Convegno nazionale PO / Bergamo, 2 giugno 2012

SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA

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La relazione di Roberto Fiorini


Forse… tutto è nato in un certo giorno del IV secolo quando un adultero fu portato nell’episcopato e (avendo l’imperatore dato valore pubblico ai decreti della audientia episcopalis) il povero cristiano non riesce più a capire se è processato davanti al tribunale di Dio, della Chiesa o degli uomini” (Paolo Prodi)

Introduzione

Affrontiamo un tema molto complesso. Però centrale. Non perché lo stabiliamo noi, ma perché attraversa tutta la Bibbia e poi la storia della chiesa, e delle chiese che hanno conosciuto lacerazioni gravissime. Inoltre, visto che le realtà ecclesiali vivono all’interno di questo mondo, il potere è realtà che informa di sé tutti gli ambiti organizzativi e gli assetti istituzionali ed è presente nelle relazioni umane, anche le più riuscite.
Ma c’è qualcosa di più. Nelle religioni e nelle chiese il potere viene esercitato nel nome di Dio. Parola che, come diceva Martin Buber, è stata “insudiciata e lacerata” come nessun’altra. Quante cose sono state comandate e imposte in nome di Dio, compreso l’uso della violenza. Poi nel tempo si è preso coscienza e amaramente si è identificato l’abuso blasfemo, se non idolatrico, del potere anche se esercitato in un quadro di legittimità formale.
In ambito cristiano la gestione del potere nelle chiese è correlato con la sua presentazione in termini di servizio. Si è costretti a farlo per l’insistenza quasi ossessiva che troviamo nel Nuovo Testamento. Nei vangeli, in particolare, è già presente una forte dialettica di impostazione tra Gesù e i discepoli. Gli autori non si fanno scrupolo di rimarcare l’incomprensione dei discepoli nei confronti del messianismo incarnato da Gesù, lontanissimo dalle loro aspettative. E se dagli inizi è stato così, non stupisce la permanenza e l’acuirsi del problema nel lungo corso della storia cristiana.
E oggi? Sembra che molti nodi stiano arrivando al pettine. Ma ci sarà l’energia creativa per affrontarli coraggiosamente? Noi siamo convinti che il potere nella chiesa, come viene esercitato nei vari livelli, ha bisogno di essere evangelizzato. Deve cioè essere sottoposto al vaglio di un discernimento evangelico, da cima a fondo, non solo nelle persone, ma nello strutturarsi dei rapporti e delle istituzioni. E per questo non basta riferirsi ad una essenza astratta della chiesa, ma occorre analizzare con onestà intellettuale la storia della chiesa che si presenta impastata di gravissimi abusi di potere, attuati in nome di Dio. Discorso che non va rimosso o nascosto con giochi di linguaggio, oppure giustificando tutto come servizio a fin di bene.
Ho creduto bene, un po’ come fa lo scriba del vangelo, che dal suo tesoro cava fuori cose antiche e nuove, riportare alcuni testi pensando che possano facilitare il discernimento. Cosa più che mai indispensabile, per inseguire una forma ecclesiae capace di lasciar trasparire la differenza del Dio di Gesù Cristo, il Dio dell’agape e della gratuità, che si è fatto rappresentare dal “Figlio dell’uomo” che è venuto non per essere servito, ma per servire, fino a dare la sua vita.

Una provocazione

Nel lontano 1988 Paul Gauthier, preteoperaio che al tempo del Concilio era segretario del gruppo di vescovi e teologi presieduto dal card. Gerlier che prese il titolo significativo “Gesù, la chiesa e i poveri” , fece visita ai luoghi d’Abruzzo dove rimane viva la memoria di Celestino V, il papa dimissionario. Là, sulle alture del monte Morrone, dove c’è ancora la celletta dell’Eremo di Pietro Angelerio – Celestino V – Paul rimase una giornata intera assieme a Pasquale Iannamorelli, che abita nella vicina Sulmona. Parecchi anni dopo, pasquale in un articolo comparso sulla rivista “Pretioperai” ci ha comunicato qualcuna delle riflessioni “più limpide, sincere e disarmanti” di Paul. Questa ad esempio:

Penso che durante il Concilio sia stato commesso un errore molto grave. Abbiamo parlato della povertà della Chiesa, ma abbiamo dimenticato un problema ben più importante: il potere della Chiesa. Non ci siamo accorti che non si trattava solo di ricchezze, ma di potere; non ci siamo resi conto che la Chiesa ha accaparrato tutto il potere per se stessa: l’infallibilità, il papa che è capo di stato, che ha potere assoluto sulla Chiesa intera, che nomina i vescovi senza consultare il popolo, quel popolo che non conta nulla nella Chiesa. Nelle sue encicliche sociali il papa dichiara che la democrazia è la forma migliore per la società umana, ma guai a parlare di democrazia nella Chiesa. Durante il Concilio mi sono dato molto da fare perché emergesse l’immagine di una Chiesa povera ma ho quasi completamente dimenticato il problema del suo potere”.

Vale la pena di ricordare che nel nostro linguaggio comune siamo soliti contrapporre il ricco e il povero. In verità la vera contrapposizione è un’altra. Le analisi del vocabolario mostrano che pauper (povero) ancor prima che a dives (ricco) si oppone a potens. La ricchezza, cioè, è un aspetto del potere. Così come il concetto di pauper è strettamente correlato alla situazione di dipendenza.
Più avanti Gauthier aggiungeva questo suo pensiero:

Sarebbe un’illusione credere e sperare che qui in terra tutta la Chiesa sarà un tutt’uno con il popolo degli oppressi e degli sfruttati, tutta povera tra la gente povera. La tentazione della ricchezza e del potere sedurrà sempre la gente di Chiesa. Vi saranno sempre dei vescovi e dei preti per discutere come i loro predecessori, gli apostoli, su chi sarà il più grande. Ma ve ne saranno sempre altri che sentiranno il rimprovero di Gesù e l’appello a farsi ultimi e servitori di tutti. La frontiera tra questo piccolo numero rimasto fedele al Vangelo e la moltitudine dei cristiani sedotti dal denaro e dalla sete di potere, non passa tra gli individui, ma nel cuore di ciascuno” (1).

Una domanda

Ogni tanto riprendo in mano i libri della mia giovinezza. Quelli degli anni ’60, fioriti nell’ebollizione conciliare. Portano il sapore e la lucidità semplice di domande elementari. Come questa: “In qual misura la Chiesa stessa, la Chiesa come tale, deve e può applicare le norme evangeliche che si tende a riservare ai cristiani, in quanto individui?”. La troviamo in un libro di Congar, apparso in Italia nel 1964 :

Bisognerebbe fare una storia e una teologia del temporale della Chiesa… Noi pensiamo di stendere un giorno un lavoro consacrato a questa questione: in qual misura la Chiesa stessa, la Chiesa come tale, deve e può applicare le norme evangeliche che si tende a riservare ai cristiani, in quanto individui, come: perdonare i nemici, presentare la guancia sinistra, preferire i mezzi di poco valore, conoscere la tentazione dello spirito di possesso e di potenza, combattere contro la carne, ecc. E molti altri soggetti si presenterebbero ancora!
È necessaria la storia, crediamo, per trattarli convenientemente. Essa è una grande maestra di verità, soprattutto se s’intende per «storia» qualcosa di diverso dalla semplice erudizione, che pure è di notevole utilità. Si tratta di essere sensibili, con conoscenza di causa, alla dimensione storica di cui sono improntate tutte le cose che esistono quaggiù. Noi siamo portati a vedere, non soltanto il mistero della Chiesa, ma tutte le realtà ecclesiastiche (gerarchia, sacramenti, ecc.), in una specie di situazione sopratemporale, e pertanto intemporale. È una delle ragioni per cui ci è così difficile, talvolta anzi ci sembra temerario e vano, cercare d’immaginare nuove forme, un nuovo stile, per queste sacre realtà. Ora, se l’episcopato, per esempio, è, nella sua essenza, un’istituzione divino-apostolica, ha conosciuto più d’una forma storica di realizzazione ed è stato vissuto secondo tipi assai diversi. Perché l’episcopato come autorità e sacramento è sempre lo stesso, siamo portati a non vedere tutto ciò che distingue un capo di comunità locale dei primi secoli, un vescovo dell’epoca feudale e un pastore del xx secolo. Chiesa di sempre, sacerdozio di sempre, ma anche Chiesa di oggi, sacerdozio di oggi… La conoscenza delle forme storiche ci aiuta ad affermare meglio la permanenza dell’essenziale e il cambiamento delle forme; ci permette di situare con maggior esattezza l’assoluto e il relativo, e così di essere più fedeli all’assoluto stesso, adattando il relativo alle esigenze dei tempi  (2).

