2 giugno 2011
CONVEGNO A BERGAMO
1. Interventi sulla relazione di Giovanni Miccoli
ARMIDO RIZZI
Vorrei riprendere e specificare un punto a proposito della Chiesa nella storia. Un compito che la chiesa dovrebbe affrontare, ma non vuole affrontare, è quello della deellenizzazione della dottrina cristiana. Nel 2006 nel discorso di Ratisbona, diventato famoso perché aveva fatto qualche accenno all’Islam, il centro di quel discorso era proprio sulla non de ellenizzazione del cristianesimo.
Quando diciamo il credo, che cosa vuol dire: “generato e non creato, della stessa sostanza del Padre”? Nessuno di quelli con i quali ho provato a chiederlo ha saputo dirmelo, ne laici né preti. Più avanti, quando si arriva allo Spirito Santo, si dice che “procede dal Padre e dal Figlio” ( la chiesa orientale non è d’accordo ), che cosa vuol dire “procede”? Sono formule dogmatiche che andavano benissimo allora, che hanno avuto il loro corso, il loro significato, che hanno purificato la chiesa, le eresie…ecc., ma là dove vigeva la cultura greca. Ma questa cultura non è più vigente né in Europa, né negli Stati Uniti e tanto meno in America Latina e in Asia. Mi pare allora che bisognerebbe pensare proprio ad una deellenizzazione e creare una teologia alternativa che ripensi il tutto in un sacco di punti.
D’altra parte c’è anche il rischio nella deellenizzazione. Facciamo un esempio sull’Eucaristia. Certamente non possiamo più accettare la trasformazione sostanziale del pane e del vino per cui il pane non è più pane, ma ci sono solo le specie, l’apparenza del pane e il vino non è più vino, ma solo l’apparenza. In un incontro in Germania con dei confratelli gesuiti ho sentito da un confratello olandese che diceva: “Ho sentito un prete che diceva che andare a prendere l’Eucaristia è come andare a prendere il thé dalla zia. E’ vero, ma non si va a dirlo alla gente”.
Il secondo esempio che è molto più diffuso dell’Olanda, è sulla inculturazione del cristianesimo che si va diffondendo soprattutto in Asia ma anche in America Latina. E’ un qualcosa che è molto più di una inculturazione, una specie di religione della terra, del cosmo, dove non c’è più un posto specifico.
Bisognerebbe vedere i due aspetti: la necessità di uscire da formule che derivano da una cultura ormai superata, che non esiste più, se non in qualche misura nell’oriente cristiano, e d’altra parte però si pone il come dire l’essenziale. Lasciamo pure il dogma, ma c’è un kerigma, un annuncio, un Vangelo a cui non si può rinunciare.
Il Vaticano II ha dialogato con la modernità, che aveva una caratteristica, cioè rifiutava la religione, il cristianesimo, però teneva l’etica. Noi ora siamo nella postmodernità dove in crisi è proprio l’etica, non solo in Italia perché c’è Berlusconi, ma una crisi generale dell’etica, sulla quale c’è da riflettere. Per cui non dico che bisogna fare un altro concilio , ma bisogna essere attenti.
La pagina più bella del Vaticano II è al paragrafo 16 della Gaudium et Spes, dove si dice che “nel santuario della coscienza Dio è presente in tutti gli uomini, credenti e non credenti” e poi nel paragrafo 22 dove si parla del mistero pasquale a cui partecipano tutti i cristiani. Ma aggiunge poi, tutto d’un colpo “ non solo i cristiani ma anche tutti gli uomini di buona volontà”.
Ripensare un’etica seria, come l’elemento che non dico faccia dei cristiani anonimi, come dirà Rahner, che poi si è rimangiato come formula, ma che la salvezza eterna, ma anche la salvezza del mondo è legata al fatto del far diventare degli uomini di buona volontà.
ROBERTO FIORINI
Alcuni anni fa è uscito un libro di Prini intitolato “Lo Scisma sommerso” dove sono identificati una serie di punti sui quali sussistono forti divergenze rispetto alle posizioni espresse dal magistero. Questo titolo penso si possa riferire anche alla presenza di modi di rapportarsi all’evento conciliare e ai suoi insegnamenti, diversi rispetto agli orientamenti ufficiali e indirizzi pratici. Non disponiamo di ricerche su questo fronte, però abbiamo tutta una serie di vissuti concreti, assieme a gruppi e persone, dove emergono posizioni discostate e lontane dalle posizioni più ufficiali.
