Convegno nazionale PO / Bergamo, 2 giugno 2012

SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA

 Bergamo 2012 (1)



L’Editore Emilio Gabrielli di Verona, presente al nostro convegno su “Servizio e potere nella Chiesa”, ci ha chiesto di poter utilizzare le relazioni e i contenuti emersi per pubblicarli. Pertanto agli atti del nostro convegno, che di seguito comunque inseriamo nel nostro sito, non corrisponde un numero cartaceo della rivista PRETIOPERAI, ma un volume di Gabrielli Editori datato maggio 2013.

 

“Vorrei una chiesa povera e per i poveri”. Sono le parole che Francesco, vescovo di Roma, qualche giorno dopo la sua elezione, rivolse alla platea di giornalisti e operatori del­la comunicazione sociale, dinanzi quindi al mondo intero. Aggiungendo che la scelta del nome era correlata al pove­rello di Assisi, “all’uomo della povertà, l’uomo della pace e l’uomo che custodisce il creato”.
I segnali che arrivano da Roma vanno in questo senso. Anche l’anello piscatorio è d’argento, ma si è presentato an­che con l’anello che portava da vescovo, mantenendo pure la croce pettorale di ferro. I momenti liturgici hanno as­sunto i sentieri della sobrietà e della riduzione all’essenzia­le. Particolari che sono stati immediatamente avvertiti dalla gente, praticante o meno. Ne trovo conferma in tante per­sone di varia estrazione e posizione religiosa. Un mio cugi­no nato e cresciuto a Roma mi ha chiamato al telefono per raccontarmi la sua percezione di un clima nuovo che si re­spira tra i romani, in riferimento agli ultimi eventi pervenuti come messaggi dal colle Vaticano.
Era dal tempo di papa Giovanni XXIII che parole tanto semplici e chiare non si udivano dalla sede romana sulla povertà della chiesa. E sono parole che colpiscono per­ché, nonostante tutto, permane l’istintiva intuizione che la chiesa non può, non deve, manifestarsi troppo diversa dallo stile di Gesù, come appare nei Vangeli, o troppo di­stante da Francesco d’Assisi, la figura che di più si è a Lui avvicinata.

Ecco, la prefazione che state leggendo viene alla luce in  questo nuovo contesto. Forse una nuova era si sta aprendo nella chiesa cattolica — almeno noí lo speriamo — e se è così, non sarà solo per essa. Avrà ricadute importanti, se non decisive, “ad intra” e “ad extra”. Gli scritti che compongono questo libro risalgono ai mesi immediatamente precedenti, mentre un clima oscuro, confuso e drammatico gravava sulla chiesa, come pure sul nostro paese. Abbiamo assistito alle degenerazioni che poteri autoreferenziali, senza la bussola del servizio al Vangelo di Gesù, hanno prodotto proprio al centro visibile della chiesa. Provocando una situazione insostenibile persino per un papa. E contestualmente, in ambito nazionale, siamo ancora immersi in una devastazione sociale che si sta sempre più accentuando. Risultato a cui ha concorso l’irresponsabilità politica, durata troppi anni, da parte di poteri privi di un benché minimo orientamento verso il bene comune, mentre era assordante il silenzio di quella parte di chiesa che accede ai mass-media.

“Servizio e potere nella chiesa” è il titolo che raccoglie i testi che compongono questo libro e che con molta libertà trattano di un tema attualissimo e di notevole urgenza. Anche papa Francesco agli inizi del suo nuovo ministero lo ha sottolineato dinanzi ai capi delle nazioni, affermando che “il vero potere è quello di servire i più deboli”. Nei contributi non troverete riferimenti alla cronaca spicciola, ma approfondimenti e abbozzi di pensiero che affondano le radici nella storia della chiesa, nel messaggio evangelico, nell’evento del Vaticano II. Portano dentro di sé un “antico sogno nuovo”: quello di una vera riforma della chiesa cattolica nel senso di una sua rigenerazione sotto l’imperativo del servizio, come segnale da offrire a tutti i popoli e nazioni, alle diverse chiese e comunioni cristiane, alle altre religioni, al mondo secolarizzato, dominato dalla finanza e dalla tecnica. Una riforma che se deve essere interiore, nel pensiero, nella spiritualità e nella parola liberata, deve incidere necessariamente e profondamente la dimensione strutturale della chiesa, pena l’inefficacia di ogni tentativo, anche sincero. Per essere concreti, possiamo citare una recente parola di Severino Dianich, pubblicata durante il breve intervallo nel quale la sede romana è stata vacante:
“Se ascoltiamo le voci di molti fedeli, e soprattutto del­le persone che non condividono la fede cattolica, i giudizi degli agnostici, degli atei, dei molti «cristiani della soglia», siamo portati inevitabilmente a mettere in discussione al­cuni aspetti eclatanti del volto pubblico della Chiesa, che rendono difficile per gli uomini scorgervi il volto dell’umiltà e della povertà di Cristo come, per esempio, la personalità giuridica internazionale della Santa Sede, l’esistenza di uno Stato della Chiesa, sia pure di dimensioni simboliche che la pongono sullo stesso piano degli altri importanti poteri del mondo. Per quanto pertinenti e rilevanti ragioni si possano addurre a giustificazione di questa, come di altre compo­nenti di carattere «mondano» dell’attività ecclesiale, resta il fatto doloroso di dover constatare che coloro a cui desi­deriamo con tutto il cuore proporre la fede in Gesù, vi tro­vano di fatto un inciampo invece che un aiuto” (Il Regno, Supplemento 3/2013, 12).