Penso non sfugga a nessuno la particolare attualità di queste parole: “la storia maestra di verità”, “la storia e la teologia del temporale nella Chiesa”, il rischio della “intemporalità”, che rappresenta un allontanamento dal metodo della rivelazione del Dio della Bibbia che si manifesta nella storia e dentro la storia; come pure la tendenza ad estendere “l’assoluto” anche al campo del “relativo”, con il risultato di generare una confusione da cui la fede non ha nulla da guadagnare…

Servizio e potere (diakonìa e exusìa)

La connessione tra questi due aspetti attraversa la rivelazione legata alla vita, alla parola e allo stile che emerge nel Gesù dei Vangeli e degli scritti apostolici. È fin dallo sbocciare della prima comunità cristiana che si manifesta la tensione tra i due termini: visioni che si contrappongono. Sarebbe davvero insufficiente e velleitario qualunque discorso sulla povertà della chiesa che non si radicasse e non prendesse come criterio di base la rivelazione che avviene in Gesù. Vi è una permanenza del paradosso che Lui esprime nell’esercizio della exusìa messianica che si manifesta come potere liberante da malattie e ossessioni, come parola rivolta ai poveri e la forma di servo disarmato e solo dinanzi ai poteri istituzionali che lo uccidono.
Appaiono illuminanti le narrazioni evangeliche delle tentazioni di Gesù, collocate all’inizio della sua vita pubblica e che tali rimangono anche nelle provocazioni crudeli rivolte a Lui come re e messia alla fine, durante l’esecuzione della sua condanna, il momento più alto dello scontro. Nelle diverse articolazioni, le tentazioni consistevano nell’uso del potere messianico a proprio vantaggio, per ottenere risultati immediati e plausibili a livello empirico, eludendo le condizioni storiche di tutti gli umani (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,11-13). Questa sua interpretazione messianica incontra una costante sordità e rifiuto nei primissimi suoi discepoli e apostoli, le cui menti erano popolate da figure messianiche vincenti ed efficaci nell’immediato. Due tipi di efficacia vengono contrapposti nettamente: quella immediatamente spendibile sul piano dell’empirìa storica (la tentazione) e quella della Kénosi da cui soltanto può nascere una nuova visione delle cose, un orizzonte di senso nuovo per tutti.
I discepoli di allora e di sempre, i testimoni e le comunità che nasceranno, le chiese nel loro strutturarsi e l’unica chiesa di Cristo che viene confessata non potranno evitare questa tensione, né sfuggire alla tentazione di scindere il potere dal servizio, allontanandosi dallo stile unico, adempiuto nella vita di Gesù.
Il rischio più grande che corrono coloro che si riferiscono a Gesù Cristo, è quello di circondarsi di un linguaggio servizievole, ibrido, di una parvenza caritatevole, mascherando sostanza e metodi, molto distanti dalla sequela Christi.

Pesante eredità

Seguendo il consiglio di Congar, che suggerisce di trattare in maniera non intemporale le riflessioni sulla chiesa, focalizzo tre momenti della chiesa che mettono in luce lo sviluppo della concezione e pratica del potere che sempre più sul piano istituzionale va discostandosi dalla figura evangelica del servizio.

a) Cristianesimo imperiale

Ricorre il XVII° centenario dell’editto di Costantino, di cui sono in corso le celebrazioni a Milano dove è stato emanato nel 313. L’editto sanciva per l’intero impero romano l’illimitata libertà religiosa, chiudendo la fase in cui ricorrevano periodiche repressioni nei confronti dei cristiani. In realtà l’imperatore prese a favorire in molti modi la chiesa. Iniziava così un processo che con Teodosio il grande portò all’adozione del cristianesimo come religione di stato, con la chiesa cattolica che divenne chiesa di stato, con l’eresia che veniva sanzionata come crimine contro lo stato. In meno di cento anni la chiesa da perseguitata diventava persecutrice. Il nemico della chiesa coincideva con il nemico dello stato. Nel 385 a Treviri ci furono i primi giustiziati per eresia. Per la prima volta cristiani uccidono altri cristiani per motivi di fede. Questo modo di procedere trovava approvazione presso le autorità ecclesiastiche, anzi la repressione veniva sollecitata. Anche i pagani e gli ebrei subirono pesanti aggressioni. Significativo, a questo proposito è il seguente episodio di cui fu protagonista Ambrogio di Milano. Noto alla storiografia, ma oscurato dai manuali scolastici e cancellato dall’apologia cattolica, ha un carattere emblematico, portatore di una logica che nella sostanza resterà dominante sino al Vaticano II.

A Callinicon, sull’Eufrate i cristiani della città avevano assalito e incendiato la sinagoga: un atto che si inserisce nel clima di crescente aggressività e intolleranza che caratterizzava in quegli anni l’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei. Teodosio, informato dell’accaduto, aveva ordinato la punizione dei colpevoli, la restituzione degli oggetti rubati e la ricostruzione della sinagoga a spese dei vescovo locale, considerato principale responsabile del misfatto. L’intervento di Ambrogio contro tali misure di Teodosio è durissimo: per lui è in gioco la “causa di Dio” e perciò non può tacere. Egli si assume la piena responsabilità dell’atto: “Tu hai in me il reo presente e confesso: sono io che ho incendiato la sinagoga, sono io che ne ho dato l’ordine” “ne esset locus in quo Christus negaretur”. Ma come il vescovo e gli altri responsabili vanno assolti, così nemmeno la sinagoga (“templum impietatis”) va ricostruita. Forse l’imperatore è mosso da un’esigenza di ordine (“ratio disciplinae”): ma tale esigenza deve cedere di fronte alla “causa religionis”, ai doveri verso il culto di Dio.
Non mi pare vi possano essere dubbi: con queste considerazioni Ambrogio prospetta chiaramente il principio che il governo della società e il criterio dell’ordine e del rispetto reciproco che lo presiede devono restare subordinati e passare in secondo piano di fronte all’onore di Dio, alla devozione e al rispetto a lui dovuto: onore, devozione e rispetto, peraltro, che non possono realizzarsi se non nel culto cristiano e per suo esclusivo tramite.
I durissimi giudizi, gli infamanti epiteti con cui Ambrogio designa gli ebrei, e che fanno il paio con quanto in quegli stessi anni andava insegnando Giovanni Crisostomo ai suoi fedeli di Antiochia, profilano con chiarezza anche un altro aspetto, conseguente a tale pretesa, che si farà progressivamente strada nel regime di cristianità: quello di negare cioè ogni dignità e valore religioso e morale a quanti a quel culto restavano estranei, prefigurando perciò la loro emarginazione dal consorzio civile: con un passo ulteriore sarà la loro esplicita persecuzione e repressione. Le competenze e i diritti storici speciali riconosciuti alla Chiesa e ai cristiani si fondano sul loro rapporto privilegiato con Dio, grazie al Cristo: i loro diritti sono perciò i diritti di Dio, che da tutti vanno riconosciuti. Formatosi nei secoli tardo-antichi e alto-medievali, tale modo di pensare e di attuare il rapporto della Chiesa con la società e con la storia caratterizza e impregna profondamente di sé l’intero secondo millennio dell’era cristiana  (3).

Qui si registra un’invasione di campo da parte dei leader cristiani tesa a sottrarre agli altri, cioè ai non cristiani, qualunque legittimità nell’ambito del vivere sociale, imponendo una sorta di …”pulizia etnica” in chiave religiosa. Ma quale immagine di Dio ne risulta? Che ne è di quella narrazione di Gesù sul Padre che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti?” (Mt 5,45). Questo processo di riduzione di Dio alla propria identità non solo ecclesiale, ma anche politica e imperiale, alla fine non rappresenta un pessimo servizio al Vangelo stesso? Il messaggio cristiano e le narrazioni bibliche vengono canalizzati su un orizzonte dove l’alterità viene negata. A favore di un’identità chiusa.
Però c’è un altro aspetto da sottolineare, che significa un’invasione di campo di segno opposto. Già l’imperatore Costantino di sua iniziativa convocò il primo concilio ecumenico a Nicea (325). Quella divenne l’occasione per adeguare l’organizzazione ecclesiastica sull’organizzazione statale. Le province dell’impero si fecero coincidere con le province ecclesiastiche. I vescovi vennero equiparati a funzionari imperiali. In certi casi da governatori diventavano vescovi.
Ma qualcosa di più profondo avvenne, toccando la vita intima della chiesa. I primi otto concili furono convocati dagli imperatori e si tennero nelle città greche dell’Asia minore, senza la partecipazione di nessun papa. La lingua usata era il greco. In genere erano finalizzati a riportare la pace nella chiesa (A Nicea con Costantino per combattere la crisi ariana e l’ultimo in oriente nell’869-870 per affrontare lo scisma di Fozio). Gli altri 13 concili avvennero in occidente e salvo in un paio di casi furono partecipati solo da occidentali. Convocati dal papa, a parte il caso particolare di Costanza, e in lingua latina. O’ Malley sottolinea che “la diversità dei concili non riguarda solo i loro rapporti reciproci, ma anche quello con il papato. C’è un contrasto impressionante tra i primi 8 e i successivi” (4).
In questa sede ci interessa sottolineare un punto particolare: come veniva presentato l’insegnamento, con quale stile e genere letterario? Ancora O’Malley (pp. 45-46):

