Convegno nazionale PO / Bergamo, 2 giugno 2012

SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA

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La relazione di Giovanni Miccoli


Servizio e potere: vale a dire, per usare termini abituali nei documenti ecclesiastici,diakonia/ministerium e potestas/auctoritas. Sono due concetti, due funzioni, due prospettive di comportamento spesso compresenti ed insieme intrecciati nel percorso storico e nel magistero della Chiesa, quasi a segnare la specificità e il carattere del tutto speciale che, in fedeltà al modello offerto da Gesù Cristo e in vista della trasmissione del suo messaggio, l’esercizio dell’autorità assume, doveva assumere, avrebbe dovuto assumere nella prassi ecclesiastica, rispetto al modo di intenderla e praticarla nelle realtà profane.
Le cose tuttavia non sono così semplici come queste constatazioni sembrano suggerire. La relativa ripetitività con cui quei due termini vengono riproposti nasconde infatti sovente situazioni, modi di essere e prospettive assai variegate per non dire conflittuali, comporta declinazioni molto diverse del nesso che li unisce, e quindi incide sul significato stesso e la portata con cui si manifestano e si attuano nella storia.
È una storia complessa e tortuosa che prende le mosse, potremmo dire, dalla conversione di Costantino, quando la Chiesa si avvia a prendere un posto tra le istituzioni dell’Impero romano. È una storia tormentata, fitta di tensioni, nella quale l’influenza e i condizionamenti delle istituzioni politiche, della cultura e delle realtà profane si inseriscono pesantemente a dettarne caratteri e orientamenti. È una storia infine profondamente legata al progressivo affermarsi, con specificazioni sempre più marcate, del primato del vescovo di Roma, e dell’estensione che esso di volta in volta è venuto rivendicando nella sua qualità di vicarius Petri, vicarius Christi, vicarius Dei: e già la varietà di questi appellativi, lo si vedrà più avanti, evidenzia la crescente ed esclusiva eccellenza della sua figura e la complessità e ricchezza dei poteri che via via gli sono pensati impliciti.
Credo che a questo riguardo si debba aggiungere anche un’altra osservazione. La forza condizionante che le realtà e le situazioni del proprio tempo esercitano sui comportamenti e la prassi dell’istituzione ecclesiastica e dei suoi responsabili spesso si configura come una componente costitutiva delle loro scelte. Ciò non manca di creare contestazioni e tentativi di risposte alternative nel corpo della Chiesa. Ed è questo, mi pare di poter dire, l’aspetto drammatico che la questione posta dal binomio potere/servizio rappresenta nello svolgersi della storia della Chiesa.
Di tale storia non potrò ovviamente tracciare il completo percorso. Attraverso l’illustrazione di alcuni momenti di essa, in una scelta non priva di una sua arbitrarietà, cercherò di metterne in luce la complessità e la varietà degli aspetti, frutto di volta in volta della riflessione ecclesiologica e della visione religiosa che li ispirano e dell’urgenza insieme di far fronte ai processi storici in atto nella società. Il mio campo di osservazione inoltre (ed è un’ulteriore carenza di questo mio intervento) sarà pressoché esclusivamente limitato alla Chiesa d’Occidente e alle condizioni formatesi intorno al vescovo di Roma.
Comincerò dall’esame di un testo relativamente recente, se si considerano i diciassette secoli almeno nel corso dei quali la nostra questione prende corpo, ossia dall’enciclica Quas primas con la quale, nel dicembre 1925, Pio XI istituì la festa liturgica di Cristo Re, un attributo questo denso di implicazioni e di sviluppi (1).
L’illustrazione del fondamento e della portata del titolo di re attribuito al Cristo (re delle menti, delle volontà e dei cuori) è ampia e dettagliata, con riferimenti a testi sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento che l’annuncerebbero. Un punto nel discorso di Pio XI mi pare centrale: l’affermazione cioè che “tutti devono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo-Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re. Infatti, soltanto in quanto è Uomo, si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché, come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero”(2). È un punto ribadito con forza anche più avanti, a segnare l’importanza che Pio XI gli attribuisce: Cristo infatti“non solo deve essere adorato come Dio dagli angioli e dagli uomini”, ma “anche a Lui come Uomo (tutti) debbono essere soggetti ed obbedire” (3). Da ciò, per il papa, consegue la necessità che Cristo “regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici”; così come consegue che “la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni” ne proclami e ne esalti nel ciclo annuo della liturgia “il suo autore e fondatore quale Signore Sovrano e Re dei Re” (4). Sovrano e Re, e dunque dotato della triplice potestà legislativa, giudiziaria ed esecutiva, “poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno possa sfuggire ad esso e ai supplizi da lui stabiliti” (5).
A questo punto forse è opportuno rimarcare un fatto che troveremo ripetersi più volte nel nostro percorso: l’impiego cioè da parte del papa di un vocabolario abitualmente in uso da parte dei poteri secolari. Il significato che si vuol dare a quei termini vorrebbe essere diverso, come generalmente il magistero e lo stesso Pio XI (lo si vedrà tra poco) non mancano di ricordare. Ma il vocabolario non è mai innocente. Non a torto il padre Chenu parlava di un “determinismo incosciente” delle parole che implicano comunque una direzione (6). È la loro consistenza stessa che non sempre sopporta le limitazioni suggerite da chi le sta impiegando. In questo caso quelle parole (potestà legislativa, giudiziaria ed esecutiva) esprimono e segnano una tendenza: attestano quanto meno come la riflessione sul potere da parte dei vertici ecclesiastici resti influenzata dai modelli offerti dalle autorità secolari, non senza scontate ricadute sul modo di intendere e praticare il dovere del “servizio”. È solo un cenno per ora di un discorso che andrà ampiamente ripreso più avanti.
Pio XI ovviamente non manca di riconoscere, con espliciti riferimenti scritturistici, come il Regno di Cristo“ sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali”: un Regno dunque che si oppone “unicamente al regno di Satana e alla potestà delle tenebre e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi e la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro Croce” (7). Ma Pio XI aggiunge anche (come del resto già il “principalmente” di prima lasciava presagire) che “gravemente errerebbe chi togliesse a Cristo-Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio” (8). Il fatto, come Pio XI riconosce, che Cristo “finché fu sulla terra, si astenne totalmente dall’esercitare tale potere” non sembra preoccupare il papa né infìrma in alcun modo la realtà e la necessità di esso. E a questo riguardo Pio XI cita, quasi a titolo di conferma, Leone XIII, che nell’enciclica Annum sacrum aveva ribadito come “l’impero di Cristo non si estende soltanto ai popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni ne li allontanino o il dissenso li divida dalla carità, ma abbraccia anche quanti sono privi della fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo” (9). Da qui il pressante invito di Pio XI: “Non rifiutino dunque i Capi delle Nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme ai loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria” (10).
Pio XI, riprendendo concetti già ampiamente esposti nella Ubi arcano con cui aveva inaugurato il suo pontificato, si dilunga sui vantaggi che ne deriverebbero allo stesso potere politico e all’intero consorzio civile, in un quadro che vede un “uso santo e sapiente della loro autorità” da parte dei principi e dei magistrati, sanciti e nobilitati i doveri di obbedienza dei cittadini, dovunque un clima di “tranquilla disciplina e di pacifica convivenza” (11).
La prospettiva che si delinea chiaramente, in una condizione di reciproco appoggio, se non di vera e propria alleanza, fra autorità religiosa e potere civile, è la restaurazione di qualcosa che il passato ha già conosciuto, come del resto è suggerito anche da una serie di termini ricorrenti (restaurazione, ripristino, riacquistare, ritorno, ricondurre, ristabilire). Con tutta evidenza vi è implicito il riferimento all’antico e sempre vagheggiato regime di cristianità (12), così come risulta evidente il ruolo tutto speciale che l’affermazione / restaurazione del Regno di Cristo riserva alla Chiesa cattolica e al suo magistero. Ne offrono piena conferma i caratteri di quella “peste che pervade l’umana società” cui, nell’ottica di Pio XI, la celebrazione annuale della neo-istituita festa liturgica di Cristo-Re intende opporsi, grazie all’efficacia coinvolgente e mobilitante che è propria della liturgia. Si tratta del“cosiddetto laicismo”,il cui lungo percorso Pio XI così descrive: “Si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto – che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo – di ammaestrare cioè le genti, di dar leggi, di governare i popoli per condurli all’eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise alla potestà civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati; s’andò più innanzi ancora: vi furono quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo, un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter far a meno di Dio e riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso” (13).
È un lungo percorso di storia che Pio XI con tutta evidenza contempla: situazioni già profilatesi nell’ambito dell’ancien régime all’indomani della ribellione protestante e nelle elaborazioni del pensiero illuminista; condizioni create dalla rivoluzione e dall’affermarsi di sistemi liberali; fino al più recente avvento del comunismo in Russia (14). Implicita ma evidente la piena riproposizione di un giudizio e di un atteggiamento derivati dalla cultura intransigente dell’Ottocento, di netto complessivo rifiuto dei diversi esiti della “civiltà moderna”, sostanzialmente sulla linea del Sillabo di Pio IX. Ne derivava la scontata apertura a quei regimi, che inevitabilmente non potevano non essere autoritari, disposti a riconoscere nuovamente alla Chiesa i suoi antichi diritti.