Aggiungo un secondo punto che mi pare di rilevanza non secondaria. L’impianto pastorale della chiesa cattolica si regge su un esercito di preti che rappresentano la struttura gerarchica nei luoghi e nelle attività.
Appaiono sempre più in difficoltà, non solo per la loro riduzione numerica e per l’invecchiamento.
Studi recenti condotti in Italia, sottolineano la profonda crisi che sta investendo questo figura ministeriale (vedi lo studio del mese “Ridare forma al presbiterio”.. in “Il Regno Attualità” n. 12/2010” E.D.B. Bologna). Non ci si riferisce tanto al problema della pedofilia.
Si parla di una crisi di identità correlata con la molteplicità ed eterogeneità delle richieste e delle attese e dei ruoli ai quali questa figura ministeriale deve assolvere. Deve possedere una competenza nelle Scritture e a livello teologico, in ordine alla predicazione; si richiede anche una capacità di accompagnamento spirituale per chi richiede un aiuto in questo ambito; inoltre deve assolvere a responsabilità amministrative e in più può essere chiamato ad assumere gestioni manageriali.
Secondo la ricerca è tutt’altro che raro il fenomeno del barn aut, un concetto utilizzato nell’analisi delle professioni sociali. E’ un sintomo di disagio professionale che si esprime nello svuotamento di energie e la conseguente burocratizzazione dei rapporti con gli altri. Nel prete può assumere l’aspetto di una crisi di senso e di fallimento vocazionale.
Si sottolinea, infine, la presenza persistente della solitudine, non tanto legata a problemi affettivi o familiari, ma solitudine all’interno della chiesa, sia nel rapporto con i confratelli che con i superiori, cioè sia con i propri pari che con l’autorità. Vorrei chiedere sia in riferimento allo scisma strisciante sia all’organico che di fatto regge struttura della chiesa e la sua azione pastorale: non emerge una situazione di debolezza oggettiva? A me sembra che le basi su cui si intende operare, che emergono dalla tua relazione, siano abbastanza friabili, perché non basta che dal centro o mediaticamente si facciano passare queste cose. Il problema poi è la condizione dei rapporti reali che i preti e la gente vivono. Non so se puoi dire qualcosa su questo fronte, che sposta un po’ l’asse rispetto alla tua esposizione. Noi percepiamo questo cose che probabilmente trovano riscontro anche in studi, riviste e movimenti di base.
LAURA GALASSI
Volevo aggiungere una cosa sul fronte laico. Nella nostra diocesi (Mantova) viene portato avanti il discorso della responsabilità dei laici. Però si capisce molto bene che non si tratta di corresponsabilità, cioè di condividere le responsabilità. Ma i preti, oberati da impegni cercano di condividere questi impegni con i laici mantenendo però la direzione delle attività. Come possono sentirsi i laici di fronte a questo se non appunto strumentalizzati? Perché non è pensabile chiedere ai laici di lavorare sotto la direzione di qualcuno e non condividere pienamente la responsabilità della comunità ecclesiale.
LUIGI FORIGO
Ringrazio della relazione perché mi sembra abbia toccato i punti di partenza che sono problematici ma che non sono stati superati in questi anni del post-concilio.
Il concilio non è nato in una situazione culturale di rinnovamento, ma dentro una esperienza del sogno del grande ritorno. Vi ricordate di Pio XII ? Vi ricordate dei pellegrinaggi mariani? Delle madonne pellegrine? Nel dopoguerra, dopo il disastro della guerra, la chiesa ha pensato che la gente si rendeva conto finalmente del fallimento della situazione politica, sociale e culturale. C’era quindi il clima del grande ritorno, del recupero.
Il tutto è iniziato con la rivoluzione francese, con Pio IX che è stato ricordato, con la situazione dei cattolici in Italia, è stato fatto un concordato con Mussolini perché c’era la questione romana. E’ stato buttato all’aria tutto un movimento di cattolici impegnati nel sociale, non nella politica o nei partiti.
Questa ideologia del grande ritorno ha condizionato soprattutto dopo il concilio. Per fortuna che il concilio era fatto non solo da vescovi europei, ma anche da vescovi che venivano da tutto il mondo. Un concilio veramente ecumenico da un punto di vista culturale, anche qualche volta con lo scontro. Questo clima non è finito, poco alla volta si è rassodato e mi sembra che vada continuamente avanti.