Quello che in passato è stato strappato con la forza, i ter­ritori del vecchio Stato pontificio, con un impoverimento che i papi stessi, a distanza di tempo, hanno valutato come una liberazione in funzione del ministero petrino universa­le, ora va applicato al resto del temporalismo imperiale an­cora presente. Occorre trovare la forza di abbandonare per amore di Gesù Cristo che “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9) quello che nessuna ragione umana mai consi­glierebbe di lasciare.
Ormai l’equipaggiamento leggero che Gesù prescriveva a coloro che inviava in suo nome ad annunciare la parola, non riguarda più solo i singoli o le piccole comunità, ma la chiesa intera nella sua visibilità. Nessuno crede più a una povertà interiore che non si traduca anche in un volto ester­no, visibile e constatabile, che diventi effettiva condivisione della condizione in cui vive la maggior parte dell’umanità e in particolare le masse dei più poveri.
La figura di Pietro, che nei secoli è stata caricata oltre misura di poteri e di forme visibili non riconducibili al servizio, per esprimere un simbolismo evangelico deve necessariamente sottoporsi a un processo di spoliazione, in analogia a quanto Paolo dice di Gesù Cristo nella lettera aí Filippesi (2,1-11). E questo non riguarda solo la persona del papa, ma il concetto di sovranità che l’accompagna, la forma giuridica assunta nel tempo, con tutto l’apparato di poteri cresciuto attorno, i potentati costituiti all’ombra di S. Pietro che si esprimono come dominio anche nei confronti delle chiese locali. È sempre più necessaria l’attivazione di una collegialità episcopale reale, e non solo consultiva, quale espressione della chiesa universale, presente nei cinque continenti, con le pluralità che la connotano, come già era apparso nel Vaticano II. Così pure, senza la promozione di processi sinodali autentici nelle chiese locali come comunione di persone diverse, e che tali rimangono e si riconoscono, perché l’unità avviene in Cristo e solo in Lui, di fatto rimarrebbe oscurata la relazione di fraternità, categoria fondamentale del Nuovo Testamento.
Questo suppone che il secondo capitolo della Lumen Gentium, che fonda teologicamente la dignità dei cristiani, donne e uomini, trovi finalmente uno sviluppo reale e compiuto nel pensiero e nella prassi ecclesiale. A tutt’oggi rimane ancora vero quanto scrive C. Théobald parlando della forma politica della chiesa:
“A dispetto dei progressi del Vaticano II, la Chiesa è rimasta in una coscienza globale di se stessa come di una «società perfetta» o gerarchica, fondata su un diritto divino che regola la sua vita sacramentale, le sue istituzioni, le sue pratiche e i suoi precetti… Tuttavia, questo modello rischia di farci dimenticare che esso continua, oggi, a dire l’identità dei portatori della Rivelazione in termini di potere” (La rivelazione).
Contestualmente, anche il problema dell’unità della chiesa di Cristo, più che mai urgente in un mondo globalizzato e interreligioso, rischia di arenarsi nell’impossibilità di orientarsi verso forme visibili e condivise.