Corrisponde a tale apertura la diffidenza manifestata da Pio XI fin dalla sua prima enciclica nei confronti dei “moderni ordini rappresentativi” in quanto “i più esposti al sovvertimento delle fazioni” (15). Ed è pienamente in linea con quel rifiuto degli esiti della “civiltà moderna” la politica concordataria da lui rilanciata in grande stile, in vista appunto del superamento, sia pur parziale, di alcuni almeno dei guasti provocati dalla “rivoluzione” nella condizione sociale della Chiesa (16). Così come corrisponde a tali prospettive, anche se più limitatamente per dir così, l’eventuale appoggio a quelle forze politiche disponibili ad offrire concessioni che andassero in questa direzione. Sono tendenze, mi pare di poter dire, di lunga durata, di cui non mancano esempi anche in anni recenti.
Ma ciò che ora mi preme sottolineare è quell’inciso del suo discorso appena citato per il quale il diritto della Chiesa “scaturisce dal diritto di Gesù Cristo”. Il nesso tra i due diritti è strettissimo. Se dunque la regalità di Cristo richiede “che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principii cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla sana dottrina e alla santità dei costumi” (17), è evidente che è la Chiesa, titolare dei diritti di Cristo, l’istituzione che nel corso della storia è chiamata a realizzarli. Il potere regale di Cristo passa in delega alla Chiesa, perché il suo messaggio di salvezza possa trovare attuazione. Il potere della Chiesa insomma è funzionale al “servizio” che essa è chiamata a svolgere per la salvezza di tutti, individuale e collettiva, non solo eterna ma anche temporale (18). Ma è appunto potere: potere legislativo, giudiziario, esecutivo, cui nessuno, viste le sue finalità, può sottrarsi, dovrebbe potersi sottrarre.
La Quas primas, come Pio XI esplicitamente riconosce, è il frutto di iniziative e preghiere che, dal tardo Ottocento, intendevano diffondere e sostenere il culto di Cristo-Re e affermarne il regno universale (19). Si tratta in realtà di formulazioni e attributi che avevano trovato fin dai decenni della Restaurazione post-rivoluzionaria una prima espressione, per rispondere appunto all’assalto portato dalla rivoluzione alle prerogative della Chiesa (20). Il riconoscimento della regalità di Cristo, del Regno sociale di Cristo, ne costituiva una riaffermazione solenne, in quanto quel riconoscimento veniva a rappresentare la premessa e la condizione di quel complesso di poteri di cui la Chiesa doveva disporre per poter svolgere la sua missione.
Quei titoli e quelle formulazioni nascono insomma dalle eccezionali circostanze storiche che il processo rivoluzionario aveva creato per la Chiesa. Ne fu un aspetto saliente anche il concilio Vaticano I con la proclamazione dell’infallibilità papale, punto d’arrivo e sanzione che si voleva definitiva dell’insieme di prerogative che il suo primato era venuto riconoscendo al pontefice romano. Ne usciva infatti rafforzata quella netta contrapposizione alle società liberali del proprio tempo che, almeno sul piano dei principi, appare una caratteristica saliente del magistero della Chiesa di Roma in tutto il secondo Ottocento e, pur se con alcuni distinguo e concessioni tattiche, anche nella prima metà del Novecento, fino al concilio Vaticano II.
Ma la Quas primas, nei suoi principi di fondo e nelle sue rivendicazioni, è anche il punto d’arrivo di una storia ben più lunga, nel corso della quale i contenuti e le prospettive che Pio XI aveva voluto riproporre con quell’enciclica erano stati già tutti pienamente affermati. Non a caso del resto quel titolo regale attribuito al Cristo intendeva essere uno strumento per la riaffermazione di diritti e prerogative che, anche se non senza scontri e difficoltà, erano stati riconosciuti da tempo alla Chiesa, e al papa di Roma in particolare, e che solo le condizioni e gli orientamenti del presente avevano voluto mettere radicalmente in discussione e cancellare. Di quella lunga storia e dei suoi caratteri resta dunque da mettere in luce alcuni tratti.
Ho detto all’inizio, con una determinazione di campo molto approssimativa, che abbiamo a che fare con una storia che si può fare iniziare con la conversione di Costantino, quando i responsabili delle comunità cristiane si trovarono a dover progressivamente sostituire quelle figure che, nella loro qualità di gestori del culto, svolgevano da secoli un ruolo importante nell’ambito dello Stato. Non mi pare un caso che il titolo di pontifex, summus pontifex (pontifices) che le designava, integrandosi nel vocabolario cristiano, venga talvolta impiegato per indicare i vescovi, divenendo poi, con sempre maggiore frequenza e alla fine esclusivamente, la qualifica che indicava il vescovo di Roma (21): di quella Roma cristiana che si vantava orgogliosamente erede vincente della Roma pagana. Ne manifesta la piena consapevolezza la constatazione di papa Leone I secondo il quale, per quanto grandi fossero state le vittorie delle armi dell’antica Roma e numerosi i popoli da essa sottomessi, ben più numerosi erano quelli che la “pax christiana” le aveva assoggettato (22). La Chiesa era divenuta un’istituzione nell’Impero e dell’Impero, entrando perciò nell’area dei detentori del potere.
D’altra parte il processo di articolazione e determinazione del potere ecclesiastico trovava un ulteriore incentivo nella tendenza a tradurre in formule dottrinali definite una volta per tutte, funzionali all’incontro con la cultura ellenistica, le ragioni del credere in Gesù Cristo e nel suo annuncio. L’affermazione e la custodia della dottrina, che tutti devono accettare, vengono a costituire così un elemento fondamentale per il rafforzamento dell’autorità delle gerarchie della Chiesa. La trasmissione e diffusione del messaggio cristiano costituisce l’ufficio e il compito di uomini e di strutture che fanno pienamente parte (e in una posizione di assoluta eminenza) del sistema di governo della società.
Si tratta di una realtà che il notissimo passo di una lettera di papa Gelasio all’imperatore Anastasio (siamo alla fine del V secolo) esprime e articola con estrema chiarezza: “Due sono indubbiamente, imperatore augusto, coloro dai quali il mondo viene governato, la sacra autorità dei pontefici e la potestà regale (“auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas”): e tra le due tanto maggiore è il peso dei sacerdoti in quanto sono essi che nel divino esame saranno chiamati a rendere regione anche degli stessi re degli uomini. Tu sai infatti, figlio clementissimo, che, benché tu sia il primo per dignità tra il genere umano, tuttavia davanti ai presuli delle cose divine pieghi devoto il collo, da essi aspetti le cause della tua salvezza e conosci che i celesti sacramenti li devi ricevere da loro cui compete disporli; che, per l’ordine della religione, devi sottometterti ad essi piuttosto che comandare; e che in queste cose tu dipendi dal loro giudizio e non puoi pensare di ridurli alla tua volontà” (23).
Gelasio certo non manca di riconoscere che anche i vescovi della religione (“religionis antistites”), ben sapendo che l’impero è dato ad Anastasio “superna dispositione” (per decisione divina) obbediscono alle leggi dell’imperatore in ciò che riguarda “l’ordine della pubblica disciplina”. Tutta la sua insistenza batte però sulla superiorità del potere religioso cui tutti i fedeli devono sottomettersi; e ciò vale particolarmente nei confronti del “presule di quella sede (il pontefice romano) cui la somma divinità diede la preminenza su tutti i sacerdoti”.
Sono rivendicazioni non meramente astratte (gli esempi al riguardo sarebbero molteplici) che trovarono inaspettatamente ulteriore sostegno e conferma nelle situazioni di rottura e di crisi che, con il susseguirsi di invasioni di popoli germanici, erano venute travolgendo la componente occidentale dell’Impero. Basti pensare al ruolo svolto da Gregorio Magno a cavallo tra il VI e il VII secolo (24): ruolo politico e di interlocutore politico rispetto a Bisanzio, che del potere imperiale era ormai l’unica sede; ruolo di soccorso e sostegno alle popolazioni minacciate (sua è l’opera di difesa di Roma dalla pressione longobarda); ruolo di diffusione e affermazione del cristianesimo (e di attento controllo delle sue gerarchie) nei rapporti con i diversi regni e potentati formatisi in Occidente in seguito al disfacimento del sistema imperiale. È una preminenza per molti aspetti di fatto, gravida tuttavia di conseguenze per il futuro; una preminenza, è opportuno aggiungere, che nell’ambito ecclesiastico, se ribadisce il primato della sede che era stata di Pietro, tuttavia ancora rifiuta per sé il titolo di “papa universale” in quanto di pregiudizio all’onore dovuto alle chiese patriarcali di Oriente (25). L’auto-definizione di “servus servorum Dei” (servo dei servi di Dio), con cui pressoché costantemente Gregorio apre le sue lettere, sintetizza i termini con cui, quale titolare della “prima sedes”, egli intende svolgere il suo “servizio” nei confronti dei confratelli e dell’intera Chiesa. Pochi secoli dopo sarà una formula consuetudinaria, del tutto priva di qualsiasi reale portata.