Il dialogare con la modernità è andato avanti però ci ha fatto scoprire che non siamo più maggioranza. Questo è il dato sociologico che per conto mio determina un modo diverso di essere presenti nella storia e di un annuncio che siamo chiamati a dare in questa storia. Il dato della categoria di minoranza pone un problema di rivistare un po’ tutto il nostro modo di essere dentro la storia, non avendo più nessun potere se non quello del dato della minoranza. E questo pone il problema del tipo di annuncio e di presenza essendo minoranza. Non vorrei che nelle categorie della nuova evangelizzazione, di cui oggi si parla, del cammino educativo di 10 anni che ci sarà per la chiesa italiana che la questione del ministero laicale rientrasse nella categoria del grande ritorno, perché allora vuol dire che sia la categoria della minoranza e sia anche questa apertura rispetto alla dignità laicale e quindi alla non clericalizzazione della chiesa, non avrebbe conseguenze.
E quindi da un punto di vista del dialogo con il mondo mi sembra ci siano due categorie che vengono richiamate: quella della conoscenza da una parte e dall’altra parte la categoria della verità. Cosa vuol dire verità per il credente? Esiste una verità per i non credenti, per i laici? Sono alcuni interrogativi che sento si stiano giocando oggi.
GIOVANNI BRUNO
Il concilio Vaticano.II pur essendo stato un punto luce , nella chiesa rappresenta un voler rinnovare la chiesa e la sua struttura forte. Quando si parla di de ellenizzazione probabilmente si immagina che debba essere superato un certo cammino filosofico all’interno della chiesa per sostituirlo con un altro cammino filosofico. Quando si parla di dialogo, probabilmente si sottintende un dialogo fra poteri. Quando si dice maggioranza o minoranza c’è sempre il fatto che la minoranza pur dovendo dialogare dal basso aspiri un domani a potersi allargare fino a diventare maggioranza. Senonché questa mentalità vedrà continuamente alternarsi i rapporti di forza.
Intorno agli anni ’60 prevalse la linea di Giovanni XXXIII o del primo Paolo VI, adesso, da una trentina d’anni prevale un’altra linea, un domani ritornerà la linea di prima. Probabilmente sia il nostro essere preti operai, sia il voler leggere all’interno del Vangelo, il rapporto dovrebbe essere quello di lasciare le novantanove per l’unica pecora perduta, il lasciare i poteri del mondo, ma senza creare altri poteri, il rapportarsi sempre quasi nascostamente con qualcuno i cui rapporti non saranno mai stabili. Ci sarebbe da immaginare un altro modo di vivere.
Del resto, il fatto che noi preti operai non ci siamo mai strutturati come organizzazione né di maggioranza, né di minoranza, siamo sparsi e siamo quasi nascosti, probabilmente la linea di tendenza da valutare e studiare bene dovrebbe essere questa.
GINO CHIESA
Due piccole domande. La prima: che fondamento può avere nel concilio questo collateralismo, questo scambio indegno tra la chiesa e i politici di turno, che ha portato allo spegnimento di ogni forma di profezia. La seconda domanda: mi pare di intravedere che la religione starà in piedi, ma la fede sarà sempre più vissuta da piccoli gruppi, nascosti in mezzo alla gente ed anche senza preti.