Nel corso dei secoli i concili hanno usato una varietà di generi letterari mutuati, per la maggior parte, dallo stile di discorso dell’antichità romana. Tali generi erano, in buona parte, quelli della legge e delle sentenze giudiziarie, o molto simili ad essi. Pur garantendo una fede ortodossa e imponendo un comportamento appropriato all’interno della Chiesa, specialmente da parte del clero (fides et mores), le leggi non erano e non potevano essere disgiunte dalla garanzia dell’ordine pubblico nell’intera società, per cui erano le autorità laiche a incaricarsi di farle rispettare. Costituivano ‘la legge del paese’, non solo quella della Chiesa.
Valevano due presupposti fondamentali: primo, i concili erano organi giudiziari che discutevano cause ed emettevano giudizi; chi era giudicato colpevole riceveva la giusta punizione. Secondo, i concili erano organi legislativi che emettevano ordinanze per la cui violazione erano previste, come per qualsiasi legge, delle pene. Di fatto, questo modello risale addirittura a prima di Nicea, perché lo troviamo in concili regionali risalenti, come minimo, alla metà del III secolo. I vescovi cominciarono molto presto ad adottare gli stessi modelli procedurali seguiti dalle assemblee locali e municipali in tutto l’impero: provenivano dalla classe dei notabili locali ed era naturale che seguissero questo modello quando si riunivano in assemblea. Anche il senato romano, pur essendo un caso a sé, rientrava nella stessa tradizione procedurale.
A Nicea, l’analogia con il senato fu rafforzata dalla presenza dell’imperatore in persona. I concili adottarono, dunque, i modelli legislativi e giudiziari dell’impero romano, che sarebbero poi durati nel corso dei secoli. Anche quando, nei concili dell’Occidente latino, il ruolo dell’imperatore e di altri sovrani laici si indebolì, l’idea che il concilio fosse, come il senato romano, un organo legislativo e giudiziario restò immutata […].
Tra i numerosi generi letterari usati dai concili nel corso dei secoli, troviamo le professioni di fede, i racconti storici, le bolle, le lettere, le condanne giudiziarie dei colpevoli di crimini ecclesiastici, le costituzioni e diversi tipi di ‘decreti’. Nei primi concili, la forma più importante, e più altamente considerata, era la professione dì fede; tuttavia il genere che più caratterizzò Nicea e molti dei concili successivi fu il canone, cioè (di solito) un’ordinanza prescrittiva, relativamente breve, che spesso prevedeva una punizione – in genere un anatema, cioè un interdetto o una scomunica – per chi avesse disobbedito […].
Anche tenendo nel debito conto le numerose differenze, generalmente da Nicea al Vaticano I lo stile di discorso dei concili mantenne determinate caratteristiche. In particolare, questo stile era composto di due elementi fondamentali. Primo: la forma letteraria, il canone o il suo equivalente; secondo: la terminologia tipica di questo genere, e ad esso adeguata, formata da parole di minaccia e intimidazione, sorveglianza e punizione; parole di un superiore che parla a un inferiore – o a un nemico. Parole di potere.” 

Già, parole di potere. Uno sbilanciamento che rompe quella dialettica interna che riscontriamo nel Nuovo Testamento, quello stile di Gesù che contrasta la pesantezza del potere inteso come dominio. E tutto questo entra, “nella struttura interna della chiesa, nel linguaggio, nelle espressioni linguistiche e liturgiche, nelle idee”. Ma conviene riportare il testo per esteso.

Da qualche tempo è superata la visione di una contrapposizione tra il cristianesimo e le istituzioni romane, come se per i primi tre secoli non vi fosse stata alcuna osmosi ma unicamente una contrapposizione segnata dalle persecuzioni e destinata a modificarsi soltanto con il riconoscimento della religione cristiana e con l’età costantiniana: in realtà il cristianesimo si nutre e muove i suoi primi passi in un terreno che è quello dell’ordinamento romano e l’ordinamento stesso dell’impero assorbe fermenti che nell’epoca ellenistica circolano all’interno del mondo del Mediterraneo. È ben noto il processo organizzativo delle istituzioni ecclesiastiche, in particolare delle diocesi, sulle basi delle strutture amministrative dell’impero romano, ma il fenomeno non è soltanto esterno e coinvolge tutta la struttura interna della Chiesa nel linguaggio, nelle espressioni linguistiche e liturgiche, nelle idee: soprattutto è il pensiero stoico – da Cicerone a Seneca – sull’etica, sulla virtus e sulla fides come presupposti della giuridicità che ha marcato sin dall’inizio il pensiero cristiano. Il coinvolgimento più importante sembra essere quello che ha portato alla nascita della concezione del diritto naturale, estraneo alla prima tradizione giuridica romana, e al primo sviluppo di una filosofia del diritto legata in particolare all’esperienza stoica […].
Questo porta quindi a un processo di giuridicizzazione delle norme di comportamento della comunità cristiana e ad un processo di fondazione etica del diritto mai prima conosciuto. Ancora prima che nello sviluppo della prassi penitenziale questo si riscontra nel pensiero dei Padri della Chiesa dei primi secoli: accanto alla rivendicazione della superiorità della nuova morale cristiana rispetto al diritto romano emerge, particolarmente in Occidente (e questa divaricazione iniziale non sarà senza conseguenze) una utilizzazione del linguaggio giuridico al servizio della teologia, dei concetti religiosi e in particolare dell’ecclesiologia, sia in funzione delle regole di fede che di quelle liturgiche e di disciplina. Come ha scritto Jean Gaudemet a conclusione di un suo grande affresco: «Il diritto romano permette alla comunità cristiana di organizzarsi in società. Questo servizio proseguirà durante i secoli. Esso farà della Chiesa cattolica, in certo senso, la più autentica erede dell’impero romano». Si può sviluppare questa visione in bianco o in nero ma non mi pare si possa respingere: negli ultimi decenni (senza volere abbandonare il terreno storico è bene liberarsi di scenari ingannevoli) si è pensato molto spesso, superficialmente, di poter riformare la Chiesa liberandosi di una scorza esterna costantiniana senza riflettere su questa osmosi più interna (5).

L’autore si diffonde esemplificando l’infiltrazione nel linguaggio teologico e canonico di concetti e vocabolario che risalgono ad altri mondi. Basti l’esempio di Tertulliano che utilizza la terminologia militare applicandola ad aspetti ecclesiali:

l’uso del temine sacramentum (preso dal giuramento militare) è particolarmente significativo insieme alla trasposizione nel linguaggio religioso dei termini di milizia, ordine (per la definizione del corpo sacerdotale), autorità, disciplina, ufficio ecc.” (6).

Un ulteriore passaggio è utile a mettere in luce lo sbilanciamento sul fronte del potere che esplode in particolare nel secondo millennio, nel quale si sono consumate le grandissime lacerazioni, prima con lo scisma tra l’oriente e l’occidente cristiano e poi in Europa con la riforma protestante.

b) Centralità della potestas nella chiesa in occidente

L’esperienza dell’espansione cristiana anche ai popoli “barbari” attesta che avveniva a partire dai prìncipi, cioè da chi esercitava il potere. I popoli, bene o male seguivano la via di chi li comandava. La recezione del cristianesimo da parte dei potenti era una garanzia della conversione dei popoli loro sottomessi. D’altra parte il modello che si era sviluppato con successo da Costantino in poi, fondato sulla saldatura tra trono e altare, non poteva che apparire la via maestra, se non l’unica, per estendere la conversione al cristianesimo.
La questione del potere divenne centrale sia nell’organizzazione interna della chiesa, sia in riferimento al mondo esterno. Il problema che si pone, e che avrà una notevole influenza nei secoli successivi, è la prosecuzione e la sistematizzazione di un impianto giuridico con attribuzione di poteri, anche nell’ambito della vita della chiesa, che non facevano riferimento al vangelo. Tanto che si arrivava a rovesciare la logica evangelica nel suo contrario. Un potere che anche per governare i processi interni, ad esempio le relazioni tra chierici e laici, doveva superare i limiti che si trovano nel messaggio evangelico, ricorrendo a modelli mondani tipici del potere secolare. In proposito, si può cogliere con chiarezza questa logica come si presenta nel testo di Graziano nel commento sotto riportato (7).
Il risultato era un ibrido tra Dio e Cesare. Una forma di “manipolazione genetica” che si infiltrava nella exusìa che nella chiesa veniva esercitata a nome di Cristo, con concezioni e pratiche del potere che provenivano da impostazioni mondane. Diventava così impraticabile il discorso della povertà di Gesù di Nazareth come applicabile alla chiesa stessa che continuerà ad essere praticata nella chiesa come virtù privata, mentre la dimensione del servizio verrà confinata nell’ambito dell’ascesi. “Ecclesia non est ancilla, sed domina”: era il motto di Gregorio VII che scolpisce nel marmo questa concezione del potere, l’esatto contrario del principio evangelico: “non ministrari, sed ministrare”. Un mio amico recentemente mi faceva notare che, ancor oggi, la seconda carica gerarchica nella chiesa si chiama “segretario di stato”, mentre il successore di Pietro coincide con la figura di capo di stato.
Non è possibile analizzare oltre questo lungo processo. Possiamo comunque dire che per tutto il secondo millennio rimase permanente questo sbilanciamento interno alla chiesa stessa con le relazioni plasmate in termini di potere e di diritto societario. Ancora all’inizio del XX secolo così Pio X nell’enciclica Vehementer nos ribadiva in maniera secca le relazioni interne della chiesa, definita come società:

«una società costituita da due ordini di persone, i pastori e il gregge». I primi, che detengono tutta l’autorità ecclesiastica, hanno il dovere di dirigere ‘la moltitudine’; ne segue che è «dovere della moltitudine […] di lasciarsi governare e di seguire docilmente le direttive dei capi» 5.

Questa impostazione rimase dominante sino al nuovo pensiero introdotto con il magistero del Vaticano II. E certo non possiamo dire che essa abbia subito, a tutt’oggi, un vero tramonto.

c) Agli inizi della mondializzazione

Sulla figura del pontefice romano avvenne un’impressionante concentrazione di potere, sviluppato su tutti i fronti. Si affermava la plenitudo potestatis del vicario di Cristo “con il dovere di comandare non a un solo popolo, ma a tutti” .
Nel XV secolo il processo di mondializzazione iniziava la sua corsa con la scoperta dei nuovi mondi da parte degli stati europei. In questi nuovi orizzonti che si aprivano, la concezione del potere, rivendicata dai papi dell’epoca, trovava enormi possibilità di applicazione. Tra i tanti documenti che si possono addurre, mi riferisco alle Bolle che vanno da Niccolò V ad Alessandro VI che in nome dell’autorità divina assegnano ai re cattolici tutti i territori scoperti. Riporto due esempi, tra i molti citabili:
Di Nicolò V riporto un passo della bolla Romanus Pontifex del 1455 nella quale concede al re del Portogallo

la piena e libera facoltà di debellare e soggiogare ogni sorta di saraceni, pagani e nemici di Cristo comunque organizzati, di invadere e conquistare i regni, i ducati, i domini, i possessi, i beni mobili e immobili in qualunque modo da essi detenuti, di ridurre in servitù perpetua le loro persone, i loro regni, i loro beni e di attribuirli a sé e ai propri successori.

Dopo la scoperta delle nuove Indie, Alessandro VI inviò sei lettere apostoliche per l’assegnazione dei territori. Ecco uno stralcio dell’Inter cetera del 1493:

«Di nostra iniziativa, non dietro la richiesta vostra o di altri per voi, per nostra pura liberalità, con sicura conoscenza e con la pienezza dell’autorità apostolica, doniamo e assegniamo in perpetuo, secondo il tenore della presente, a voi e ai vostri eredi e successori (re di Castiglia e Leon), per l’autorità di Dio onnipotente, a noi concessa nella persona di san Pietro e per quella di vicario di Gesù Cristo che ricopriamo sulla terra, tutte le isole e terre trovate e da trovare, scoperte e da scoprire, nella parte verso occidente e mezzogiorno delimitata da una linea tracciata partendo dal Polo Artico, o settentrionale, giungendo al Polo Antartico, o meridionale, sia che quelle terre e isole trovate o da trovare siano dalle parti dell’India sia che siano da qualunque altra parte. […] Ve le doniamo e assegniamo con tutti i loro domini, città, castelli, luoghi e ville, diritti, giurisdizioni e pertinenze.
Facciamo rigida proibizione a qualunque persona investita di qualsiasi titolo, persino imperiale o regale, di qualunque stato grado ordine o condizione, sotto pena di scomunica latae sententiae di non osare recarsi per commercio o altri motivi, senza speciale permesso vostro e dei vostri eredi e successori, alle isole e terre trovate o da trovare…».

L’autore da cui riprendo il testo aggiunge: “Gli indigeni, spogliati della loro umanità, vengono equiparati a res nullius, a prede di guerra”. Tramonta la legge del Vangelo – denuncia Erasmo da Rotterdam – trionfa il diritto romano, il diritto del più forte, anzi la prassi «barbarica» (9).
Questa assegnazione del dominio su tutte le terre scoperte e da scoprire evoca la memoria della terza tentazione diretta al messianismo di Gesù che troviamo nella narrazione di Matteo (la seconda in quella di Luca): “Gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò…»”  (10).
Chi non vede nelle tentazioni di Gesù un chiaro avvertimento rivolto alla chiesa?
Qui, come in altri casi, non si tratta solo dei “peccati dei figli della chiesa” per i quali c’è da chiedere perdono (secondo la dizione spesso utilizzata da Giovanni Paolo II), ma di una aberrazione strutturata in dottrina, una ideologia del potere fondata sul divino che porta in sé la dismisura e l’assenza di ogni limite, caratteristiche che nella Bibbia rappresentano la quintessenza del peccato. L’immagine di Dio e di Cristo veicolate in questi atti autorevoli, perché sempre la chiesa manifesta le loro figure, sono profondamente distorte. Quel dio che qui viene evocato e che darebbe un tale potere, assomiglia più a un idolo, a una costruzione umana, tesa a puntellare una modalità padronale. Certo non rappresenta il volto del Padre di cui parla il Gesù dei vangeli e neppure la exusìa liberante messa in opera dal Messia.
Con l’assegnazione di questo dominio, hanno dato carta bianca ai cattolicissimi re per produrre nei territori occupati quello che noi moderni chiamiamo crimini contro l’umanità.
Tutto questo, su cui, per quanto ne so, non c’è mai stata nella chiesa una vera e pubblica riflessione critica, tantomeno un ripudio di “questo magistero”, quali tracce ha lasciato, quali tossine ha introdotto nella concezione del potere nella chiesa? E soprattutto perché non ci si pone la domanda se gli “eccessi” e gli abusi nella concezione del potere qui registrati, mutatis mutandis, non abbiano ancora una certa permanenza? Non c’è una “purificazione della memoria” da attuare non solo sugli effetti, ma anche sulle matrici ideologiche, giuridiche e teologiche, che hanno portato a queste distorsioni? L’amore alla verità, la sequela doverosa sullo stile di Gesù non dovrebbe indurre a proseguire sul cammino che il Vaticano II aveva intrapreso?

Che è successo al Vaticano II?

Il concilio promosso da Giovanni XXIII ha un carattere unico rispetto a tutti i concili precedenti. Qui posso solo alludere ad alcuni elementi che costituiscono la unicità di questa “nuova Pentecoste”.
Innanzitutto interessa mettere in luce la novità del linguaggio utilizzato, molto diverso da quello adottato nei concili fino al Vaticano I, configurato sul modello romano, i cui generi letterari esprimevano un potere esercitato sui sudditi.
Un tale stile era ancora presente negli schemi predisposti dalle commissioni preparatorie a capo delle quali stavano in tutte, eccetto una, i cardinali, prefetti di una congregazione di curia. Tutti i documenti presentati in aula, eccetto quello sulla liturgia, furono respinti dalla grande maggioranza dei padri conciliari. Un evento veramente inaudito perché in questo modo non solo la maggioranza non condivideva la formulazione attuata su un tema o su un altro, ma di fatto respingeva un modello secolare che dal quarto secolo era rimasto in vigore sino al XIX secolo.
Ora, il Vaticano II respinse implicitamente proprio questo modello e, così facendo, ridefinì la questione circa la natura del concilio. Fu un cambiamento di enorme importanza, le cui conseguenze sono rimaste in buona parte inesplorate, e questa disattenzione è uno dei fattori che hanno prodotto confusione e dissenso riguardo all’interpretazione del Concilio stesso  (11).
La cosa curiosa è che il sinodo romano tenuto nel 1960, che veniva considerato una sorta di prova di quello che sarebbe stato il Vaticano II, promulgò 755 canoni a differenza del concilio inaugurato nel 1962, che non ne emanò nessuno. Una pagina dello storico americano più volte citato racconta in positivo le caratteristiche linguistiche che hanno preso corpo nell’ultimo concilio:

Al pari dei generi usati tradizionalmente dai concili, la manifestazione più concreta del carattere del Vaticano II, e insieme una chiave importante per interpretare il suo significato, è il vocabolario che adotta e promuove. Il vocabolario è particolarmente significativo nel Vaticano II. Quali parole usa il concilio? Parole nuove per un concilio, parole che non si possono accantonare distrattamente o considerare alla stregua di soprammobili. Difatti, troppo insistente, caratteristico e diffuso è il loro utilizzo. Nell’insieme alludono a un rinnovamento delle priorità morali e religiose, e puntano a un significativo discostamento dalle espressioni lessicali usate dai concili precedenti.
Sebbene le parole usate possano essere suddivise in categorie, quali parole orizzontali, di eguaglianza, di reciprocità, di interiorità, di cambiamento, tuttavia esse permangono strettamente imparentate tra di loro, e impregnano il Vaticano II di una unità nuova e singolare tra tutti i concili. Sono parole che esprimono un orientamento complessivo, una coerenza nei valori e una prospettiva che differiscono sensibilmente da quelli dei concili precedenti e, certamente, dalla maggior parte dei documenti ecclesiastici ufficiali emanati fino ad allora. Il Vaticano II è un evento linguistico.
Tra le altre, nel corpus del concilio troviamo parole come fratelli e sorelle, popolo di Dio, amicizia, cooperazione, collaborazione, libertà, sviluppo, evoluzione, carisma, dialogo, collegialità, coscienza, mistero e santità. Un semplice accoppiamento dei modelli implicati da questo vocabolario con quelli di cui prende il posto o che cerca di bilanciare, esprime il significato dello stile di discorso del concilio: da comando a invito; da legge a ideale; da definizione a mistero; da minaccia a persuasione; da coercizione a coscienza; da monologo a dialogo; da governare a servire; da verticale a orizzontale; da esclusione a inclusione; da ostilità ad amicizia; da ricerca della colpa ad apprezzamento; da rivalità ad associazione; da sospetto a fiducia, da statico a dinamico; da modificazione del comportamento ad appropriazione interiore dei valori.
I valori che queste parole esprimono sono comuni e tradizionali nel discorso cristiano, ma sono nuovi per un concilio. Nel promuovere questi valori, il Vaticano II tuttavia non li considera assoluti, poiché nessuna istituzione, per esempio, può includere tutto. Ma nell’insieme, queste parole esprimono la portata di uno stile nuovo e di un nuovo modus operandi della Chiesa, che, stabilito con forza, il concilio additò alla contemplazione, ammirazione e realizzazione (12).

Dunque il Vaticano II è un evento linguistico. Rappresenta uno stile nuovo per un concilio, un modo di parlare che si colloca sul terreno del dialogo: “ad intra e ad extra” della chiesa cattolica. I tentativi di ridurne la portata dicendo che è stato un “concilio pastorale” e non “dottrinale” non colgono nel segno. In realtà “è stato giustamente definito ‘pastorale’ perché mira a rendere attraenti gli ideali cristiani… Il cambiamento di stile implica un cambiamento di sistema di valori… Imparare un linguaggio nuovo fino a viverlo autenticamente, implica una trasformazione interiore” (13). È un concilio unico e porta in sé uno stile che esprime l’intenzionalità dialogica. A conferma elenchiamo una serie di elementi che oggettivamente costituiscono una marcata differenza rispetto alla rigida continuità rivendicata dal cattolicesimo tridentino:

  • Un concilio effettivamente universale, rappresentativo di tutta la chiesa, come mai prima era avvenuto. Sia pure in proporzioni diverse, erano presenti tutti i continenti

  • La presenza ufficiale di teologi che fino al qualche anno prima avevano subito condanne (De Lubac, Chenu, Congar, Rahner…)

  • Il ruolo dei media

  • Il concilio è diretto non solo al clero, ma a tutta l’umanità

  • Gli osservatori non cattolici invitati in qualche modo ebbero un’influenza negli stessi dibattiti

  • La presenza di un gruppo di ventitrè donne come uditrici

  • Il cambiamento di stile nelle celebrazioni liturgiche, l’uso della lingua volgare e la spinta al cambiamento che incontrò recezione e iniziativa nelle comunità cattoliche

  • Il ritorno alle Scritture e ai padri (ressourcement)

  • L’esortazione ad accostare e studiare la Bibbia, dopo secoli di allontanamento in funzione antiprotestante

  • La categoria di Popolo di Dio, i cui singoli membri godono di una intrinseca dignità nativa che precede le concretizzazioni dei ministeri e dei carismi

  • L’uso della parola fratelli nei confronti degli altri cristiani prima definiti eretici o scismatici

  • Il decreto sulla libertà religiosa come realtà che fa parte della dignità dell’essere umano e che deve ricevere un riconoscimento, fino allora qualificata come “deliramentum

  • Si interrompe la condanna ribadita dal magistero precedente della separazione tra chiesa e stato, in funzione di uno stato confessionale cattolico come ideale da perseguire.

A chiusura di questi brevi cenni, sostiamo un attimo su una nota parabola evangelica che, nel lungo cammino della storia della chiesa, è stata soggetta a un utilizzo che ne ha rovesciato il senso: la parabola della zizzania. Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa viene così inserita: “Conoscendo che la zizzania è stata seminata col grano, comandò di lasciarli crescere tutti e due fino alla messe che avverrà alla fine del tempo (Mt 13,30.40-42)” . Poco prima, citando ancora Matteo, la dichiarazione dice “Cristo, che è Maestro e Signore nostro, mite e umile di cuore (11,29), ha invitato e attratto i discepoli pazientemente (11,28-30)”. Immediatamente dopo la citazione della parabola, il documento ritorna ancora sullo stile di Gesù: “Non volendo essere un Messia politico e dominatore con la forza, preferì essere chiamato Figlio dell’Uomo che viene «per servire e dare la sua vita in redenzione di molti» (Mc 10,43). Si presentò come il perfetto Servo di Dio che «non rompe la canna fessa e non ammorza il lucignolo che fuma» (Mt 12, 20”)  (14).
ll Vaticano II è l’unico concilio che della parabola fornisce un’interpretazione corretta su un tema fondamentale quale è l’approccio al male presente nella chiesa e nel mondo. Nel corso della storia, invece, la prescrizione dei concili era quella di procedere allo sradicamento immediato della zizzania, identificata negli eretici che dovevano essere chirurgicamente asportati anche con la forza. Ricordiamo ad esempio la strage di Béziers nella lotta contro gli Albigesi. Il compito affidato all’istituto dell’Inquisizione era stato identificato nello «sradicamento della zizzania nel campo del Signore». Si era anche arrivati a identificare nell’eresia il crimen lesae maiestastis che prevedeva la condanna a morte. Come pure a identificare il giudizio ecclesiastico espresso nella storia con la messe finale e il giudizio ultimo. L’immagine della zizzania, estrapolata dalla parabola, è servita non solo a stigmatizzare le forme ereticali, ma anche semplicemente i dissensi interni alla chiesa.
Può essere illuminante l’annotazione di don Pino Ruggieri:

La parabola appare come il catalizzatore di una serie indefinita di problemi che si pongono alle chiese nell’esperienza quotidiana della persistenza del male, per cui esse sono inevitabilmente costrette a misurarsi con essa, già a partire dalla comunità di Matteo […].
All’interno del Nuovo Testamento dobbiamo registrare già la differenza tra due diversi atteggiamenti di fronte all’incombenza del male, alla sua «resistenza» all’azione messianica di Gesù e dei suoi discepoli e a quella della comunità ormai strutturata.
Rispetto a questa situazione duale, presente già agli inizi della via cristiana, il vero segno di novità sembra invece introdotto dall’uso della violenza (sia essa «mitigata» o estrema) nella pratica dell’esclusione che, a partire dal IV secolo, implicava necessariamente il ricorso al potere dello stato” (15).

Nella dichiarazione Dignitatis Humanae si afferma la libertà religiosa come diritto umano fondamentale e universale. Il contenuto di tale diritto consiste nell’immunità da qualunque coercizione in materia religiosa: nessuno può essere costretto e nessuno può essere impedito. Il fondamento si trova nella dignità della persona stessa e non nel diritto positivo, statale o ecclesiastico, che può soltanto riconoscerlo, non fondarlo. Questa posizione va oltre il principio di “tolleranza” per chi è su posizioni diverse, religiose o non religiose. È il punto di arrivo dopo secoli di lotte interne al mondo cristiano che hanno insanguinato l’Europa. Rappresenta una cesura netta rispetto a quella lunghissima tradizione che prevedeva l’alleanza tra trono e altare con l’uso della forza in difesa della “vera religione”.