In questo libro si potranno intravedere almeno alcune delle ragioni che rendono ardua l’impresa di immaginare una chiesa povera, una chiesa il cui potere coincida con il servizio e possa apparire effettivamente come “il potere di servire”, quello che in effetti Gesù le ha consegnato. Lo stesso Vaticano II ha rinunciato a proporre la chiesa come societas perfecta per presentarla come mistero, il cui volto è illuminato dall’unica luce che è il Cristo stesso, luce delle genti (Lumen Gentium, 1).
La rassomiglianza non è, né può essere, una variabile dipendente da altri fattori, ma è la stessa ragion d’essere della chiesa e quindi la sua norma suprema. È l’interpretazione dí uno dei giovani biblisti che ha partecipato come esperto al Concilio:
“Questo modo di considerare il mistero della Chiesa partendo dal mistero di Cristo è uno dei tratti caratteristici della Costituzione; non c’era modo migliore, e più profondo, per affrontare il problema della povertà come sí pone e deve essere posto alla Chiesa […]. Rassomigliare a Cristo è, per la Chiesa, la norma suprema” (J. Dupont).
È questa la condizione per presentarsi dinanzi alle genti, e in particolare “in faccia ai paesi sottosviluppati”, per utilizzare le ipsissima verba pronunciate da papa Giovanni all’alba del Concilio, con un volto evangelicamente riconoscibile. Su tale linea, possiamo collocare le recenti affermazioni di papa Francesco che vanno a completare e sviluppare quelle precedentemente citate del “potere come servizio”, sottolineando l’urgenza del momento. “Custodia”, “custodire” sono espressioni da lui usate ben 28 volte, dinanzi ai potenti della terra presenti alla Messa inaugurale. Indicano la relazione da assumere in rapporto all’ambiente, agli altri e ai più deboli. Accentuazioni presenti in particolare nella spiritualità francescana. E vengono rivolte alle personalità presenti che esercitano il potere: “Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico e sociale, a tutti gli uomini e donne di buona volontà: siamo custodi della Creazione, del disegno di Dio iscritto nella na­tura, custodi dell’altro e dell’ambiente. Non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo”.
Certamente quelli che arrivano sono segnali importanti. Ma è bene non illudersi. È la storia della chiesa che ci im­pone di non cadere in facili entusiasmi. Nelle pagine che se­guono possiamo vedere con quale estensione e profondità le degenerazioni del potere e le concezioni che nulla hanno a che vedere con la logica evangelica, si sono infiltrate po­nendo radici nel tessuto profondo della chiesa. Già nei testi del Nuovo Testamento incontriamo le tentazioni del pote­re, come riproduzione dei costumi di dominio compiuti dai “governanti e capi delle nazioni” (Mc 10,42). Un’ osmosi rovesciata, rispetto alla luminosità evangelica che deve ri­flettersi sul volto della chiesa.

Penso occorra ripartire da quel lavoro commissionato da Paolo VI, ma rimasto chiuso negli archivi, concretizzato nel dossier «Appunti sul tema della povertà nella Chiesa» che il card. Giacomo Lercaro nel novembre del 1964 aveva inol­trato al papa. Era il risultato di un impegno alacre di vesco­vi e teologi presenti al concilio che si incontravano regolar­mente al Collegio belga sul tema della povertà della chiesa (la partecipazione era arrivata a più di 50 vescovi e 30 teolo­gi esperti conciliari). Nella nota di presentazione il cardina­le, esprimendo il pensiero del gruppo di lavoro sottolinea­va: “In quale misura il nostro pensiero, il nostro costume, le nostre istituzioni, tutto l’ambiente e la civiltà che pur si dice ispirata al cristianesimo, si sia per secoli e secoli allontanata dallo spirito evangelico e si sia consolidata e strutturata in forme concettuali e in modi di vita, che oggi costituiscono un grave ostacolo…” (G. Lercaro, Per la forza dello Spirito).
E si dovrebbe riprendere in mano anche il documento profetico, praticamente sconosciuto, del cosiddetto “Patto delle catacombe” sottoscritto da 40 vescovi che si ritrova­rono insieme, nel novembre del 1965, a celebrare l’eucare­stia nelle catacombe dí S. Domitilla e a formalizzare il loro “voto” di condurre una vita povera e di porre i poveri al centro della loro attività pastorale. Presentato anche questo a Paolo VI dal card. Lercaro, e successivamente sottoscritto da 500 vescovi padri conciliari, di fatto è scomparso dalla circolazione e affondato nel silenzio (è stato di nuovo pub-blicato recentemente su Il Regno Attualità 2/2013). Se davvero si vuole ripartire dal concilio, per svilupparne le potenzialità, non è possibile prescindere da queste riflessioni che propongono davvero un salto qualitativo nella ridefinizione in chiave evangelica del volto della chiesa da offrire al mondo.