Non è certamente questione su cui posso diffondermi qui, ma merita quanto meno un cenno il fatto che largamente aperta è la domanda di ciò che significava in quei secoli, lontani ormai dal fervore delle origini, essere o divenire cristiani; e penso soprattutto alle grandi masse di uomini e donne che sempre più numerose venivano fregiandosi di quel titolo, attraverso passaggi in cui assai superficiale, per non dire largamente inesistente, come molti segni attestano, appare un’opera di reale evangelizzazione. È la scelta di un dio più potente degli altri che porta Clodoveo, vincitore in una decisiva battaglia contro gli Alamanni dopo aver pregato il Cristo, a credere in lui e a farsi battezzare insieme ai suoi Franchi (26): e resta davvero difficile stabilire ciò che in concreto tale scelta abbia potuto rappresentare, se e come abbia modificato la quotidianità della loro vita e la loro visione delle cose.
Ricchi di sapienza pedagogica, ma anche rinunciatari ad incidere nel profondo, suonano i consigli che Gregorio Magno impartisce ai monaci incaricati della conversione degli Angli: non distruggere i loro templi ma solo purificarli, costruirvi altari e deporvi reliquie, perché i popoli continuino ad accorrervi come prima, ma questa volta per riconoscere il vero Dio; lasciare intatta la loro consuetudine di sacrificare ai demoni molti buoi, solo che invece di sacrificare le loro bestie al diavolo dovranno ucciderle in lode di Dio; riservare loro in quella occasione alcuni piaceri materiali per renderli più disponibili all’edificazione spirituale (27).
È significativo, rispetto a tale realtà, che il monachesimo, fiorente nel corso dell’alto medioevo, pensi se stesso come una risposta alla denunciata rilassatezza dei cristiani comuni e delle stesse gerarchie, finendo col pretendere di far coincidere il cristianesimo autentico solo con la scelta monastica (28). Era una scelta che intendeva distinguersi per la rinuncia personale a beni e proprietà, messi in comune sull’esempio della primitiva comunità di Gerusalemme, ma che rivendicava però, in forza di questa stessa scelta, quella posizione di dominio per le istituzioni monastiche, solidamente fondate su ampi possessi, che costituisce un aspetto caratteristico dei secoli centrali del Medioevo.
Non è un caso che i protagonisti del grande risveglio evangelizzatore e missionario che si afferma lentamente tra X e XII secolo giudichino l’insieme della società che hanno davanti come una mera “umbra christianitatis”, estranea non soltanto ai valori ma alla conoscenza stessa del cristianesimo (29). Era la conseguenza ultima della progressiva trasformazione delle gerarchie ecclesiastiche in gelosi potentati locali, costantemente in lotta con altri potentati, in una sorta di intreccio perverso che la frammentazione della società occidentale, successiva al fallimento dell’effimera costruzione imperiale dei Carolingi, aveva ulteriormente accentuato. Ne fu pienamente coinvolto anche il papato, ridotto nel X secolo a effimera appendice degli appetiti di signorotti locali.
Ne sono esplicita e durissima espressione le parole e le immagini usate da Arnolfo, vescovo di Orléans, nel corso di un sinodo (siamo alla fine del X secolo) che doveva decidere della legittimità, in quelle circostanze, di un ricorso al papa: “Devi essere ben compianta, Roma, che ai nostri antichi hai offerto splendidi esempi di vescovi, mentre nei nostri tempi hai diffuso mostruose tenebre, che saranno famose nel tempo a venire. Un tempo ricevemmo i famosi Leoni, i grandi Gregori. E che dirò di Gelasio e di Innocenzo che con la loro sapienza ed eloquenza superano ogni filosofia mondana? Lunga sarebbe la serie di coloro che con la loro dottrina riempirono il mondo. Giustamente, dunque, la Chiesa universale fu affidata al governo di coloro che per il merito della vita e per la scienza, furono i primi tra tutti i mortali”. La miseria odierna non permette che sia più così. Arnolfo è implacabile nella sua requisitoria: “È mai possibile sia stato decretato che a tali uomini mostruosi, pieni di ignominia, privi di qualsiasi scienza divina e umana, debbano essere soggetti gli innumerevoli sacerdoti di Dio sparsi nel mondo? […] A paragone del romano pontefice, negli altri sacerdoti l’ignoranza può essere anche tollerabile; ma nel vescovo di Roma, che deve giudicare della fede, dei costumi e della disciplina dei sacerdoti e dell’intera Chiesa cattolica, essa diventa veramente intollerabile” (30).
Alcuni punti fermi, lasciti del passato, non sembrano dimenticati: è il vescovo di Roma che dovrebbe giudicare della fede, dei costumi e della disciplina della Chiesa! Ma il degrado del presente non può non sospenderne l’attuazione. È una situazione di disordine diffuso, di largo e pressoché totale appannamento degli aspetti più elementari del costume ecclesiastico, di pieno inserimento dell’episcopato nell’organizzazione del potere feudale, fatto di dipendenze e obblighi che poco o nulla avevano a che fare con compiti religiosi, di radicale perdita di prestigio della sede romana. Ed è da questa situazione che nasce sempre più forte una domanda di riforma. Nata in periferia, ad opera soprattutto del monachesimo cluniacense, essa si afferma e investe l’intero Occidente quando arriva a Roma. Che l’imperatore di allora, Enrico III, vi abbia svolto inizialmente un ruolo decisivo (31) attesta a sua volta lo strettissimo intreccio che univa i diversi poteri. Pur con alterne vicende esso continuerà ad unirli ancora a lungo.
La direzione che l’opera di riforma, arrivando a Roma, venne assumendo fu duplice. L’intento in primo luogo era di ristabilire un ordine, un costume e una funzione perduti, facendo ricorso ai decreti e alla dottrina dei “santi padri” del passato. Ne esprimono efficacemente l’urgenza e la portata le righe solenni con cui Gregorio VII illustrò all’imperatore Enrico IV le decisioni assunte dal sinodo lateranense del marzo 1075 (fu allora che venne emanato il decreto contro l’investitura laica che aprì di fatto la cosiddetta lotta delle investiture): “Videntes ordinem christianae religionis multis iam labefactum temporibus…”; “Vedendo l’ordine della religione cristiana ormai da molto tempo travolto, e abbandonata e disprezzata, per l’influenza del demonio, la primaria missione di guadagnare le anime (a Dio), angosciati per il pericolo della manifesta perdizione del gregge del Signore, siamo ricorsi ai decreti e alla dottrina dei santi padri, prendendo decisioni che non rappresentano nulla di nuovo né sono frutto di nostra invenzione, ma abbiamo deliberato che, abbandonando l’errore, doveva essere ripresa e seguita la prima e unica regola della disciplina ecclesiastica e la via già percorsa dai santi” (32). Negli intenti di Gregorio la prospettiva di fondo è la piena restaurazione di un’autentica tradizione di magistero, come egli ribadirà più volte: “Ciò che a lungo nella Chiesa a causa dei peccati fu ed è negletto e corrotto da una nefanda consuetudine, noi, per l’onore di Dio e la salvezza di tutta la cristianità, vogliamo rinnovare e restaurare” (33).
Secondo tale prospettiva prende corpo il secondo aspetto che caratterizza la direzione di marcia della riforma promossa da Roma e in particolare l’opera di Gregorio VII: l’affermazione cioè della piena e assoluta autorità del papa in primo luogo sull’intera Chiesa (è in quei decenni che avviene la rottura pressoché definitiva con la Chiesa d’Oriente [34]), ma anche sui poteri pubblici e l’intera società. È quanto gli suggerivano più o meno esplicitamente alcuni testi del passato (non erano stati scritti a caso, nel contesto del declinante impero carolingio, i famosi falsi noti come Decretali Pseudo-Isidoriane, che miravano ad offrire supporti alle autorità esistenti).
Ma soprattutto è quanto appariva reso necessario per poter fronteggiare e sconfiggere le opposizioni sempre più forti che le proposte e le iniziative riformatrici venivano incontrando. Il cosiddetto Dictatus papae che figura nel suo Registro (35), con le sue ventisette stringate proposizioni, secche come colpi di maglio, mostra in tutta la loro latitudine l’ampiezza di prerogative, diritti, privilegi che Gregorio VII rivendicava per il titolare della sede romana, il cui unico fondatore era per lui il Signore (“Quod Romana Ecclesia a solo Domino sit fundata”). Ne ricorderò qualcuna: “Solo il romano pontefice è detto universale”; “Egli solo può deporre i vescovi e riconciliarli”; “Egli solo può usare le insegne imperiali”; “Tutti i principi devono baciare i piedi del solo papa”; “Il suo nome è unico nel mondo”; “Le sentenze del papa non possono essere cassate da nessuno, mentre egli solo può cassare le sentenze di tutti”; “Egli non può essere giudicato da nessuno”; “Per suo ordine e con il suo permesso è lecito ai sudditi accusare i superiori”; “Non può essere considerato cattolico chi non concorda con la Chiesa romana”; “Egli può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà prestato ai malvagi”. Sono testi che non lasciano dubbi. “Per dirla in breve, come è stato scritto (36), il papa ha il diritto divino di esercitare sulla Chiesa e anche sulla cristianità laica un potere assoluto, senza limiti”.
