2 giugno 2011
CONVEGNO A BERGAMO
Introduzione


 

Siamo davvero contenti e riconoscenti di ritrovarci ancora una volta insieme, a un appuntamento che riusciamo a proporre con fedeltà, nonostante la povertà delle nostre energie e dei mezzi a disposizione. Anche questo fa parte di uno stile, che è esso stesso messaggio.
La giornata si articola in due parti ben distinte, nei contenuti, nel metodo e nel linguaggio, anche se l’una e l’altra aderiscono perfettamente a quello che ha ispirato tutta la nostra vita: la fede attivamente vissuta nelle concrete condizioni di lavoro. Ci attende una giornata davvero piena e speriamo utile a tutti. Il pomeriggio sarà dedicato a ripensare il lavoro in tempo di crisi, guidati dal nostro amico dr. Daniele Checchi.
Nella mattinata approfondiremo la riflessione sull’Esodo riferito alla Chiesa del Vaticano II, in rapporto alla dimensione planetaria che sempre più l’umanità e il mondo stanno assumendo. Ci aiuteranno il dr. Giovanni Miccoli, con la sua riconosciuta competenza di storico che torna tra noi dopo 17 anni e mons. Luigi Bettazzi che ci offrirà la sua testimonìanza di padre del Concilio e di pastore. Gli interventi, oltre che domande ai relatori, saranno contributi volti ad approfondire il tema che sta al centro della nostra attenzione.
Vi offro ora alcuni spunti che servono ad avviare i nostri discorsi

Coscienza storica

Iniziamo dalla metafora della pietra che accompagna il popolo nel deserto per dissetarlo, come ci viene riproposta da Balducci:
“Che mancava prima del Concilio, alla nostra coscienza di cattolici? Mancava l’idea del viaggio, l’idea della Chiesa itinerante. L’immagine che meglio traduceva la nostra comprensione della Chiesa era l’immagine della pietra. Quale riferimento potrebbe essere più suggestivo, per la nostra esistenza fluttuante, che questo della pietra che sta? […]
Secondo un’antica leggenda rabbinica, a cui S. Paolo fa allusione nell’Epistola ai Corinti (10,1-5), la pietra da cui Mosé fece scaturire l’acqua per la sete del suo popolo accompagnò gli Israeliti nel loro viaggio nel deserto, per diventare poi la pietra d’angolo di Gerusalemme. La pietra li accompagnava, perché attingessero di che dissetarsi. La pietra, insomma, viaggiava anch’essa[…].
Il Concilio ha rivelato, agli occhi dei nostri contemporanei, che la Chiesa è in viaggio, sta in mezzo al loro affannoso lavoro, invita a un gesto antico la loro nuovissima sete: che si pieghino e posino le labbra alla sorgente”. Una pietra che si ferma e si allontana dal popolo, non è in grado di raggiungerlo con la sua acqua.
Nel Concilio possiamo vedere lo sforzo di mettersi in pari, di recuperare il contatto con la modernità e con il mondo laico e religioso. Pensiamo, ad esempio, al decreto sulla libertà religiosa, alle aperture alle altre confessioni cristiane e al diverso atteggiamento verso le religioni, all’affermazione della Chiesa come mistero e non “societas perfecta” e la sua piena subalternità a Cristo del quale è segno e sacramento in funzione dell’unità di tutta l’umanità.
Anche il genere letterario e il vocabolario utilizzati si discostano da tutti i precedenti Concili che prevedevano la forma letteraria del canone, il cui vocabolario “consisteva in parole di minaccia e intimidazione, sorveglianza e punizione, di alienazione ed esclusione; le parole di un superiore che si rivolge a un inferiore…” Si è parlato del “Vaticano II come di un evento linguistico” dove troviamo parole come: “fratelli e sorelle, popolo di Dio, amicizia, cooperazione, collaborazione, libertà…carisma, dialogo collegialità, coscienza. Mistero, santità” (W. O’Manley, Vita monastica 247/2011, 68-69).
Occorre, tuttavia, rilevare che nel post Concilio una tale apertura è stata attraversata da titubanze anche in teologi importanti che avevano avuto una funzione attiva nella preparazione e nel decorso dei lavori conciliari. E, soprattutto, va sottolineato quanto Dossetti ha messo in luce come limite presente nell’orizzonte conciliare stesso: Esso “era stato tutto pensato ancora in regime di cristianità e supponendo sostanzialmente ancora un regime di cristianità, dal quale si è allontanato per poche cose…e in una supposizione, non più vera, che il regime globale – sociale, culturale, politico – fosse più o meno, con differenze rilevanti tra le diverse nazioni, quello ereditato dal vecchio regime cristiano”. In realtà, per il monaco di Monte Sole, “la cristianità è finita! E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo darci da fare ad ogni costo per salvare qualche rottama di cristianità…L’Italia ha conservato alcuni rottami sino ad ora…con una resistenza che sa di retroguardia…Apparirà non solo una battaglia retriva e di retroguardia, ma apparirà inevitabilmente un’imposizione dal di fuori, costrittiva della libertà umana, il che è proprio il contrario del vero cristianesimo, pensato come azione non nostra , ma di Cristo presente nella storia e nella libertà dello Spirito Santo” (I valori della Costituzione 17- 20). E’ una storia che conosciamo benissimo ed è la via che, almeno in Italia, non si vuole ancora mollare.