Gesù Cristo e la chiesa: tête à tête

Al n. 8, capoverso 308, della Lumen Gentium, la costituzione dogmatica sulla chiesa, troviamo un passo fondamentale, però raramente citato. Si regge su un confronto, ribadito per tre volte. Nei primi due la formulazione avviene in questo modo: “Come Cristo… così la chiesa”, il terzo così si esprime “ma mentre Cristo… la chiesa…”. Nell’insieme si possono così sintetizzare con le parole di J. Dupont:

Questo modo di considerare il mistero della Chiesa partendo dal mistero di Cristo è uno dei tratti caratteristici della Costituzione; non c’era modo migliore, e più profondo, per affrontare il problema della povertà come si pone e deve essere posto alla Chiesa […]. Rassomigliare a Cristo è, per la Chiesa, la norma suprema ” (16).

Ecco, “rassomigliare a Cristo è, per la chiesa, la norma suprema”! Questa non è una tra le tante cose da mettere in fila con le altre, ma è l’asse, il criterio base, l’ottica di fondo dei ragionamenti. Per metterci su questa linea, prenderò in considerazione i tre parallelismi che sono in successione, ma seguendo l’ ordine inverso.

1. “Ma mentre Cristo, «santo, innocente, immacolato» non conobbe il peccato, e solo venne allo scopo di espiare i peccati del popolo, la chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza, il suo rinnovamento”.
Il testo sottolinea la differenza tra Cristo e la chiesa, differenza incolmabile, ma che indica un movimento e un percorso che porti alla maggiore somiglianza possibile, all’assunzione del suo stile. Il che vuol dire che purificazione, penitenza e rinnovamento debbono appartenere alla quotidianità e non solo alle occasioni straordinarie. Attenzione, si parla della chiesa, non solo dei singoli nella chiesa, non solo dei “figli della chiesa” com’era solito dire Giovanni Paolo II. Commentando questa parte della Lumen Gentium Karl Rahner afferma:

Ci viene dichiarato esplicitamente che la Chiesa è «semper purificanda» (n.8), che essa «poenitentiam et renovationem semper prosequitur» (n. 8), che essa ancora «seipsum renovare non desinat» (n.9); il che include certamente per lo meno un rinnovamento morale perché, stando al contesto, la Chiesa proprio con queste sue azioni rimane la Sposa degna e fedele del Signore. Ora, la Chiesa non potrebbe essere soggetto di tale rinnovamento e di tale purificazione di se stessa, se essa in un certo senso non fosse stata in precedenza anche soggetto di peccato e di colpa, e rispettivamente non lo fosse tuttora”  (17).

In uno studio comparso per la prima volta nel lontano 1947 lo stesso autore diceva:

Se la chiesa è un’entità reale e i suoi membri sono peccatori eppur restano suoi membri quantunque oberati dal peccato, allora è e resta anch’essa peccatrice… Che la chiesa sia peccatrice è una verità di fede, non un dato primitivo di esperienza”…
“I rappresentanti ufficiali della chiesa… possono essere peccatori, ed effettivamente lo sono stati e lo sono tuttora in modo molto vistoso. Una volta ammesso questo risulta ancora più lampante che la chiesa concreta (ripetiamo: la chiesa è tale solo in quanto concreta!) è davvero peccatrice. È infatti evidente che tali peccati non si limitino ad agire solo nel settore «della vita privata» di questi uomini di chiesa, ma possono invece sconfinare quanto mai largamente anche nel campo concreto della loro azione di rappresentanti ufficiali della chiesa” […].
“La Chiesa deve costituire la manifestazione della grazia e della santità di Dio nel mondo, deve essere il tempio dello Spirito Santo. Invece, nella Chiesa, i peccatori trasformano questa sua fisionomia in un’espressione della malvagità del loro cuore, in una «spelonca di ladri» 
(18).

Se è così, allora fa parte della testimonianza cristiana, in capite et in membris, l’umile riconoscimento della propria condizione strutturale di bisogno di perdono. Questo atteggiamento dovrebbe prendere il posto di quell’insistita apologetica difensiva che tende a occultare o a minimizzare questi aspetti della chiesa, magari rovesciando sugli altri le responsabilità.

2. “Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre «ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”.
Penso che il commento migliore a queste parole lo possiamo trovare nel protagonista che ha posto al centro del concilio la relazione della chiesa con i poveri. Papa Giovanni XXIII, l’ispiratore e l’iniziatore di quella che lui ha chiamato “una nuova Pentecoste”, colloca la più alta espressione della chiesa, quale è il concilio, dinanzi al teatro del mondo intero, guardato a partire da quella parte di mondo dominata dalla penuria e povertà, nel senso di miseria.
Un mese prima dell’apertura dell’assemblea conciliare, nel messaggio radiofonico diretto ai fedeli di tutto il mondo, affermava: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”. La vera universalità, cioè il rivolgersi a tutti, avviene a partire da quell’umanità defraudata e sofferente che è la prima destinataria della presenza messianica di Gesù. “La chiesa si presenta e vuole essere”: una chiesa non autoreferenziale ma che assume la relazione con quell’umanità dei “paesi sottosviluppati”, come si chiamavano allora, quale punto di riferimento privilegiato al suo “voler essere la chiesa di tutti e in particolare la chiesa dei poveri”. Il “voler essere” indica l’assunzione di un processo di trasformazione di tutta la chiesa.
Nel giorno di apertura del concilio, riprese il discorso in questi termini: “Al genere umano, oppresso da tante difficoltà, essa, come Pietro al povero che gli chiedeva l’elemosina, dice: “Io non ho né oro, né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo Nazareno levati e cammina” (At. 3, 6). Ancora la platea evocata è universale: l’interlocutore è “il genere umano oppresso da tante difficoltà”, nella figura di un povero storpio fin dalla nascita al quale Pietro, che non possiede né oro né argento, dona l’unica cosa che ha: la parola messianica di Gesù connessa con un incontro reale sottolineato dagli sguardi dei protagonisti  (19).
Perché papa Giovanni, nel momento inaugurale del concilio rimanda direttamente tutti i padri conciliari a quella narrazione primordiale, collocata immediatamente dopo la Pentecoste, cioè dopo l’inaugurazione della chiesa? L’intera storia della chiesa, che papa Roncalli conosceva bene, che sfocia nel concilio da lui voluto, in faccia a tutta l’umanità, viene rimandata a specchiarsi in Pietro e Giovanni che incarnano l’azione messianica.

3. “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «che era di condizione divina… spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione”.
La chiesa viene rimandata al medesimo itinerario di Gesù, alla modalità da Lui adottata per dare forma storica al suo potere di salvare, cioè di portare a compimento “la redenzione”. Nei vangeli troviamo la missio che Gesù stesso ha ricevuto dal Padre, alla quale ha associato gli apostoli, quindi la chiesa:

Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21)
Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18).

Ma come si deve intendere questo potere? Qui è il potere del Risorto che viene consegnato alla chiesa. Ma sarebbe una tragica illusione scindere l’esercizio di questo potere dalla modalità storica nella quale Gesù stesso ha esercitato la sua exusìa. Gesù Cristo, donando il suo potere di salvare, che il Padre stesso ha confermato per sempre in Lui crocifisso-risorto, associa la chiesa che nasce alla sua kénosi , cioè alla forma storica che in Lui ha assunto la salvezza di Dio.
La spogliazione dalla “condizione divina” per assumere la “forma di schiavo”, il farsi “povero” “da ricco che era”, questa e solo questa è la forma adottata nel suo itinerario che lo ha portato alla croce. La sua risurrezione è la conferma piena e feconda di questa logica paradossale che è il fulcro della rivelazione di Dio. Immaginare che l’exusìa del Cristo della Pasqua si stemperi o si implementi durante la storia successiva in una qualsiasi forma di “potere temporale” è una tragica illusione, del tipo di quelle suggestioni adombrate nelle tentazioni di Gesù.
Dunque il rischio che corre la chiesa e la tentazione alla quale si trova perennemente esposta è di appropriarsi indebitamente dentro la storia della gloria del Risorto, non condividendo la kénosis che è la forma storica dell’exusìa di Cristo. La stessa cristologia può essere utilizzata come strumento a sostegno di pretese di potere totalitario, rivendicato se non altro sul piano ideologico con appropriazione indebita dentro la storia della gloria del Risorto.
Ma vi è di più. La Chiesa non appartiene a se stessa: la parola, i sacramenti, il suo essere Chiesa come corpo mistico di Cristo… appartengono a un Altro.

La sua povertà è strutturale […] Quando si parla giustamente di “povertà della Chiesa” s’intende prima di tutto proprio questo “essere posseduta” prima di possedere, secondo una felice formula di S. Bonaventura riferita alla grazia: Gratia Dei est magis possideri quam possidere. La traduzione laica dell’exusìa della Chiesa è questa sua duplice povertà, quella di essere soltanto un fenomeno della storia accanto a molti altri e quella di non appartenere a se stessa. Ma è anche il suo diritto e la sua libertà di riferirsi a Cristo, al quale appartiene, senza che egli le appartenga. Il rispetto dell’altro che tutto ciò implica è la forma storica […] del rispetto dell’“assolutamente Altro”. La tolleranza e la modestia non sono esercizi supplementari per la Chiesa in cammino, ma la forma stessa della sua autentica exusìa. Il potere della Chiesa come struttura storica […] deve misurarsi con la sua povertà strutturale  (20).