Il potere del papa dunque diventa supremo, la sua autorità si configura come assoluta. Si tratta di un passaggio cruciale. Per liberare le gerarchie locali e il clero dai mille legami che li costringevano a svolgere ed esercitare poteri, compiti e funzioni secolari, per cambiare nel profondo i loro modi di essere e la loro vita, tutto il potere, il pieno potere è avocato al papa. La strada del futuro, per il papato, è così segnata: inevitabile, per poter esercitare una tale autorità, disporre di strumenti ausiliari adeguati e circondarsi di figure e simboli capaci di manifestarla pienamente; facile, nella volontà di affermarla e difenderla, dover ricorrere a mezzi estremi. Al di là della volontà e delle immediate finalità di Gregorio, l’uso della violenza, la condanna e la repressione dei dissidenti, la guerra entrano a pieno titolo nel circuito delle operazioni cui il papa è chiamato. Il suo dovere (potremmo dire il suo “servizio”) resta di portare i popoli alla salvezza. Ma i suoi modi di essere appaiono quelli di un potentato secolare, di un imperatore.
Il De consideratione con cui Bernardo di Clairvaux intende consigliare il suo antico discepolo divenuto papa Eugenio III (siamo alla metà del XII secolo) non manca di rilevarlo: “A vedere la pompa e lo splendore delle tue vesti, e i corteggi di cavalieri e ministri che ti circondano, ti si direbbe successore di Costantino piuttosto che di Pietro”. Ma Bernardo aggiunge anche: “Ti consiglio, nelle attuali circostanze, di tollerare tutto ciò, non di pretenderlo però come dovuto” (37).
Il consiglio è significativo: accanto all’accettazione di ciò che la situazione presente sembra imporre, già profila quella dissociazione tra modi di sentire e modi di essere che offrirà la chiave per superare e risolvere contraddizioni almeno apparentemente insolubili e che Bernardo del resto aveva ben presenti. Egli riconosce pienamente infatti che compete al vescovo di Roma, vicarius Petri ma anche, in qualche modo per ciò stesso, vicarius Christi, la plenitudo potestatis, il “dovere di comandare non a un solo popolo ma a tutti” (38). Ma nello stesso tempo egli non si stanca di ripetere che il suo è un servizio (ministerium) non un diritto di dominio (dominium) (39). Il profilo ideale del papa che chiude il De consideratione vuole essere un’eco fedele di tali esigenze: “Considera dunque che tu devi essere il modello della giustizia, lo specchio della santità, l’esempio della pietà, l’araldo della verità, il difensore della fede, il dottore delle nazioni, la guida dei cristiani, l’amico dello Sposo, il paraninfo della Sposa, l’ordinatore del clero, il pastore dei popoli, il maestro degli ignoranti, il rifugio degli oppressi, l’avvocato dei poveri, la speranza dei miseri, il tutore degli orfani, il protettore delle vedove, l’occhio dei ciechi, la lingua dei muti, il bastone dei vecchi, il vendicatore dei delitti, il terrore dei malvagi, la gloria dei buoni, la verga dei potenti, il martello dei tiranni, il padre dei re, il moderatore delle leggi, il dispensatore dei canoni, il sale della terra, la luce del mondo, il sacerdote dell’Altissimo, il vicario di Cristo, il cristo del Signore, infine il dio del Faraone” (40) (riferimento quest’ultimo al titolo che il Signore aveva dato a Mosè in vista del suo compito di liberare gli ebrei dall’esilio di Egitto – Esodo 7,1).
L’onnicomprensività del quadro, così carico di compiti e doveri schiettamente religiosi, intrecciati a servizi di beneficenza, solidarietà, sollievo alle miserie della società, non evita, non può evitare però di introdurne altri in cui la prospettiva del dominio e dell’uso di apparati e strumenti propri del governo secolare si profila come inevitabile e necessaria: non era certo con le buone parole che si poteva essere il vendicatore dei delitti, il terrore dei malvagi o il martello dei tiranni!
Gregorio VII aveva voluto liberare i vescovi e l’insieme dell’istituzione ecclesiastica dai pesanti condizionamenti che le profonde saldature con sovrani e principi secolari comportavano, per ridare il primo posto ai doveri religiosi, ma già pochi decenni dopo nulla o quasi sembrava cambiato. Non era solo la realtà di fatto a mostrare resistenze tenaci. Troppo forte, troppo profondamente condizionante era stato l’intreccio tra poteri religiosi e poteri secolari perché quei legami potessero venir sciolti con un atto d’imperio. Troppo i poteri secolari erano divenuti intriseci al potere stesso del papa, perché una tale situazione non incidesse profondamente sui suoi stessi modi di essere. Gli strumenti di governo secolare, di cui Gregorio aveva voluto dotare gli amplissimi poteri avocati al papa per poter realizzare la riforma, si rivelavano più forti delle sue intenzioni: grande potentato tra altri potentati, il papato mostrava, vorrei dire inevitabilmente, modi di essere e comportamenti tributari di modelli ben lontani da quelli cui affermava di doversi ispirare.
Non era solo una malignità la battuta di quel “filosofo greco” che nel 1137, alla corte dell’imperatore Lotario, aveva osservato: “In Occidente vediamo realizzato ciò che il Signore preannunciò con il profeta: ‘Il sacerdote sarà come il popolo’. Infatti i pontefici si buttano nelle guerre, come fa il vostro papa Innocenzo, distribuiscono denaro, raccolgono eserciti, indossano abiti di porpora” (41). Certamente non tutti i prelati potevano uguagliare Cristiano, arcivescovo di Magonza, che nel 1172, all’assedio di Bologna, con la sua clava “trinode” era riuscito ad abbattere 9 uomini e a spezzare con una pietra i denti a 28 dei “migliori”, celebrando trionfante il giorno dopo una solenne azione liturgica di grazie, come, forse non senza una qualche ammirata esagerazione, ci informa il solerte cronista (42). Ma troppe sono le attestazioni di quei decenni per poter pensare il suo impegno guerresco come un’eccezione.
Terrificanti nella loro crudezza i giudizi sulla Chiesa di Roma circolanti in Occidente alla metà del secolo, secondo quanto Giovanni di Salisbury, che non era certo un rivoluzionario, riferisce in un colloquio con il papa Adriano IV: non madre, ma matrigna, sede di scribi e farisei, che impongono pesi insopportabili sulle spalle degli uomini; autoritari, i suoi prelati ammassano ricchezze, parchi solo in avarizia; il povero non vi è ammesso e chi entra per farvi parte non ha Cristo come guida ma la vanagloria. Opprimono la Chiesa, taglieggiano clero e popolo, bussano sempre a denari chiamando ciò religione. “Palatia splendunt sacerdotum et in manibus eorum Christi sordidatur ecclesia”. Giovanni per parte sua non è da meno: Roma è sede di avarizia e perciò radice di tutti i mali; per dirla sinceramente, bisogna fare ciò che il papa ordina, anche se non tutte le sue opere vanno imitate. Infatti chi dissente dalla dottrina di Roma è eretico o scismatico: “Ma se Dio vuole ci sono di quelli che non imiteranno le opere di tutti voi”. La moria dei prelati romani è molto forte, certo perché Dio vuole evitare che corrompano tutta la Chiesa (43).
Sono solo pochi cenni di un discorso critico ben altrimenti ampio e articolato; che peraltro si placa di fronte alla risposta di Adriano che gli oppone l’apologo dello stomaco e delle membra, ribelli prima alla sua apparente ignavia, ma divenute consapevoli poi del suo ruolo quando, per essersi rifiutate di servirlo, si sentono anch’esse morire. Il fatto che Adriano, traendone la morale, possa stabilire un’analogia con “il corpo dello Stato”, “dove moltissimo vuole il magistrato”, accumulando “non tanto per sé quanto per gli altri”, dà la piena misura di quanto forme di governo e comportamenti usuali nei poteri secolari fossero ormai tranquillamente fatti propri dai dirigenti della Chiesa (44).
D’altra parte, chiudendo così precedenti dibattiti e discussioni e smentendo non poche speranze, Pasquale II, intervenendo al concilio lateranense del 1116 e facendo eco a considerazioni già presenti nelle decretali pseudo-isidoriane, aveva fissato alcuni principi e criteri di giudizio che affossavano definitivamente ogni problema di povertà per l’istituzione Chiesa: “La Chiesa primitiva, al tempo dei martiri, fiorì presso Dio ma non presso gli uomini. In seguito i re, gli imperatori romani e i principi si sono convertiti alla fede, e come buoni figli hanno onorato la Chiesa loro madre, conferendo alla Chiesa di Dio possessi e proprietà, onori e dignità secolari, diritti e insegne regali, come fecero Costantino e altri fedeli. E la Chiesa cominciò a fiorire tanto presso gli uomini che presso Dio. Abbia dunque la Chiesa, madre e signora nostra, le cose che le sono state date dai re e dai principi; le disponga e le distribuisca ai propri figli come sa e come vuole”  (45).