Dove va il mondo?

Il mondo sta vertiginosamente cambiando. L’umanità sta correndo verso forme d’interdipendenza finora sconosciute. Cambia il contesto planetario, con tensioni e tragedie che si stanno accumulando. Siamo in una nuova epoca storica, anche rispetto ai tempi del Concilio. Basti questi un solo dato, tra i molti che si potrebbero fornire, per comprendere che la figura di questo mondo si va trasformando portando con sé situazioni assolutamente nuove anche per le chiese.
“Secondo gli studi che l’economista Angius Maddison ha realizzato per l’OCSE, nel 2030 la quota dell’Asia sulla ricchezza mondiale raggiungerà il 53 per cento, mentre la somma dell’Europa e degli Stati Uniti sarà del 33 per cento…Si va rapidamente verso una redistribuzione delle gerarchie di potere che corrisponde meglio agli equilibri tra le grandi masse di popolazione” (Rampini, Slow economy 183-184).
Non siamo ancora in grado di immaginare le conseguenze che questi cambiamenti planetari avranno su di noi. Però possiamo dire con R. Mancini che questa situazione deve provocare “il risveglio della Chiesa Cattolica alla vera universalità. Le svolte, di conseguenza, sono aperture, forme di esodo da qualsiasi divisione o esclusivismo. Si tratta precisamente dell’apertura all’universalità di Dio, all’universalità di Gesù Cristo, all’universalità della famiglia umana. Questa nuova consapevolezza costituisce un ritorno al Vangelo” (Vita monastica 247/2011, 9) .
E con P. Coda possiamo aggiungere: “E’ in gioco l’esodo definitivo, non solo a motivo del superamento della dialettica contrappositiva tra Chiesa e modernità, ma per il configurarsi planetario di una polis universale religiosamente pluralistica, dallo stato di cristianità” (ivi 37).

Esodo: dalla Bibbia alla Chiesa

In questi anni ci siamo ripetutamente soffermati sull’Esodo, indagando in particolare gli scritti dell’A.T., il collegamento con il N.T., sottolineando che “l’autocomprensione della chiesa passa attraverso l’appropriazione dell’Esodo” (Rizzi, Esodo, 61). Abbiamo anche preso in considerazione alcune attualizzazioni che si sono ispirate a questo modello fondamentale.
Qual’è il rischio più grande dinanzi al mondo che cambia? Quello di idealizzare l’immobilità, di arroccarsi nella fissità, l’estendere l’eterno a quanto appartiene alla provvisorietà della storia. Invece “cambia la figura di questo mondo” e inevitabilmente cambia la figura della Chiesa. “ Senza l’ammissione del carattere provvisorio delle forme ecclesiali, l’affermazione della loro storicità è vuota. Il riconoscimento del provvisorio, cioè della capacità di mutazione e d’innovazione delle forme ecclesiali, è il test dell’accettazione del ‘dover morire’ perché nasca il regno’ (C. Duquoc, Chiese provvisorie, 116).
Penso che i testi della Bibbia siano stati affidati alle Chiese cristiane non solo per istruire gli altri, ma perché esse stesse apprendano sempre di nuovo il ritmo della rivelazione del Dio dell’alleanza che avviene nella storia. Nella Scrittura c’è una continua e insonne rimeditazione, con la scoperta di errori, colpe, chiusure, infedeltà e, attraverso queste avviene, la riscoperta della fedeltà di Dio e l’approfondimento delle responsabilità del popolo scelto e l’ampliamento della chiamata a tutti i popoli. Perché i 2000 anni della Chiesa e delle Chiese, non diventano il luogo dove discernere “la differenza” di Dio nella sua permanenza e fedeltà, a fronte dei limiti inevitabili che dovrebbero almeno essere riconosciuti e chiamati per nome? Ma, soprattutto, perché assolutizzare, quasi divinizzare, forme e modelli che, in realtà, appartengono alla provvisorietà della storia? Non è arrivato il momento di prendere sul serio e di tirare le conseguenze a tutti i livelli di quell’adagio – Ecclesia sempre reformanda – che ha attraversato secoli e secoli di cristianesimo?