L’autore si sofferma poi sulle tentazioni che possono derivare alla Chiesa nella sua condizione di povertà strutturale: la “tentazione ritualistica”, il “formalismo giuridico” e soprattutto la “tentazione cristologica” che si verifica “nell’uso della cristologia in senso ‘ideologico’, cioè ai fini del proprio potere temporale.
Penso che qui siamo arrivati al cuore del problema. Solo assumendo davvero come criterio per la Chiesa, quindi non solo per i singoli credenti o pastori, la povertà come si è realizzata e manifestata nell’esistenza storica di Cristo, è possibile apprezzare gli straripamenti del potere compiuti dalla Chiesa nel corso dei secoli, sino a oggi, con pesanti conseguenze per la testimonianza evangelica.

Una Chiesa che quindi pretendesse di adempiere per altre vie da quelle seguite dal Cristo la sua missione tra i popoli e le nazioni, non proclamerebbe il Regno e le sue esigenze. Qui va innestata l’esigenza che il “diritto” della Chiesa abbia un fondamento realmente cristologico e non societario […]. La Chiesa non può avvalersi di un diritto che ne difenda uno status contrario alla sequela di questo Gesù che essa proclama Cristo e Signore. Andrebbe perciò qui ulteriormente ripresa la determinazione della povertà ecclesiale secondo Lumen Gentium 8 (21).

Il potere di servire

Se diamo uno sguardo d’insieme su come il potere si proponga nella Bibbia, vediamo che “L’unica autorità di disporre degli altri ammessa nell’Antico Testamento, come proveniente da Dio, si esprime fondamentalmente con il diritto” (22). Il grande biblista Van Rad sostiene che nell’A.T. la giustizia è la categoria centrale che regola il rapporto con Dio, il rapporto degli uomini tra loro e perfino con gli animali e l’ambiente naturale.
Nel N.T. tale ottica, che comunque rimane decisiva, sembra svanire come se i rapporti istituzionali non avessero più grande importanza. La preoccupazione principale si concentra sulla novità del Regno di Dio annunciato da Gesù e successivamente sulla formazione delle comunità nate dalla fede pasquale. In questo orizzonte “il potere serve per servire… serve a fare l’unità, a dare figura coerente alla collaborazione tra gli uomini, a liberare la capacità di crescita implicita nel rapporto interpersonale, in quella comune impresa che è l’esistenza umana”  (23). Si registra una circolarità tra carisma e ed esercizio di autorità. Quando l’uno esclude l’altro si sfocia nell’abuso di potere.
È molto avvertita la dimensione escatologica che esprime la signoria di Cristo sulle comunità ecclesiali e su tutta la storia. Tale signoria è strettamente connessa con la primordiale memoria di Gesù. “ Il Signore è Gesù”. “Il crocifisso è il risorto”, “Vieni Signore Gesù” . Il potere evocato dal nome Gesù, o dal richiamo al crocefisso, è quello di servire. Tutto il suo potere si raccoglie nella diakonìa che la nuova condizione non sminuisce, ma esalta. La sua antica parola resta vera e confermata: “Io sono in mezzo a voi come diacono” (ὁ διαƘòνϖν). Questo ha importanti conseguenze per la chiesa:

Nella vita della Chiesa non c’è crisi peggiore di quella causata dall’autorità quando si converte in un esercizio arbitrario del potere, che svaluta l’esperienza carismatica o perché la condanna come pericolosa o perché giudica di poterla facilmente surrogare con la prudenza pastorale. L’autorità che non fa spazio alla molteplicità dei carismi diventa profana; d’altra parte il carisma che esclude il riferimento all’autorità diventa cieco. Le iniziative di politica ecclesiastica che si risolvono in pura amministrazione non rendono un servizio all’identità propria della Chiesa, la quale, nel suo mistero, non è riconducibile ad alcun gioco di forze o a meccanismi psicologici, tantomeno è banalizzarle in qualche evidenza ragionata. La Chiesa è incomparabilmente aldilà del sentimento corale di trovarsi bene assieme o di venire rassicurati e pacificati. La comunione ecclesiale è unità tra persone diverse che sono una sola cosa tra loro perché sono una sola cosa col Signore  (24).

Venendo alla stagione inaugurata dal Vaticano II, lo stile inedito per un concilio e la voglia di comunicare che si manifesta nel linguaggio utilizzato, rispetto a tutti i secoli passati, segna l’inaugurazione di un tempo nuovo per la chiesa, nonostante tutto. Però, già mentre il concilio era in corso, emersero ostacoli imponenti. Il card Lercaro, presentando a Paolo VI il dossier che era stato commissionato sulla chiesa povera, annotava l’ impossibilità di procedere oltre sul piano del pensiero teologico spirituale e della prassi. Il che per lui indicava “in quale misura il nostro pensiero, il nostro costume, le nostre istituzioni, tutto l’ambiente e la civiltà, che pur si dice ispirata al cristianesimo, si sia per secoli e secoli allontanata dallo spirito evangelico e si sia consolidata e strutturata in forme concettuali e in modi di vita che oggi costituiscono un grave ostacolo…”  (25). Eravamo in pieno concilio!
Molte voci in questo mezzo secolo si sono levate per orientare la chiesa a relazionarsi e a trasformarsi per essere all’altezza della nuova situazione in cui si trova il mondo. K. Rahner parlava del passaggio dalla chiesa occidentale alla chiesa universale, e indicava come grande precedente il cammino che ha portato la chiesa dei giudei a farsi chiesa dei pagani; oppure pensiamo a “L’uomo planetario” di Ernesto Balducci che chiamava chiese e religioni a liberarsi delle cinture di salvataggio, per farsi carico della situazione antropologica dell’umanità e del pianeta oggi  (26).
Perché la nostra chiesa possa esibire il proprio potere di servire, dopo tanti secoli di pratica di potere slegato dal servizio, è necessario prendere in seria considerazione la parola di un grande storico della chiesa.

Metanoia per la Chiesa significherebbe identificare gli “idoli” che durante i secoli si sono insinuati sul suo orizzonte e rinunciare ad essi: dalla simbiosi con i poteri mondani e con la cultura dei ceti “alti” alla preferenza dell’autorità sulla coscienza e alla esaltazione della “gerarchia” in luogo del servizio alla comunione […]. Esercitare la metanoia implica il coraggio evangelico, e pertanto profetico, non solo di riconoscere i peccati del passato, ma anche di convertirsi  (27).

Ma qual è la situazione oggi, a mezzo secolo dal concilio? Quale “forma politica” la chiesa offre di sé?

A dispetto dei progressi del Vaticano II, la Chiesa è rimasta in una coscienza globale di se stessa come di una «società perfetta» o gerarchica, fondata su un diritto divino che regola la sua vita sacramentale, le sue istituzioni, le sue pratiche e i suoi precetti… Tuttavia, questo modello rischia di farci dimenticare che esso continua, oggi, a dire l’identità dei portatori della Rivelazione in termini di potere.

E tutto questo avviene mentre la chiesa

è sottoposta a un processo di destrutturazione senza precedenti, soprattutto nei paesi nell’emisfero nord del nostro pianeta che sono tra i più coinvolti nella storia della modernità e postmodernità  (28).

Ora la forma storica nella quale offrirsi deve, invece, correlarsi strettamente a quel “potere di servire” che appare nella figura del Gesù dei vangeli. In questo modo lui è stato ed è “luce delle nazioni”. Questa totale dipendenza viene espressa proprio nelle prime parole che aprono la costitu-zione dogmatica su la chiesa:

Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa.

L’amicizia di Dio per tutte le creature umane che traspare dal volto di Gesù nel suo farsi diacono è la stessa che la chiesa ha il dovere di offrire al mondo.

Conclusione

Ho cercato di seguire la via indicata da Congar, citata all’inizio. Una via diacronica “per fare una storia e una teologia del temporale nella chiesa”. Naturalmente è un piccolo abbozzo, ma è nel frammento che noi possiamo inoltrarci nella migliore conoscenza di quello che è vitale.
Quanto detto è un discorso parziale, ma necessario. C’è consapevolezza che sempre nella chiesa, cioè nelle comunità sparse per il mondo, in varie forme, è stata vissuta la dimensione del servizio ai più deboli. Non sono mai mancate le donne che, come la vedova del vangelo, hanno condiviso il loro poco. Quanti ministri, nella povertà e nel nascondimento hanno accompagnato le comunità nel loro peregrinare nei meandri della storia. Aggiungiamo uomini e donne che nella quotidianità del lavoro e della famiglia, hanno trasmesso il senso della vita con la parola dell’evangelo, e anche monaci e monache che hanno tentato di incarnare le beatitudini, come pure le innumerevoli persone che hanno lottato e pagato duramente l’impegno per la giustizia…
Ma era ed è necessario (dei) aprire gli occhi sulle infiltrazioni mondane di un potere autoreferenziale che si è inserito per osmosi durante i secoli, ed è tuttora perdurante nel profondo, dando alla chiesa, nel suo volto pubblico, una figura distante, se non lontana, dalla logica del vangelo.
È un discorso che rimane aperto, ma che va affrontato a tutti i livelli. Ed è urgente.