RENZO FANFANI
Siccome tutta la dirigenza s’è fatta vecchia come me, non si riesce a capire ad esempio perché hanno nominato a dirigere il problema della nuova evangelizzazione Fisichella. Non è possibile che non capisca nulla, non perché è un bischero, ma perché non ci sta più con la testa per capire. Come noi bianchi, anche l’occidente è in declino e la chiesa lo segue. Che bisognerebbe fare? Come dice il mio sindaco di Firenze: rottamiamo tutto. Ma questo non è possibile. Mentre un politico lo si può mandare a quel paese, come si può mandare a quel paese il papa? Se è vecchio non capisce nulla. Il problema è proprio qui: l’impossibilità di capire il nuovo. Forse Luca ed Angelo riescono a capire qualcosa. Credo sia questo il problema: siamo vecchi, siamo una chiesa vecchia. Poi arrivano i musulmani. Ora noi preti operai si è capito che sarebbe così semplice, siamo stati dentro al mondo operaio e tutto sommato si è fatta amicizia e non ci sono state delle grosse difficoltà. Anche lì ad Avane mi son trovato una sera con due donne musulmane, una giovane ed una un po’ più vecchia che parlava l’italiano: venivano a chiedere consiglio a me prete, sul come comportarsi con il marito, che ne combinava di cotte e di crude. Credo sia questo il problema di fondo: siamo vecchi. E poi come si fa a dialogare se io penso di avere la verità assoluta? Non dico che ci sia una verità assoluta, ma se c’è ha molte facce a seconda delle situazioni. Bisogna buttare giù questo muro di pietra. Quindi due sono i problemi: la vecchiaia e l’altro è quello di dire che noi abbiamo la verità assoluta. E allora ci si scontra. Se invece ci si incontrasse con un po’ di esperienza, quella che abbiamo fatto noi, si farebbe un passo in avanti, come quando gli insetti fecondano i fiori. Ne viene un’altra cosa. Non voglio che i musulmani vengano a me né che io vada dai musulmani: voglio che si faccia un passo in avanti tutti e due.
2. Precisazioni di Giovanni Miccoli
Per cominciare farei alcune brevi osservazioni in riferimento ai due aspetti di cui parlava Armido Rizzi sul tema della de-ellenizzazione denunciata dal Card. Ratzinger (una denuncia che egli ribadirà anche dopo la sua elezione al papato) come un’operazione che vuole spezzare il rapporto tra fede e ragione. Corrisponde, a me sembra, ad un duplice atteggiamento che Ratzinger ha di fronte alla storia. Rispetto allo sviluppo del pensiero cristiano e del pensiero all’interno della chiesa cattolica esiste per lui una sorta di punto d’arrivo, dopo il quale non ci può essere autentico cambiamento. L’ incontro tra il cristianesimo e il pensiero greco è “il grande incontro”, qualcosa di definitivo, per cui porsi il problema di una inculturazione diversa del cristianesimo per poter esprimere il messaggio cristiano ricorrendo a categorie di altro tipo, proprie di altre culture, resta, mi pare, del tutto estraneo alla sua ottica.
Non si tratta però solo di questo. Perché, in conseguenza di questa visione, vi è anche come una sorta di irrigidimento della storia per cui la chiesa da una certo momento in poi non può più modificare nulla di importante, resta catafratta sui punti d’arrivo cui è pervenuta. In Ratzinger però c’è anche altro: ossia c’è una totale trascuranza della storia. Mi è difficile evitare la formula “manipolazione della storia”, quando ad esempio egli rivendica al cristianesimo e alla chiesa, da una parte la scoperta dei diritti dell’uomo, dall’altra l’aver negato, con la famosa distinzione “date a Cesare…date a Dio”, la possibilità stessa di una teocrazia. Così dicendo egli cancella tutta una serie di vicende e percorsi reali, il fatto cioè che il magistero della chiesa è stato a lungo radicalmente contrario ai diritti dell’uomo, così come è stato a lungo tendenzialmente teocratico e ierocratico affermando la sua supremazia sui poteri pubblici come scontata conseguenza delle sue prerogative religiose e sacrali.
Resta quindi centrale secondo me (non vorrei fosse vista solo come una mia fissazione anche se in parte lo è certamente), resta centrale, dicevo, il problema dell’acquisire pienamente il senso e la portata di ciò che significa storicità del cristianesimo: un lungo percorso frastagliato, che è stato di volta in volta di acquisizioni, unilateralità, forzature, tradimenti, abbandoni, interpretazioni, in forme legate storicamente alla cultura e agli interessi, alle volontà degli uomini che lo facevano proprio. Questo mi sembra sia un aspetto che viene rifiutato e negato dal magistero ecclesiastico sotto l’accusa di relativismo, per cui non c’è nulla di fermo e finito.