È l’insieme di tale situazione, per tanti aspetti non solo contraddittoria e conflittuale ma anche profondamente deludente rispetto alle attese che avevano animato le domande di riforma, a costituire la ragione prima di una crescente contestazione pubblica nei confronti delle gerarchie e dello stesso papa. I temi che intessevano la predicazione romana di Arnaldo, già canonico a Brescia, rendevano pubblico ciò che nella conversazione di Giovanni di Salisbury con Adriano IV era recriminazione privata. Arnaldo dunque “criticava apertamente i cardinali, dicendo che il loro consesso, per la superbia e l’avarizia, per l’ipocrisia e le molte nefandezze che lo macchiavano, non era la Chiesa di Dio ma un mercato e una spelonca di ladri: tra il popolo cristiano essi avevano la funzione degli scribi e dei farisei. Nemmeno il papa era ciò che si professava, uomo apostolico e pastore delle anime, ma uomo sanguinario, che fondava la sua autorità su incendi e omicidi, torturatore delle Chiese, persecutore dell’innocenza: la sola cosa che faceva al mondo era di vessare la gente, riempiendo i propri forzieri e svuotando gli altrui”  (46).
Non è un caso che i temi più consueti di una contestazione che tra XII e XIII secolo si diffuse ampiamente, divenendo minacciosa per l’ordine costituito, battessero in particolare sull’avarizia e le ricchezze del clero e delle gerarchie, e sul loro abituale ricorso alla violenza e al “sangue”, ossia a strumenti coercitivi propri dei poteri secolari; ben presto sarà anche la denuncia della repressione violenta di cui tale contestazione era divenuta oggetto. Pressoché da subito infatti il magistero romano, contando generalmente sull’appoggio dei poteri pubblici, l’aveva condannata come eretica, forte del principio sancito dalla tradizione, che individuava nella discordanza da Roma uno dei principali criteri di eresia. Con la fine del XII secolo la Vergentis in senium di Innocenzo III equiparò l’eresia al crimen lesae maiestatis del diritto romano introducendo così la pena di morte per i colpevoli  (47). Quando non bastavano i tribunali inquisitoriali, che affidavano i condannati al braccio secolare e al rogo, si ricorse alla crociata, già collaudata contro gli “infedeli”. Resta tristemente famosa quella contro gli Albigesi, bandita da Innocenzo III. Gli accenti con cui il papa la indisse suonano inequivocabili: “Orsù, soldati di Cristo, orsù valorosi cavalieri della milizia cristiana. Vi muova il generale gemito della santa Chiesa, vi accenda il pio zelo di punire una così grande ingiuria recata al vostro Dio! […] affrettatevi ad abolire, nei modi in cui Dio vi rivelerà, la perfidia eretica, attaccando i suoi seguaci con maggiore sicurezza che i saraceni, perché sono peggiori di essi”  (48). E resta famosa, a segnare la ferocia dell’impresa, la risposta del legato papale Arnaldo Amalrico ai capi crociati, che gli chiedevano cosa fare degli abitanti di Béziers una volta conquistata, perché i cattolici vi erano mescolati agli eretici: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”  (49).
La contrapposizione alla Chiesa di Roma che si fa strada nei movimenti e nelle Chiese ereticali, al di là dei loro diversi caratteri su cui non posso soffermarmi qui, è frontale, oppone condanne a condanne, talvolta violenza a violenza, senza rifuggire da mobilitazioni di massa. Arnaldo sollecita il popolo romano alla ribellione contro il potere del papa. Dolcino, capo del gruppo detto degli apostolici, guida i suoi seguaci alla lotta armata. Anche quando, come il più sovente accade, l’approccio dei predicatori “eretici” risulta pacifico, la contestazione delle gerarchie ecclesiastiche, almeno da un certo momento in poi, resta diretta e radicale. Nonostante le differenze profonde, entrambi i fronti in lotta presentano sottilmente, a ben guardare, nei loro aspetti di punta, un comune elemento di fondo, ossia l’intrinseca necessità per entrambi di poter mantenere (o guadagnare) una posizione egemonica nella società.
Ma anche un’altra strada, del tutto alternativa ai modi di essere prevalenti nell’istituzione ecclesiastica pur senza essere di ribellione e di rifiuto, si profila in quei decenni: ed è l’esperienza evangelica di Francesco d’Assisi e del gruppo dei suoi primi seguaci  (50). I suoi modi di essere sono il risultato della riflessione condotta sul significato dell’incarnazione di Cristo e sui caratteri del modello di vita da lui offerto: Cristo, “che essendo ricco (dives) sopra ogni cosa, volle, con la beatissima vergine madre sua, scegliere nel mondo la povertà”, come, con parziale calco paolino (II Cor 8,9), Francesco scrive nella Lettera ai fedeli  (51). Per Francesco la scelta della povertà è l’espressione di quel rovesciamento dei modi di essere e di pensare, abituali nella società, di cui la vita di Cristo è il modello. Per questo la povertà costituisce la componente essenziale della sequela Christi. È una strada che Francesco batte con totale coerenza, povero tra i poveri, in umile sottomissione, perché elemento intrinseco della condizione dei poveri del suo tempo, vivendo del lavoro delle proprie mani, alieno da ogni ricerca di successo e di potere. Ne offre uno splendido apologo la parabola della vera laetitia  (52). Vera letizia non è l’entrata nell’ordine di tutti i maestri di Parigi, di tutti i prelati oltremontani, vescovi e arcivescovi, o dei re di Francia e d’Inghilterra. Vera letizia non è nemmeno la conversione alla fede di tutti gli infedeli, grazie all’opera dei frati, o la capacità di fare miracoli. “Ma cos’è la vera letizia? Torno da Perugia e in piena notte arrivo qui e il tempo è invernale, fangoso e molto freddo, al punto che all’estremità della mia tunica si formano ghiaccioli d’acqua che battono sulla pelle, e sangue emana dalle ferite. E infangato e pieno di freddo vengo alla porta e dopo che ho bussato e chiamato a lungo arriva un frate e chiede: Chi sei? E io rispondo: Sono frate Francesco. E lui dice: Vattene, questa non è un’ora decente per andare in giro, qui non entrerai. E a me che insisto di nuovo risponde: Vattene, tu sei un uomo semplice e senza cultura, non ha senso che tu venga da noi. Noi siamo di ben altro livello (tot et tales) e non abbiamo bisogno di te. Ed io ancora me ne sto alla porta e prego: Per amore di Dio, accoglietemi per questa notte. E ancora egli risponde: Non lo farò. Vai all’ospizio dei Crociferi e domanda là”. Questa la conclusione di Francesco “Io ti dico che se avrò avuto pazienza e non mi inquieterò, in questo sta la vera letizia e la virtù e la salute dell’anima”.
La scelta evangelica si attua al di fuori di ogni criterio corrente di buon senso, prescindendo dalle logiche offerte dalla storia, dalla tradizione, dalle saggezze della società, priva di attese che non siano di continuare ad essere così. Non per questo è una scelta individualistica o astratta, uno strano sogno fuori del tempo. È la via della testimonianza, lo sforzo di rivelare agli altri il mistero del Cristo, incarnandolo nella quotidianità di un amore fraterno, umile e sottomesso, la cui sola volontà è di restare fedeli alla sequela Christi. Per questo Francesco non può essere un ribelle: il divenirlo avrebbe smentito il senso profondo della sua testimonianza. Non è il “buon esempio nel suo un po’ corto moralismo clericale” – lo ha osservato il padre Chenu  (53) –, ma un modo di essere diverso, alternativo ai binari correnti, un richiamo costante ad altri valori, negati o assenti nel contesto sociale e politico del proprio tempo: “Quei nuovi segni del cielo e della terra che sono grandi ed eccellentissimi agli occhi di Dio, e che da molti religiosi e dagli altri uomini sono reputati un niente”  (54).
In questi termini l’esperienza di Francesco e della fraternitas cui aveva dato vita fu di breve durata. Pienamente riassorbita nell’istituzione ecclesiastica, assunse la forma di un ordine religioso (l’ordine dei frati minori), nuovo per tanti aspetti, ma nel quale la libertà evangelica delle origini, sottomessa e non dominatrice, lasciò il posto a funzioni pastorali di governo e di disciplinamento sociale. Non erano passati quarant’anni dalla morte di Francesco che anche compiti inquisitoriali e di repressione antiereticale furono affidati ai Minori. E tuttavia, non si può non ricordarlo, il significato di quell’esperienza non andò cancellato del tutto. Nell’ordine e fuori dell’ordine l’esigenza di forme di presenza cristiana diverse da quelle prevalenti nel circuito ufficiale, restò viva e periodicamente riproposta fino ai nostri giorni.