Chiudo con due indicazioni che attingo da Paolo.
Nella prima lettera ai Corinti, riferendosi alle narrazioni della Bibbia ebraica, Paolo afferma che “tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento” (1Cor. 10,11). Vorrei assumere questo testo per riferirlo all’alleanza che attraversa tutto il pensiero biblico. È impressionante la rilettura continua che Israele fa della propria storia, cercando sempre di discernere il cammino, tra ricerca di fedeltà e confessione delle infedeltà e dei fallimenti. Tale ripresa, espressa nei vari generi letterari, diventa cammino di fede che si apre al futuro promesso da “Colui che è presente”. Il Signore ricorda a Israele e Israele invita il Signore a ricordare. E così le stesse parole umane diventano il tessuto della parola di Dio che accompagna. Come nei salmi.
Ecco, mi domando, perché la storia della chiesa, che di fatto si esprime nella pluralità delle chiese, con le bellezze e anche con le cadute gravi che si sono manifestate, non diventa il luogo ove discernere la rivelazione di Dio? Perché dagli errori compiuti e riconosciuti non si va in cerca degli emendamenti che si devono fare? Con onestà intellettuale – il modo nostro di fare verità – lasciando da parte la doppiezza apologetica. Perché non si danno senso e contenuti reali ai momenti penitenziali che introducono le comunità riunite per l’Eucarestia?

Anche la seconda parola ci viene offerta nella stessa lettera paolina: “passa infatti la figura di questo mondo!” (1 Cor 7,31). Passa anche la figura storica della chiesa.
Andiamo a rileggere l’equipaggiamento leggero che Gesù richiedeva ai suoi primi testimoni quando li inviava. “Non portate con voi…”. “Chi non lascia…”. Quello che è sempre stato insegnato per le singole vocazioni, vale anche per le strutture, i simboli, le figure del potere e delle gerarchie mondane, i retaggi culturali che hanno strutturato modi di pensare. È ad esempio “l’abbandono di una visione del mondo classicista, che considera la vita umana in termini statici, astratti, immutabili” (O’ Malley).
La leggerezza vale anche per la figura del papa che deve essere liberata da quel carico storico che gli impedisce di essere e apparire come il “servus servorum Dei”, il suo titolo più nobile. Ma non potrà mai avvenire fin quando non si mette mano con decisione a quella collegialità e condivisione del potere di servire che traspare dal Nuovo Testamento nella dialettica di Gesù con i suoi e che il Vaticano II ha rilanciato. Significa abbandonare quel residuo imperiale, con tutto l’apparato di sovranità regale, che sicuramente ha ben poco da spartire con lo stile evangelico.
“Passa infatti la figura di questo mondo!”. E passano anche le figure della chiesa, eccetto il suo dovere e il debito di lasciar trasparire la luce e la forza del vangelo dentro questo mondo.

Roberto Fiorini


(1) P. Iannamorelli, Tra profezia e potere, in Pretioperai 67/2005.
(2) Y. Congar, Servizio e povertà della Chiesa, Torino 1964, pp.17-18.
(3) G. Miccoli, Figure del cristianesimo storico nella transizione al postmoderno: una lettura storica” in Pretioperai 28-29/1994, 18-19.6
(4) J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II? Milano 2013,
(5) P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto. Bologna 2000, 29-31.
(6) ivi, p. 31
(7) G. Ruggieri, Dalla povertà all’uso e alla proprietà dei beni, in Cristianesimo nella storia, febbraio 1984, 140-141.: “La chiesa, in Occidente, riformulava i propri equilibri attorno alla centralità della potestas. Dalla concezione dei sacramenti a quella dell’ordinamento interno, il concetto chiave diveniva, nel contesto della riforma gregoriana, il problema del potere. Per coloro che si opponevano ad una confusione tra sacerdote e principe, ad una riduzione del ministero ecclesiale al potere di compiere qualcosa nella chiesa, il problema della povertà ecclesiale diventava allora il luogo di verifica di una diversa immagine di chiesa da quella che la cristianità gregoriana nel suo complesso portava a immaginare.
È stato a tal proposito segnalato (G. Miccoli in Storia d’Italia, II/1,Torino 1974, 581 ss) un interessante testo di Graziano che rivela come la cristianità man mano abbia visto con chiarezza l’impossibilità di modellare solo sull’esempio di Cristo il sacerdozio cristiano e lo abbia invece riferito, con pari forza, al modello mondano del potere secolare. In quel testo (Decr. pars II causa II quaestio VII cap. XXXIX, ed. Friedberg col. 495) Graziano, per giustificare l’inabilità dei laici a condurre un’azione legale contro il clero, non esita a collocare il clero su un piano radicalmente differente da quello di Cristo: «Sebbene Cristo sia pastore delle sue pecore che pasceva con la parola e con l’esempio, tuttavia per quanto riguarda la distribuzione degli uffici (grazie alla quale oggi nella chiesa alcuni comandano agli altri e così alcuni sono chiamati prelati e alcuni sono chiamati sudditi), egli non esercitava tra quel popolo l’ufficio pastorale. Infatti dalla mistica e visibile unzione non era stato unto né per divenire re, né per ‘ divenire sacerdote, sole realtà che su quel popolo rivendicavano per sé il titolo di prelatura». Ciò che qui viene espresso con chiarezza è la introduzione nella chiesa di una dimensione giuridica del potere che non poteva appellarsi al vangelo”.
(8) J. W. O’Malley citato, p.67
(9) F. Pasetto, La Chiesa cattolica e la conquista, ECP S. Domenico di Fiesole (FI) 1992, pp. 17-19.
(10) Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». (Mt 4,8-10). Non è certo casuale che nello stesso Matteo, oltre che in Marco, proprio a Pietro Gesù rivolse il durissimo richiamo, replicando al tentativo del discepolo di farlo desistere dal suo cammino; «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16, 23).
(11) O’ Malley citato, p.46.
(12) J.W. O’Malley, Il genere letterario epidittico e un vocabolario inusuale nei documenti conciliari, in Vita monastica 247/2011, 67-70.
(13) ivi, pp. 49-50.
(14) Dignitatis Humanae, 11.
(15) G. Ruggieri, La zizzania nella chiesa e nel mondo. Interpretazioni di una parabola, in Cristianesimo nella storia, gennaio 2005, pp. 20-22. L’intera pubblicazione è dedicata al tema della parabola.
(16) J. Dupont, La Chiesa e la povertà, in Il mistero della Chiesa, Firenze 1968, p. 116.
(17) K. Rahner, La chiesa peccatrice nei decreti del concilio Vaticano II, in Nuovi saggi I, Roma 1968, 466-467.
(18) K. Rahner, Chiesa dei peccatori, in Nuovi saggi I, Roma 1968, 426-434.
(19) Conviene leggere per intero la narrazione di questo incontro dove vengono sottolineati gli sguardi che devono incrociarsi: “Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella, per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Costui, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, li pregava per avere un’elemosina. Allora, fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: «Guarda verso di noi». Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!». Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio” (At 3, 1-8).
(20) U. Derungs, Exusìa: potere e autorità; libertà e diritto, in “Servitium”, 155, 1998, pp. 26-34.
(21) G. Ruggieri, Dalla proprietà all’uso e alla proprietà dei beni, in “Cristianesimo nella Storia”, 1, 1984, p. 149-150.
(22) S. Corradino, Il potere nella Bibbia. L’autorità come servizio, Villa Verrucchio (RN) 2011, 60.
(23) Ivi, 61.
(24) Ivi, 64.
(25) G. Lercaro, Per la forza dello Spirito, Bologna 1984, 158.
(26) Padre Balducci assume come simbolo il gesto unitario di due pastori protestanti, un rabbino e un prete cattolico durante la seconda guerra mondiale. Insieme decisero, dopo che la nave colpita da un siluro stava imbarcando acqua, di donare le loro cinture di salvataggio ad altri passeggeri e, tenendosi per mano sul ponte, si sono inabissati.
(27) G. Alberigo, Chiesa santa e peccatrice, Magnano (BI) 1997, 76-77.
(28) C. Theobald, La Rivelazione, Bologna 2006, 165.
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