Ora una breve presentazione dei capitoli del libro

Giovanni Miccoli, storico della chiesa, offre un denso profilo storico dell’articolazione dei due termini potere/servizio che nel linguaggio ecclesiastico si presentano come diakonìa/ministerium e potestas/auctoritas. Nella chiesa occidentale la riflessione si addensa sul vescovo di Roma, sullo sviluppo della plenitudo potestatis e sulla coesistenza drammatica dei due termini — potere e servizio — soprattutto in riferimento al messaggio evangelico da portare e diffondere. Rimane di piena attualità la domanda posta a conclusione della riflessione: “Resta più che mai aperta la questione che la vicenda storica di cui ho proposto alcuni tratti ha lungamente deformato e rimosso: come trovare e realizzare un linguaggio, un modo di essere e di porsi delle strutture ecclesiastiche, che sia in sintonia, non in contraddizione, con il linguaggio e le prospettive del messaggio di cui si pretendono depositarie e portatrici”?

Segue l’intervento del gesuita Felice Scalia che riprende la tematica in chiave teologico-spirituale. Parlando del potere come problema afferma: “C’è una grande verità nella vita: o creare un proprio sistema di vita e acconsentire alla vita con tutto noi stessi, o sottostare al sistema di un altro e vivere gli interessi di chi ci domina”. Nella storia, con inquietante ricorrenza, appare che la paura della libertà indu­ce ad affidarsi alle mani di potenti in cambio di protezione, minoranza che sfrutta questa autoconsegna per consolidare i propri privilegi, Il potere, nella sua ambiguità, è problema che tocca direttamente Gesù e la chiesa. Gesù lo ha eser­citato esclusivamente come servizio, anzi come unico eser­cizio legittimo (Gv 13). Ma qual’è il rapporto della chiesa col potere? E come si configura il potere dentro la chiesa? “Qualcuno pensa che dalla sopraffazione del ‘potere-do­minio’ sul ‘potere-servizio’ non si possa uscire. Ma vi sono uscite di sicurezza? E dopo 50 anni dal concilio: proposta di speranza o fallimento del cristianesimo?” Rimangono co­munque dei sogni nel popolo dì Dio che pongono al centro “la salvezza dell’uomo offerta dal vangelo”.

Rosanna Virgili, teologa e biblista, concentra la riflessio­ne a partire dal vangelo di Marco, in particolare sofferman­dosi sul testo 10,42-45. Vi è netta contrapposizione tra il dominio esercitato da chi sta in su e I’exusìa che Gesù eser­cita collocandosi in basso. Nella dialettica tra Gesù e i di­scepoli, catturati da un’ideologia messianica del trionfo, è già presente quello che si svilupperà nella successiva storia della chiesa. Gesù venuto per servire, si presenta come dia­cono: perché ascolta, mettendosi su un piano orizzontale con gli altri trasformando Ie sue parole in parabole. Così pure deve fare la chiesa, altrimenti diventa chiesa di potere, incapace di prendere su di sé il dolore del mondo, diventan­do fine a se stessa e autoreferenziale. È una tentazione per­manente. Ritorna però insistente il richiamo di Gesù. No, “tra voi non è così. In questo modo, no”.

La riflessione del teologo Armido Rizzi ci introduce nel­la sottile, ma necessaria, distinzione tra Kérigma e dogma, sottolineando la necessità di de-ellenizzare il cristianesimo. Sviluppa l’argomentazione a partire dal discorso tenuto da Benedetto XVI all’università dì Ratisbona il 12 settembre 2006, dove in sostanza si sostiene che “il cristianesimo ha trovato la sua configurazione decisiva facendo la sintesi tra Atene e Roma. Atene per il pensiero teorico e Roma per il pensiero giuridico”. Ma allora, “il pensiero greco (quello in cui sono formulati i dogmi principali della fede cristia­na) è soltanto un pensiero, oppure è il pensiero come tale? Cioè: il pensiero greco fa parte di una certa cultura, gran­de e nobile ma relativa, oppure ha un carattere — per così dire — di eternità?” La proposta che Rizzi chiama “teologia alternativa” è quella di “pensare dentro la Bibbia” tradu­cendo fedelmente in concetti il linguaggio simbolico della Bibbia. Dunque il pensiero greco, rispetto alla presentazio­ne del Kérigma da annunciare e al fare teologia è soltanto un pensiero, una possibilità, ma non una necessità. Le conse­guenze sono rilevanti anche in considerazione dell’orizzon­te multiculturale, oltre che multireligioso, nel quale siamo immersi.