Non c’è dubbio che l’esperienza di Charles de Foucault e dei “Piccoli fratelli”, che a lui si richiamano, si ispira anche a Francesco e al suo modello evangelico. La stessa esperienza dei preti operai quale si era venuta proponendo negli anni del dopoguerra, sembra ricongiungersi ad alcuni aspetti essenziali del primitivo francescanesimo: perché anche in essi la presenza cristiana, spoglia di ogni sacralità, si incarna nell’umanità sfruttata e sofferente delle fabbriche degli anni Quaranta e Cinquanta, rimanendo priva di ogni prospettiva che vada al di là di se stessa, che non sia di continuare come tale: essendo il resto – lavoro, sindacalizzazione, lotte, ecc. – conseguenza e frutto della loro incorporazione a quel mondo di sfruttamento al quale hanno scelto di appartenere.
Non so quanto tale nesso tra preti operai e francescanesimo delle origini sia fondato se si guarda alla consapevolezza dei protagonisti: che d’altra parte si muovevano in un contesto complessivo, sociale e di Chiesa, ben diverso da quello del passato, e dove altri dunque, e molteplici, erano i problemi cui la loro scelta intendeva far fronte. Ma già il fatto che l’accostamento e l’analogia siano possibili attesta la ricorrente riproposizione di domande di presenza cristiana capaci di recuperare concretamente aspetti e modi di essere del messaggio cui si richiamavano e di rompere insieme quella sorta di intreccio (ora mescolanza, ora alleanza) tra potere religioso e potere politico (con una tendenziale subalternità di principio del secondo dal primo); un intreccio che, al di là dei termini del suo effettivo realizzarsi, si configura come una nota saliente delle rivendicazioni e del percorso storico della Chiesa di Roma.
Le grandi contestazioni, come anche la proposta di una strada alternativa, che tra XII e XIV secolo misero direttamente o indirettamente in discussione quelle rivendicazioni e quel percorso storico, risultarono dunque perdenti. La posizione dominante delle strutture ecclesiastiche nella società restò quella che nel corso dei secoli si era venuta definendo. I poteri del papa, e conseguentemente anche gli strumenti di governo di cui egli poteva disporre, restarono sostanzialmente quelli che nelle loro grandi linee Gregorio VII aveva stabilito. I solenni pronunciamenti teocratici dei secoli successivi ad opera di un Innocenzo III o di un Bonifacio VIII si mossero sostanzialmente nel solco tracciato da Gregorio. I principi e i criteri da osservare nei confronti del papa di Roma risultarono così definitivamente fissati.
Talvolta, ma non fu solo allora come si vedrà più avanti, si andò anche oltre. Non si esitò a definirlo vicarius Dei, a parlare di lui come di un “quasi Deus in terris”, ad affermare che nell’esercizio delle sue funzioni il papa “non est homo sed Dei vicarius”, e per questo “regola vivente della fede”  (55). Su questa base i grandi teorici del potere papale, come Giovanni di Torquemada e Bellarmino, non esitarono a giudicare una “impropria lucutio” il titolo per il papa di “vicarius Petri” dal momento che egli è “vicarius solius Dei, cuius vices gerit in terris” ,di cui svolge in terra l’ufficio (56).
Sono principi e riconoscimenti rimasti sostanzialmente inalterati nei secoli successivi: poterono apparire talvolta come annebbiati o di fatto ridimensionati, nella Chiesa stessa per non dire nella società e nell’ambito delle grandi monarchie cattoliche, ma mai vennero smentiti dalla teologia romana. Non credo che la lapidaria affermazione conclusiva dell’Unam sanctam di Bonifacio VIII (“Porro subesse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, diffinimus omnino esse de necessitate salutis”) possa essere considerata, nonostante tutto, superata o accantonata dal magistero ufficiale. Ne offre una riprova il Denzinger-Schoemetzer che la dichiara l’unica definizione dogmatica della bolla, anche se con la prudente precisazione: “da restringere al regime spirituale” (57).
La latitudinaria estensione rivendicata per il potere del papa non mancò di esprimersi con manifestazioni eclatanti, come avvenne, tra XV e XVI secolo, con la solenne distribuzione tra i re cattolici, quale alto proprietario in quanto viceré del Cristo, dei continenti recentemente scoperti (58). Ma nulla di effettivo si aggiunse a quanto in linea di principio era già stato rivendicato. Né la ribellione protestante bastò a metterne in discussione i termini.

Fu l’Ottocento, in risposta all’assalto della rivoluzione, a rilanciare su larga scala, coinvolgendo profondamente il popolo cattolico, la dottrina dei poteri assoluti del papa sulla Chiesa, sugli Stati e sull’intera società, destinata a immancabile rovina se sorda ai suoi insegnamenti. Non era nulla di sostanzialmente nuovo se non forse l’estrema, vorrei dire violenta determinazione con cui si pretese affermare quei poteri assoluti su vescovi, clero e fedeli. Era la conseguenza, da una parte, della scomparsa delle grandi monarchie cattoliche e delle prerogative che avevano goduto in riferimento alle chiese dei loro domini, con le limitazioni che ne derivavano agli interventi diretti della Santa Sede  (59); ma era anche come una sorta di risposta e risarcimento, dall’altra, del fatto che Stati e società da quei poteri si erano sottratti. “Il cristianesimo riposa interamente sul Sovrano Ponte-fice”, scrisse Joseph de Maistre nel Du Pape  (60), ribadendo un concetto già ampiamente espresso nella famosa sequenza di una sua lettera a Pierre, conte di Blacas: “niente morale pubblica né carattere nazionale senza religione, niente religione europea senza cristianesimo, niente cristianesimo senza cattolicesimo, niente cattolicesimo senza il papa, niente papa senza la supremazia che gli appartiene” (61).
Nel corso del secolo, con il concilio Vaticano I, la proclamazione dell’infallibilità personale del papa e la tendenza ad offrirne una lettura massimalistica, si realizza il trionfo di quella “mistica dell’oltremontanismo” come l’ha definita il padre Tillard, che fa costantemente della figura del papa “più che un papa”  (62). Tipico a questo riguardo l’entusiastico commento di mons. Pie, uno dei campioni dell’intransigentismo, all’indomani della proclamazione conciliare: “Ormai è di fede che vi è un solo potere sovrano nella Chiesa e che questa sovranità risiede tutta intera nel vicario di Gesù Cristo”  (63). La sprezzante violenza con cui Pio IX parlò dei padri della minoranza conciliare, avversi a quella proclamazione, è largamente espressiva dell’ottica con cui egli guardava ormai a quanti dissentissero da lui, fossero pure vescovi: “(sono) pieni di audacia, follia, irragionevolezza, impudenza, odio, violenza, si servono per stimolare i loro aderenti dei mezzi soliti ad usarsi nelle assemblee popolari per estorcerne i voti”  (64). E il cardinale Giuseppe Sarto, pa-triarca di Venezia, in occasione del giubileo pontificale di Leone XIII, non esitò a presentare la figura del papa come “il vicario di Gesù Cristo in terra, anzi lo stesso Gesù Cristo vivente nella sua Chiesa, incaricato di conservare la sua divina legge, di interpretarla e di applicarla ai costumi privati e pubblici degli uomini”  (65).
Penso sia inutile insistere sul fatto che le possibili citazioni di testi papali che ribadiscono rivendicazioni di obbedienza sempre più ampia sono in quei decenni legione. Quanto più lontano ormai appariva il modello del regime di cristianità e inesigibili le rivendicazioni per l’autorità papale su Stati e società che l’avevano caratterizzato, tanto più, quasi a salvaguardarne il principio, si pretese di riaffermare e rafforzare l’assoluta autorità del papa sulla Chiesa. Pio X, dopo aver parlato del papa come di colui che “rappresenta Dio stesso” e che dunque si deve amare, ne aveva tratto le scontate conseguenze: perciò “non si fanno discussioni intorno a quello che esso dispone od esige, o fin dove debba giungere l’obbedienza ed in quali cose si debba obbedire, […] non si limita il campo in cui egli possa o debba esercitare la sua autorità”  (66).
Con altro approccio Pio XII nella Humani generis non si esprimerà diversamente: “Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, per il quale anche valgono le parole: ‘Chi ascolta voi, ascolta me’ (Luca 10,16) […]. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia fino allora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione tra i teologi”  (67).
Non sono discorsi limitati al magistero solenne, ma si ritrovano, variamente modulati, anche nella pubblicistica e nella catechesi. Non erano certamente idee isolate nell’opinione pubblica cattolica le considerazioni che Auguste Roussel, direttore dell’Univers, opponeva ad Alfred Loisy scrivendone il 12 giugno 1907, in un contesto che preludeva ormai alla sua scomunica: egli era invitato a riconoscere che“non è permesso ad un prete di ribellarsi, come fa lui, contro un insegnamento che è quello di Dio stesso, che parla per bocca del capo infallibile della Chiesa”  (68). Sono gli stessi concetti, tipici di un papalismo esasperato, con cui uno dei tanti foglietti di formazione popolare riassumeva le molteplici caratteristiche che qualificavano il ruolo del papa e dunque i doveri dei fedeli verso di lui: “La volontà del Papa è volontà di Dio”  (69).
