G. Soulages, Division ou pacification dans l’Église après la rupture de mgr Lefebvre, C.L.P., Chambray 1989, p. 112 sgg.
(39) Il protocollo degli accordi in EV, 11 (1988-1989), nr. 644-663, p. 384 sgg. Il giudizio dei presidenti delle conferenze episcopali ivi, p. 471 (in nota).
(40) Cfr. Soulages, Division ou pacification cit., p. 114 sg.
(41) Ivi.
(42) Avviene così, ad es., con L’Institut du Bon Pasteur, costituito da un gruppo di transfughi dalla Fraternità San Pio X e approvato dalla Santa Sede nel settembre 2007: cfr. B. Sesboüé, L’Institut du Bon-Pasteur, un espoir ou une équivoque?, in F. Michel – B. Sesboüé, De Mgr Lefebvre à Mgr Williamson, Lethielleux/Desclée de Brouwer, Paris 2009, pp. 77-113, e l’analisi che ne ho offerto nel volume di prossima pubblicazione La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011.
(43) Cfr. Esclusivo: Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger. “Ecco perché la fede è in crisi”, in “Jesus”, novembre 1984, pp. 67-81, e Rapporto sulla fede cit., pp. 25 sgg., 35 sgg. e passim.
(44) J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp.87 sgg.
(45) Cfr. la rievocazione dell’incontro del 29 agosto offerta da L’audience du pape Benoît XVI. Entretien avec mgr Bernard Fellay, in “Fideliter”, N° 168, novembre-décembre 2005, p. 5.
(46) Così nella Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il “motu proprio” (Summorum pontificum) sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, in Benedetto XVI, Motu proprio Summorum pontificum, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2007, p. 24.
(47) Cfr. Intervista al direttore di “RL” da parte dell’agenzia “Zenit”, in “Rivista liturgica”, 94/4 (2007), p. 602.
(48) Cfr. Benedetto XVI, Motu proprio Summorum pontificum cit., p. 11 e Lettera del Santo Padre cit., p. 23.
(49) Cfr., ad es., M. Lefebvre, Un évêque parle. Écrits et allocutions, t. II, 1975-1976, Dominique Marin Morin Editeurs, 1976, p. 77 sgg.
(50) Cfr. C. Vagaggini, Il nuovo “Ordo Missae”e l’ortodossia, in “Rivista liturgica”, 96 (2009), pp. 449 sgg. (è la ristampa di un articolo comparso nel 1969 su “La Rivista del clero italiano” di confutazione di un opuscolo patrocinato dai cardinali Ottaviani e Bacci, violentemente critico della riforma liturgica promossa da Paolo VI). Per Siri cfr. N. Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, il Mulino, Bologna 2006, p. 340. Sulle polemiche nate intorno alla riforma liturgica vedi A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Edizioni liturgiche, Roma 1983, pp. 278 sgg.
(51) Per tali differenze tra i due messali vedi, ad es., Éditorial, in “Irénikon”, LXXX (2007), p. 234.
(52) Per la lettera cfr. Insegnamenti di Paolo VI, XIV, 1976, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1977, pp. 810-23. Per le dichiarazioni a Guitton vedi J. Guitton, Paolo VI segreto, Paoline, Roma 1981, p. 144 sg.
(53) Cfr. ampiamente in La Chiesa dell’anticoncilio cit.
(54) Cfr. Un jugement de Mgr Galareta sur les entretiens doctrinaux, in www.dici.org/?p=13632, p. 4, e Allemagne : l’abbé Schmidberger parle des entretiens avec Rome, www.dici.org/?p=14198.
(55) Per una cronaca del seminario cfr. C. Siccardi, blog.messainlatino.it/2010/12/ cristina-siccardi-ci-descrive…(13 pagine). Una cronaca del convegno offre anche “Fides catholica” (http.//catholicafides.blogspot.com/2010/12/convegno-roma-sul-concilio).
(56) Così nella dichiarazione emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 31 ottobre 1998: cfr. Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, in EV, 17 (1998), nr. 1588-608, pp. 1197 sgg. (i passi citati nel testo a p. 1201 e 1203).
(57) Cfr., ad es., Y. Congar, Jalons pour une théologie du laïcat, Cerf, Paris 1954, pp. 68, 74 ; Idem, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Cerf, Paris 1970, p. 464.
(58) Per le affermazioni di Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint vedi Tutte la encicliche di Giovanni Paolo II, Paoline, Milano 2005, nr. 95 e 96, p. 1408 sg.
(59) Per le frasi di Benedetto XVI, dette nel corso dell’Angelus del 29 giugno 2005, cfr. Insegnamenti di Benedetto XVI, I, 2005 (aprile-dicembre), Città del Vaticano 2006, p. 298.
(60) Cfr. Santa messa nella solennità dei santi Pietro e Paolo, 29 giugno 2010, in “La Traccia”, XXXI/6 (2010), p. 721.
(61) Cfr. Ratzinger-Messori, Rapporto sulla fede cit., pp. 34-36.
(62) Cfr. Via Crucis al Colosseo. Meditazioni e preghiere del cardinale Joseph Ratzinger, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, pp. 51, 53, 57, 65 ( vi parla della sporcizia nella Chiesa, del nuovo paganesimo, di una cristianità stancatasi della fede, paragona la Chiesa a una barca che sembra affondare, ecc.).
(63) Cfr. Omelia della Messa “pro eligendo pontifice” (18 aprile 2005), in Parole di Benedetto. La visione della Chiesa e del mondo negli interventi di Joseph Ratzinger (aprile 2005), Ancora, Milano 2005, p. 26 (denuncia i “tanti venti di dottrina” che agitano “la piccola barca dei cristiani”).
(64) Significativo il drastico giudizio formulato sulla secolarizzazione: cfr., ad es., La secolarizzazione nella Chiesa snatura la fede e lo stile di vita dei credenti (8 marzo 2008), in Insegnamenti di Benedetto XVI, IV, 1, 2008 (gennaio-giugno), Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2009, p. 378; Incontro con la Conferenza episcopale del Brasile (7 settembre 2009), in “La Traccia”, XXX/9 (2009), p. 1062.
(65) In w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/apost_letters/documents/hf_ben-xvi_apl_20100921_ubicumque-et-semper.html (nella prima pagina).
(66) Cfr. L’Europa nella crisi delle culture (Subiaco, 1° aprile 2005), in Parole di Benedetto cit., p. 5. Vedi su questo In difesa della fede cit., pp. 286-289.
(67) Il documento è stampato in appendice a Sulla Chiesa povera, a cura di Associazione italiana “Noi siamo Chiesa”, Gruppo Pace, Gruppo Promozione umana, Prefazione di Armido Rizzi, edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2008, pp. 118-122. Cenni sulla sua genesi offre Helder Camara, Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II, a cura di Sandra Biondo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009, pp. 470-76.