Roberto Fiorini dagli inizi degli anni ’70 fa parte dei preti entrati full time nel mondo del lavoro. Il contributo parte da una domanda di fondo formulata da Congar al tempo del Vaticano II: “In qual misura la Chiesa stessa, la Chiesa come tale, deve e può applicare le norme evan­geliche che si tende a riservare ai cristiani, in quanto in­dividui?”. Dopo un breve richiamo biblico, il discorso si sofferma sulla pesante eredità storica in cui si è consolida­ta una concezione del potere distante dall’impostazione data da Gesù e penetrata in profondità a livello teologico, giuridico e conciliare. È significativo, in questo senso, il linguaggio utilizzato nel magistero dei concili, in gran par­te derivato dallo stile imperiale ereditato dalla romanità. Il Vaticano II rappresenta un “evento linguistico” unico, per il genere letterario adottato e per il modo con cui si parla della rivelazione come amicizia di Dio verso l’uma­nità. In questo senso è una cesura rispetto al passato. La stretta correlazione tra Cristo e la chiesa stabilisce una di­pendenza per la quale essa stessa, nel suo insieme e nel suo strutturarsi deve assumere la forma storica che esprima e manifesti quel “potere di servire” che appare nella figura del Gesù dei vangeli. A partire dal ministero del successore di Pietro.

L’Editore Emilio Gabrielli chiude il volume con una postfazione. Le due figure geometriche della piramide e del cerchio vengono utilizzate per indicare modelli di rapporti e di comunicazione. La prima indica la forma imperiale dell’esercizio del potere, quella che crea dipendenza, mentre il cerchio rappresenta simbolicamente la circolarità della comunicazione e dell’esercizio dei poteri in termini comunitari. A questo aggiunge la necessaria riscoperta del Gesù laico, cioè del Figlio dell’uomo che penetra pienamente nella totalità dell’esistenza umana “donando dignità divina a tutta l’umanità intera”. Ne deriva un ruolo puramente ministeriale dei presbiteri, dei vescovi e del vescovo di Roma. Allora il cerchio si combina con la piramide rovesciata.

Per concludere questa prefazione mi sembrano importanti tre sottolineature:

  • I contributi qui raccolti sono attraversati, anche se in modalità diverse, dalla speranza che nella chiesa cattolica, e questo vale anche per le altre chiese e comunità cristiane, si faccia strada una diversa coniugazione tra potere e servizio. Una tale attesa è alimentata dallo stesso messaggio evangelico dove si afferma che il potere affidato alla chiesa è il potere di servire. Sembra, peraltro, l’unica possibilità perché si possa ancora parlare in maniera seria di ecumenismo e quindi di testimonianza concorde da rendere al mondo.
  • Perché questo possa avvenire è indispensabile imparare e praticare la lezione dell’onestà intellettuale, necessaria alla rilettura non ideologica della storia per una più profonda e vera conoscenza della chiesa, oltre che presupposto per aprirsi alla verità, anche teologale. Una parola di Bonhoeffer, in proposito, può essere illuminante: “L’onestà intellettuale in tutte le cose, anche nelle questioni di fede, fu il patrimonio prezioso della ratio liberata e fa parte da allora in poi delle esigenze morali irrinunciabili dell’uomo occidentale. Il disprezzo per l’epoca del razionalismo è un segno sospetto di una mancanza di bisogno di veridicità. Il fatto che l’onestà intellettuale non sia l’ultima parola sulle cose, che la limpidezza della ragione vada spesso a spese della profondità della realtà non dispensa comunque più dal dovere interiore di fare un uso onesto e corretto della ragione” (Etica).
  • È necessario, infine, focalizzare la figura del successore di Pietro, che nella storia dell’occidente ha avuto una grandissima rilevanza, nel bene e nel male, e che, a nostro parere, si trova a una svolta epocale. È arrivato il momento — è il suo Kairòs — di una spoliazione che riguarda la sua figura quale funzione interna alla chiesa, e di rappresentanza in ordine alla visibilità pubblica. Un processo che non può esaurirsi nella povertà e ascetismo personale, ma deve esprimere un’energia di trascinamento che coinvolga la chiesa anche nelle sue strutture organizzative e nei vari ministeri di direzione. Il ruolo di Pietro ha la possibilità di adempiersi e comunicare a livello simbolico molto più efficacemente che nell’ambito strettamente giuridico. A patto che il simbolo venga giocato sulla somiglianza percepibile con l’unico Pa-store, rispetto al quale c’è la piena dipendenza, e che si dia l’avvio con atti precisi al processo di riforma della chiesa in coerenza con la necessaria spoliazione.

Roberto Fiorini


 

 

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