Può sembrare un caso limite, ma non mi pare sia così se si considera l’ottica intrisa di temporalismo con cui molti ambienti cattolici guardavano al papa tra Otto e Nove-cento, quanto un Catechismo cattolico popolare, edito nel primo Novecento in Francia ma ristampato ancora negli anni Cinquanta, scriveva del papa: “Il papa esprime la sua sovranità con la corte di cui si circonda. Alla corte papale si incontra la stessa organizzazione e le stesse usanze delle corti dei sovrani secolari. […] Coloro che restano scioccati da questo apparato e ricordano che Gesù Cristo non si è mai circondato di una simile corte, dimenticano che il papa non rappresenta Gesù Cristo perseguitato dai suoi nemici e vergognosamente umiliato sulla croce, ma il divino Salvatore gloriosamente elevato al cielo. Inoltre il papa, in ragione della sua posizione, è sovente in relazione con i sovrani e i loro ambasciatori: egli deve dunque tenere conto dei loro usi se non vuole compromettersi e compromettere il suo ministero” (70). Nella sua ingenuità banalizzante è un testo che ripropone tendenze di lunga durata, quella “tentazione antica – come è stato scritto – di cancellare, nella gloria del Signore risorto, l’umile condivisione della nostra condizione con la quale Gesù ha realizzato la sua opera di salvezza”  (71).
Mi pare evidente che, secondo quest’ottica, si tratta per il papa di un ministero (di un servizio) che ha il possesso e l’esercizio del potere come necessaria premessa affinché la guida dei popoli verso la salvezza che è il suo oggetto possa essere effettiva e riconosciuta. Il fasto della sua corte, ora come un tempo, deve ricordarlo a tutti.

Si torna così là dove sono partito. Scontate a questo punto alcune domande. Quanto questo modo di intendere il potere del papa e il potere della Chiesa è ancora presente e operante a Roma e nella cultura cattolica? Quanto quel “risveglio evangelico”, che ha animato iniziative e discussioni prima, durante e dopo il Vaticano II, ha modificato l’ottica e le prospettive precedentemente dominanti, e in primo luogo il modo di pensare e di esercitare l’autorità nella Chiesa e della Chiesa? Quanto l’aspirazione a un mutamento, a una svolta, nei modi di essere della Chiesa, nei suoi rapporti interni e in quelli con la storia e con la società, un’aspirazione chiaramente presente nelle discussioni e nei testi del concilio, è stata recepita e ha inciso negli orientamenti del cattolicesimo? Quanto una tale aspirazione è ancora presente e operante? Quale è stata e continua ad essere l’influenza nella Chiesa e nel governo ecclesiastico di quell’irriducibile minoranza tradizionalista che nel concilio ha combattuto fin dall’inizio ogni prospettiva di effettivo rinnovamento nella vita e nell’insegnamento della Chiesa?
Per rispondere con un minimo di adeguatezza a queste domande sarebbe necessaria una altrettanto lunga relazione e dunque non potrò, non senza rammarico, non lasciarle in sospeso. Mi limiterò a poche osservazioni soltanto.
L’ascoltatore attento a ciò che avviene nella Chiesa cattolica, e a Roma in particolare, non avrà mancato di notare, credo, in non poche delle mie citazioni, concetti, affermazioni e giudizi che trovano evidenti riprese e analogie in dichiarazioni magisteriali di questi ultimi decenni: si pensi, tanto per fare qualche esempio, all’obbedienza nei confronti del papa dovuta da vescovi, clero e fedeli, cui la Congregazione per la dottrina della fede, riprendendo concetti più volte espressi da Giovanni Paolo II, ha dedicato, nell’ottobre 1998, uno specifico documento, in termini che sembrano voler cancellare quei nuovi equilibri che su questo punto il Vaticano II aveva cercato di realizzare: vi si afferma infatti che la potestà del papa nella Chiesa è “non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli”, ribadendo che “tutti nella Chiesa – i vescovi e gli altri fedeli – debbono obbedienza al successore di Pietro” (72); si pensi in genere alla centralità che il tema dell’obbedienza (unica via per un autentico rinnovamento) occupa nel magistero di Benedetto XVI; o ancora alla denuncia della rovina cui è destinata una società che rifiuta Dio, ossia la mediazione e l’insegnamento della Chiesa; e alla forte e costante sottolineatura del dovere dei teologi di attenersi al magistero della Chiesa e alle conseguenti censure che colpiscono quanti rivendicano un’autonomia di riflessione e di ricerca; e l’elenco potrebbe continuare a lungo. La piena continuità con aspetti centrali del magistero e dei modi di essere del passato, rivendicata con forza da Benedetto XVI, è, da questo punto di vista, un fatto che non mi pare suscettibile di smentita. Mi sembra tuttavia assai difficile da sostenere che questa era anche l’intenzione profonda che aveva mosso e animato gli orientamenti dominanti, le discussioni e le prospettive del concilio: quanto insomma ne aveva fatto un momento di speranza che andava al di là dei confini della Chiesa.
In un denso libretto pubblicato all’indomani della chiusura del concilio su L’autorità nella Chiesa, il gesuita John McKenzie ha osservato come la Chiesa contemporanea non sia affatto preparata ad affrontare una discussione che abbia al suo centro quei testi evangelici che indicano la diakonia, il servizio, come funzione dell’autorità e proprio per questo ne paragonano i detentori a servi e a bambini, ciò che indurrebbe a pensare che “non solo non raccomandino il comando e il controllo, ma positivamente li proibiscano”. È anzi chiaro, egli aggiunge, che “una pura e semplice adozione di questa tesi produrrebbe istantaneamente il caos nella Chiesa che noi conosciamo. Ciò a cui bisogna aspirare non è il caos amministrativo, ma una trasformazione dell’idea e dell’uso dell’autorità, e sarebbe assurdo pretendere che una simile trasformazione possa compiersi in modo istantaneo. Ma è forse assurdo pensare ad una simile trasformazione come ad un ideale che la Chiesa potrebbe ben cominciare a realizzare?”  (73). Sono parole sagge, domande pienamente in linea, direi, con le prospettive del concilio. Credo però si debba aggiungere che siamo ben lontani dal vederle in atto. Altre, mi pare di poter dire, sono le prospettive che Roma persegue: la prepotente ripresa, nell’ambito della stessa obbedienza romana, del tradizionalismo anticonciliare ne offre un’ulteriore implicita conferma. Non credo vi sia bisogno di ricordare come il potere della Chiesa (gerarchia e papato) sugli orientamenti e l’organizzazione della società costituisca un elemento centrale delle sue rivendicazioni.
Resta insomma più che mai aperta la questione che la vicenda storica di cui ho proposto alcuni tratti ha lungamente deformato o rimosso: come trovare e realizzare un linguaggio, un modo di essere e di porsi delle strutture ecclesiastiche, che sia in sintonia, e non in contraddizione, con il linguaggio e le prospettive del messaggio di cui si pretendono depositarie e portatrici?

Giovanni Miccoli


1) Testo latino e traduzione italiana dell’enciclica in “La Civiltà Cattolica” (da cui cito – d’ora in poi CC), 77 (1926), vol. I, pp. 97-126. Sui suoi presupposti e il contesto in cui nacque cfr. D. Menozzi, Liturgia e politica: l’introduzione della festa di Cristo Re, in Cristianesimo nella storia, Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri, M. Toschi, il Mulino, Bologna 1996, pp. 609-656. Per i caratteri della dottrina e gli orientamenti delle numerose associazioni sorte con riferimento alla regalità di Cristo cfr. sempre di Menozzi, La dottrina del regno sociale di Cristo tra autoritarismo e totalitarismo, in D. Menozzi-R Moro (edd.), Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), Morcelliana, Brescia 2004, pp.17-55.
2) CC, p. 101.
3) CC, p. 106.
4) CC, p. 105.
5) CC, p. 107 sg.
6) Cfr. M.-D. Chenu, La fin de l’ère constantinienne, in Un concile pour notre temps, “Rencontres” 62, Cerf, Paris 1961, p. 73.
7) CC, p. 108.
8) CC, p. 109.
9) CC, p. 109 sg. Sull’enciclica Annum sacrum cfr. D. Menozzi, Il primo riconoscimento pontificio della regalità di Cristo: l’enciclica “Annum sacrum” di Leone XIII, in Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, Quodlibet, Macerata 1998, pp. 287-305.
10) CC, p. 110.
11) CC, p. 11. Per i passi della Ubi arcano riguardanti lo stesso pro- blema cfr. I. Giordani, Le encicliche sociali dei papi da Pio IX a Pio XII (1864-1956), Studium, Roma 1956, pp. 320 sgg.
12) Pio XI ne tesse l’elogio già nella Ubi arcano, 18, ed. cit., p. 321.
13) CC, p. 116 sg.
14) Cfr. al riguardo Menozzi, La dottrina del regno sociale di Cristo cit., p. 18.
15) Cfr. Ubi arcano, ed. cit., p. 310.
16) Per la politica concordataria di Pio XI un’analisi tuttora valida offre L. Salvatorelli, Pio XI e la sua eredità pontificale, Einaudi, To- rino 1939.
17) CC, p. 124.
18) CC, pp. 110 sgg., e 117 sg.