La visione di Papa Giovanni

Un mese prima dell’inizio del Concilio, l’11 settembre 1962, Giovanni XXIII indirizzava ai fedeli di tutto il mondo un messaggio radiofonico nel quale affidava al Concilio il compito di aprirsi al mondo, di trovare un linguaggio teologico appropriato, di dare testimonianza di una chiesa dei poveri.
Questo terzo punto così veniva espresso:
“Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”-.
Ma come deve presentarsi la chiesa “in faccia ai popoli sottosviluppati ” ?
Nel discorso di apertura del concilio, 1’11 ottobre 1962, Papa Giovanni così, in una sintesi mirabile, ne delineava un tratto fondamentale:
“Al genere umano, oppresso da tante difficoltà, essa, come Pietro al povero che gli chiedeva l’elemosina, dice: «Io non ho né oro, né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo Nazareno levati e cammina»” (At. 3,6).
Qui il soggetto è la Chiesa Cattolica riunita in Concilio che Giovanni XXIII vede nella freschezza e povertà iniziali che non ha nulla da offrire se non la confessione del Risorto, posta in rapporto al drizzarsi in piedi dell’umanità. La povertà non viene confinata nelle sole scelte individuali, nell’impegno ascetico, nei “consigli evangelici”: essa riguarda la Chiesa nel suo insieme e la forma evangelii con la quale deve presentarsi al mondo.
Mi pare che ora possiamo meglio comprendere il punto luminoso sopra enunciato: “…la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”. La Chiesa deve essere universale, ma non può esserlo se non è particolarmente la Chiesa dei poveri e non può essere tale se essa stessa non diventa povera. “La Chiesa è e vuole essere…” indica un cammino storico che va intrapreso per poter diventare effettivamente la Chiesa dei poveri. Roncalli, compagno di studi di Bonaiuti, conosceva bene la storia della Chiesa; pertanto il mettere sulle labbra della Chiesa del Concilio le stesse parole di Pietro non poteva che essere una scelta intenzionale e programmatica.

Il nostro esodo

Per la maggior parte di noi, pretioperai, la cesura del Vaticano II si è fortemente impressa nel pensiero e nella biografia: la nostra interpretazione del Concilio si è concretizzata nell’opzione di vivere la fede in Gesù e la stessa appartenenza ecclesiale immersi e mescolati nella storia concreta di uomini e donne alle prese con il lavoro e la fatica quotidiana. Chi di noi non ha portato nel cuore le parole che aprono la Gaudium et spes:
“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore…”?
Quella vissuta non è stata un’esperienza temporanea, ma condizione accolta e scelta come itinerario di tutta una vita.
Per tutti noi, la scelta del lavoro ha rappresentato l’uscita dal tempio, come recinto ecclesiale, per entrare in campo aperto, immergendoci in mezzo al mondo, con l’umanità che lavora. E’ stata una “dislocazione” che ci ha costretti ad assumere un equipaggiamento leggero, gettando il superfluo e portando le cose essenziali per poter camminare e vivere. Non è stato un colpo di testa, ma un’obbedienza allo spirito del Concilio, alla Chiesa dei poveri. Possiamo perfino dire che c’è stata una missio, almeno se si prendono sul serio le parole di Paolo VI nella sua Octogesimo advenies del 1971: “Non è forse per essere fedele a questa volontà che la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi testimoni della sollecitudine e della ricerca della Chiesa medesima?”.
Credo che nella sostanza la parabola dei pretioperai, nati in Francia a partire dalla tragedia della seconda guerra mondiale e poi diffusi nell’Europa capitalista, rappresenti una linea interpretativa del Vaticano II, come presenza disarmata e povera dentro uno dei luoghi storici dove il conflitto e l’oppressione sono di casa. Balducci nel suo “Uomo planetario” (1990) ha intravisto in questa scelta un segnale della “fine della cristianità” e una “normale risposta evangelica a una situazione dell’uomo totalmente inedita” .

“Ciò che chiamiamo inizio è spesso la fine
E giungere alla fine è incominciare
La fine è dove ricominciamo”
(T.S. Eliot)

Roberto Fiorini


 

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