In effetti i percorsi dell’umanità, nelle sue diverse espressioni e istituzioni, sono percorsi complessi, di mutamento, di arricchimento ma anche di perdite. Restano dei punti di riferimento, sia per i credenti sia per i non credenti. Anche i non credenti hanno dei punti di riferimento di vario tipo che riguardano l’uomo e i rapporti tra gli uomini. Vi è però anche un altro aspetto che Armido ha citato, tutta una serie di casi, di fughe in avanti, di rischi, di travisamenti presenti nel post-concilio e oggetto di interventi dell’autorità. C’è una frase illuminante di un gesuita dei primi anni ’80, di fronte alle prime gravi misure repressive del lavoro teologico assunte dalla congregazione per la dottrina della fede. Questo gesuita , Jean-Blaise Fellay, direttore della rivista dei gesuiti svizzeri “Choisir”, diceva che i periodi autoritari preparano molto male all’esercizio della libertà, ciò di cui gli allarmi diffusi non tenevano affetto conto. In effetti gli anni del concilio e del post-concilio facevano seguito ad un periodo di pesante autoritarismo. Basti pensare all’ultimo decennio di Pio XII, tutte le misure prese ad es. contro i preti operai, o contro i numerosi teologi che si discostavano dalle rigidezze della “scuola romana”, un periodo che Congar chiama della Gestapo del Santo Uffizio.
Il discorso sullo scisma sommerso, che in qualche modo viene da una parte constatato, ma anche trascurato e si tende a ricorrere a categorie che stanno scomparendo. Sono tutta una serie di realtà e situazioni che si stanno indebolendo, il ruolo del prete, il rischio della perdita di identità: siamo ben lontani dai decenni in cui grandi parroci si riconoscevano vescovo e re del proprio popolo, come si autodefinivano alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento. Un libro con questo titolo è stato scritto da Prini, e anche Chiaberge ne ha scritto un altro con lo stesso titolo.
A questo riguardo vi cito alcuni passi di un articolo che a me è parso molto bello comparso nell’ottobre del ’66 su “Christus”, la rivista dei gesuiti francesi. Parla appunto del “Terzo uomo”, quell’uomo che in qualche modo, uscendo dal concilio e guardando al concilio, si è accorto di una cosa abbastanza scontata, ma che prima era inaccettabile, cioè che la parola di Cristo e quella della chiesa non sempre coincidono, non sono identificabili; da qui ha ricavato, questo “Terzo uomo”, un senso di libertà, una capacità di incontro con gli altri, appunto perché non costretto più a portare loro, necessariamente, una parola definitiva di verità, definitiva quale sarebbe risultata (e risultava) dall’identificazione tra la parola di Cristo e la parola della chiesa.
“Grazie alla libertà acquisita rispetto all’istituzione i cristiani si sentono più prossimi a tutti gli uomini. Essi non giudicano più e non si credono più superiori e si dispongono a ricercare con gli altri”.
E questo articolo concludeva così: “Il guaio è che si ha l’impressione che (di tutto questo) l’autorità religiosa ecclesiastica e i preti non se ne sono accorti”. Ed era, badate, l’ottobre ’66, ben prima dunque dell’identificazione di questo scisma sommerso. Non per niente nel convegno del 2000 che celebrava il Vaticano II la relazione tenuta da Ratzinger sulla “Lumen gentium” smontava la categoria “popolo di Dio”. Secondo lui infatti era la categoria che, a sé presa, aveva introdotto una serie di guasti nella compagine ecclesiastica, primo fra tutti la democratizzazione della chiesa.
E’ molto interessante, nei primi anni dopo il concilio, la grande discussione, ricca e frastagliata, sull’autorità all’interno della chiesa. E si fa una constatazione assolutamente elementare, ossia che via via nel corso del tempo all’interno della chiesa l’autorità è venuta modellandosi progressivamente sulle autorità secolari, ha preso cioè da lì il proprio modello e la propria ispirazione. Ha mantenuto un linguaggio di servizio, però costantemente accompagnato da una prassi fortemente autoritaria.
Mi piace molto questo tema del grande ritorno come categoria interpretativa che torna nelle analisi del presente. Tra l’altro c’è stato recentemente, in occasione di alcuni anniversari, una grande rivalutazione di Pio XII e del suo magistero [è uscito anche un libretto, curato da Giovanni Maria Vian (In difesa di Pio XII)], in particolare come precursore del concilio; è un tipo di rivalutazione che presenta un segno nettamente critico nei confronti del concilio stesso.
Non hanno torto i tradizionalisti quando dicono che nel concilio Vaticano II un ruolo decisivo è stato svolto dai teologi che Pio XII aveva condannato ed emarginato. E quindi, da questo punto di vista non so se Benedetto XVI pensa ad un “grande ritorno”. Pensa certamente, a me pare, di restaurare una serie di categorie, di criteri, di tipi di rapporti in cui la gerarchizzazione è molto forte.