19) CC, p. 118 sg.
20) Cfr. ad es. F. de Lamennais, De l’avenir de la société, in L’Avenir 1830-1831, antologia …a cura di Guido Verucci, Edizioni di Storia e Letteratura.Roma 1967, pp. 564 sgg. (devo la segnalazione a Daniele Menozzi, che ringrazio).
21) Cfr. Y. Congar, Titres donnés au Pape, in “Concilium”, 108 (1975), p. 63.
22) Cfr. Sermo 82, 1, in Migne, Patrologia latina (d’ora in poi PL), 54, c. 422 sg. (cit. in C. Mirbt- K. Aland, Quellen zur Geschichte des Papsttums und des römischen Katholizismus, Bd. I, J.C.B. Mohr, Tubingen 1967, p. 208).
23) Epistola 12 (“Famuli vestrae pietatis”), in Mirbt-Aland, Quel- len zur Geschichte des Papsttums cit., p. 222 sg..
24) Sono ancora da leggere le pagine su Gregorio Magno di O. Ber- tolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Cappelli editore, Bologna 1941,in particolare pp. 231 sgg.
25) Cfr. Reg. VIII, 29 (luglio 598), in Mirbt-Aland, Quellen zur Ge- schichte des Papsttums cit., p. 245.
26) Cfr. Gregorio di Tours, Historia Francorum, II, 29-30, ed. G. Guadet. Vol. I, Paris 1836, pp. 208-214.
27) Cfr, Gregorio Magno, Epistolae, IX, 56, in MGH, Epistolae, II, ed. Ewald-Hartmann, Berlin 1899, p. 331.
28) Ne ho illustrato radici e aspetti in I monaci, in L’uomo medieva- le, a cura di Jacques Le Goff, Laterza, Bari 1987, pp. 39-80. Un qua- dro articolato di tali posizioni offre Théologie de la vie monastique. Etudes sur la tradition patristique, “Théologie”, 49, Aubier, Ligugé (Vienne) 1961, pp. 571.
29) Così Bruno di Querfurt, Vita Sancti Adalberti, cap. 16, MGH, SS, IV, p. 603. Ho trattato ampiamente di tali aspetti in “Ecclesiae primitivae forma”, in Chiesa Gregoriana. Ricerche sulla Riforma del secolo XI, La Nuova Italia, Firenze 1966, in particolare p. 244 sgg. (nuova edizione a cura di A. Tilatti, “Italia sacra”, 60), Herder, Roma 1999, pp. 406.
30) In Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Fi- renze 1759 (poi 1901), t. XIX, col. 131.
31) Ne ho tracciato un rapido profilo in La storia religiosa, in Storia d’Italia, II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Einau- di, Torino 1974, pp. 480-516.
32) Cfr. Gregorio VII, Registrum III, 10, ed. E: Caspar, Berlino 1955, p. 265 sg.
33) Registrum V, 5, p. 353.
34) Cfr. Y. Congar, Neuf cents ans après. Notes sur le schisme orien- tal, Editions de Chevetogne 1954, pp. 95.
35) Registrum II, 55a, p. 202 sgg.
36) Cfr. Gustave Thils, La primauté pontificale, la doctrine de Va- tican I, les voies d’une révision, Ed. J. Duculot, Gembloux 1972, p. 174.
37) De consideratione, lib. IV, cap. III, 6, Migne, P. L. 182, c. 776 (in Mirbt, Quellen zur Geschichte des Papsttums cit., p. 302). Vedi anche B. Jacqueline, Papauté et épiscopat selon Bernard de Clairvaux, Ed. du Centurion, 1963, p. 70.
38) De consideratione, lib. II, cap. VIII, 16, ed. cit., c. 752, cit. in Jacqueline, Papauté et épiscopat cit., p. 41.
39) Cfr, Jacqueline, Papauté et épiscopat, cit., pp. 42 sgg.
40) De consideratione, lib. IV, cap. VII, 23, ed. cit., c. 788, cit. in Jacqueline, Papauté et épiscopat cit., p. 61.
41) Cfr. Pietro Diacono, Chronica monasterii casinensis, lib. IV, cap. 116, in MGH, SS, VII, p. 833.
42) Cfr. Alberto di Stade, Annales Stadenses, in MGH, SS, XVI, p. 347. Su questo aspetti vedi La storia religiosa cit., pp. 602 sgg.
43) Cfr. Giovanni di Salisbury, Polycraticus, lib. IV, cap. 24, in PL, 199, cc. 623 sgg.
44) Ivi, c. 626.
45) Cfr. Ekkehardo, Chronicon, A. 1116, in MGH, SS, VI, p. 251. Vedi al riguardo per il contesto “Ecclesiae primitivae forma” cit., in particolare pp. 273 sgg.
46) Così riassume la predicazione romana di Arnaldo Giovanni di Salisbury, Historia pontificalis, cap. 31, in MGH, SS, XX, p. 537 sg.
47) Cfr. La storia religiosa, cit., p. 677 sg.
48) Innocenzo III, Epistolae, XI, 29, in PL, 215, c. 1359 sg. Sui caratteri della repressione antiereticale promossa da Innocenzo III vedi La storia religiosa cit., in particolare pp. 689 sgg.
49) Cfr. Cesario di Eisterbach, Dialogus miraculorum, ed. J. Stran-ge, Dist. V, cap. 21, vol. I, Coloniae, Bonnae, Bruxellis 1851, p. 302.
50) Ne ho illustrato I tratti principali in La proposta cristiana di France-sco d’Assisi, in Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cri-stiana, Einaudi, Torino 1991, pp. 33-97. Per la storia delle origini francescane e lo sviluppo successivo dell’ordine vedi G.G. Merlo, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Editrici Francescane, Padova 2003, pp. XX-521.
51) Lettera ai fedeli II, in Francesco d’Assisi, Scritti, Testo latino e traduzione italiana, a cura di Aristide Cabassi, Editrici Francescane, Padova 2002, p. 474.
52) De vera letitia, in “Francesco d’Assisi”, Scritti cit., pp. 538 sgg.
53) Cfr. M.D. Chenu, L’expérience des Spirituels au XIIIe siècle, in “La Parole de Dieu”, II: L’évangile dans le temps, Paris 1964, p. 65.
54) Così Francesco nella Lettera ai custodi, in Scritti cit., p. 330.
55) Cfr. J.M.R. Tillard, L’ évêque de Rome, Cerf, Paris 1982, p. 81 sg. Vedi anche, per i testi offerti anche se minimizzante nell’interpretazione, J. Rivière, Le pape est-il “un Dieu” pour Innocent III?, in “Revue de Sciences religieuses », 2 (1922), pp. 447-451
56) Cfr. Congar, Titres donnés au pape, cit., p. 61.
57) Cfr.Denzinger/Schönmetzer, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Editio XXXII, Herder 1963, p. 279 e nr, 675.
58) Cfr. Chenu, La fin de l’ére constantinienne, cit., p. 69.
59) Cfr. a questo riguardo le considerazioni di Claude Gerest, Le pape au XIXe siècle: histoire d’une inflation, in “Lumière et Vie”, 26, n° 133 (1977), p. 71 sg.
60) Cfr. J. de Maistre, Du Pape, Edition critique avec une Introduction par J. Lovie e J. Chetail, Droz, Genève 1966, p. 24.
61) Cit. in Tillard, L’évêque de Rome, cit., p. 36.
62) Tillard, L’évêque de Rome, cit., p. 33 e passim.
63) Cit. in Tillard, L’évêque de Rome, cit., p. 42 sg.
64) Cit. in G. Martina, La personalità di Pio IX, in R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), edizione riveduta a cura di G. Martina SI, Editrice S.A.I.E., Torino 1976, p. 844.
65) Cfr. G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società, II, Herder, Roma 1998, pp. 282 sgg..
66) Così Pio X , il 18 novembre 1912, ad un delegazione dell’ “Union apostolique” (in CC, 63, 1912, vol. IV, p.613 sg.). Ma vedi anche per alcune frasi omesse il mio Intransigentismo, modernismo e antimoder-nismo: tra risvolti di un’unica crisi, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 8 (1990), p. 35 sg.
67) Cfr. Tillard, L’évêque de Rome, cit., p. 52, e Denzinger.Schönmetzer, Enchiridion cit., nr. 3885.
68) Cfr. A. Loisy, Quelques lettres sur les questions actuelles et sur des évé-nements récents, chez l’auteur, Ceffonds 1908, p. 274.
69) Cfr. Svegliarino per i nostri giorni, Venezia 1860, p. 1.
70) Cit. in Tillard, L’évêque de Rome, cit., p. 49 sg.
71) Cfr. Bruno Carra de Vaux, Les images de la papauté au cours des siècles, in “Lumière et Vie”, 26, n°133 (1977), p. 48.
72) Cfr. Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), in Enchiridion Vaticanum, 17 (1998), nr. 1588-1608, pp. 1197-1207 (i passi citati nel testo nr. 1195 e 1199, pp. 1201 e 1203). Sull’emergere di tali tendenze vedi In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Rizzoli, Milano 2007, pp. 108 sgg.

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