Per quanto riguarda ciò che ha detto Giovanni Bruno, se ho capito bene, mi sembra che il suo discorso fosse implicitamente riduttivo del ruolo, dei caratteri del Vaticano II, in riferimento in particolare al rapporto maggioranza-minoranza. Suggeriva di leggerlo in termini di alternanza di poteri, di scontro di poteri. Questo aspetto c’è, ma mi pare che per quanto riguarda numerose voci emerse dalla maggioranza c’è anche molto d’altro.
Se si va a vedere aspetti e momento della discussione sulla libertà religiosa, sulla “Nostra aetate”, per quanto riguarda l’ebraismo, abbiamo voci di straordinaria libertà e innovazione. Anche per quanto riguarda la discussione sulla “Gaudium et spes”. Quindi io sono cauto nel ridurre il Vaticano II a uno scontro di poteri. Certamente c’è anche questo, ma c’è anche dell’altro, e molto importante. Non a caso una serie di forze vive lo hanno avvertito non come qualche cosa che va applicato, ma come qualche cosa che rappresenta un inizio, che va variamente recepito e portato avanti, il che è una cosa ben diversa.
Due ultime cose: non direi che il concilio abbia responsabilità riguardo al collateralismo e ai rapporti con i poteri di turno, in particolare in riferimento al nostro paese. Nel concilio è risultato molto chiaro l’invito a rinunciare a rapporti privilegiati, ai concordati… Piuttosto c’è il ritorno di una tradizione. Non a caso i vertici ecclesiastici lamentavano che erano venuti meno nel secondo ‘800 e nei primi del ‘900. Quando si sono potuti ristabilire, si sono ristabiliti rapporti privilegiati con il potere, non di rado attraverso scambi di basso profilo: e questo è un ulteriore elemento, un dato di fatto.
“Fisichella non capisce…”. A me pare che Fisichella capisca molto bene. Capisce molto bene quando esalta Oriana Fallaci e resta colpito dalla sua straordinaria intelligenza, che aveva colto la grandezza di Benedetto XVI, come dice poco dopo la sua elezione. Capisce molto bene quando dice che la bestemmia non va tanto bene, però ad un certo momento bisogna anche capire il contesto, tenerne conto, e così via. Capisce molto bene quando appunto distingue tra un uomo che si comporta male però è di sanissimi principi e un uomo che si comporta benissimo ma ha principi sbagliati, per cui la scelta deve andare al primo. A me pare abbia una vista lunga. Che poi sia vero che c’è un’enorme difficoltà a capire il nuovo mi sembra che chi è intervenuto abbia perfettamente ragione.
C’è veramente una difficoltà a capire e a percorrere le strade da battere. Lascia perplessi e stupiti il fatto che si pensi di poter affrontare il nuovo, di cui si ha consapevolezza, proponendo però strade vecchie.
Questo mi sembra, per quanto riguarda il magistero romano, l’aspetto più strano, più singolare e più preoccupante. Tutta una serie di proposte sono in sostanza sulla linea di strade vecchie, come, ad es., i cosiddetti principi non negoziabili e non rinunciabili. Ci si rifiuta di capire che ci sono leggi che sono leggi di libertà, che non impongono a nessuno, e meno che mai ai credenti, di seguire certe strade, ma lasciano appunto la libertà di scelta dettata dalla coscienza individuale. Cosa che a me pare una grande conquista.
Anche di un’altra cosa ci si dimentica: che la chiesa stessa ha lungamente applicato una gerarchia tra le diverse “verità”. L’intangibilità della vita umana, diventata una verità assolutamente non negoziabile, fino a non molto tempo fa era messa a confronto, ad es. con le esigenze dell’ordine pubblico, per non parlare di tempi più lontani, quando, con le esecuzioni di eretici, veniva sacrificata ai diritti della “verità” dottrinale. Le esecuzioni capitali di cui la gerarchia ecclesiastica è stata lungamente fautrice erano conseguenza del privilegiamento sulla vita umana dell’ordine civile, dell’ordine pubblico. Gerarchie di verità, gerarchie di diritti si sono formate e hanno mutato nel corso del tempo. E’ strana questa dimenticanza.