Convegno nazionale PO / Bergamo, 2 giugno 2012

SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA

(3)
La relazione di Felice Scalia


Come una premessa.
Uno l’Assoluto ma con tanti “assoluti”

Se vogliamo dare uno sguardo a tante realtà ecclesiastiche si ha l’impressione che ci siano dei sussulti nella storia della chiesa che poi diventano blocchi insormontabili, muri. Avvenimenti del tempo, ritenuti positivi, vengono assolutizzati e quasi circonfusi di caratteristiche eterne.
Nel 313 si passa dalla chiesa evangelica alla chiesa costantiniana. Respirarono i martiri delle catacombe, ma boccheggiò il Vangelo ( 1). Fu tuttavia un “fatto” l’editto imperiale che cambiò la chiesa. E questa resta “costantiniana” per secoli  (2).
La traduzione in greco della Bibbia fu un avvenimento umano e culturale di primaria importanza, ma poi lo si eleva al rango di rivelazione immutabile (3).
L’uso del latino in Occidente è un fatto di comprensione e di comunicazione popolare, ma poi il latino diventa l’unica lingua sacra dalle nostre parti.
L’accentramento del potere romano con papa Leone I (440-461) e poi con Gregorio VII (1073-1085), dovuto a fatti storici che magari lo giustificano, diventa l’unico modo di esercitare il “munus petrinum”. Le caratteristiche autoritarie del governo ecclesiastico, a poco a poco, diventano verità rivelata (4).

L’elenco potrebbe continuare. Ma quest’ultimo è il punto che ci interessa. È sotto gli occhi di tutti il carattere assolutamente piramidale nella chiesa che giunge a giustificare una sorta di “cursus honorum” ed una concezione molto personalizzata di “ogni potere”  (5) nella chiesa, da far pensare che la collegialità restaurata dal Vaticano II sia solo un errore dello Spirito Santo, o il frutto indebito di uomini che vogliono distruggere il vangelo e la fede cristiana. Forse la gente non nota simili sottigliezze clericali, ma avverte con fastidio questo complesso corteo di personaggi privi di personalità, ostaggi del loro rango e del decoro esteriore da preservare ad ogni costo, quasi schiavi degli obblighi legati alla loro condizione.
Credo che abbiamo il diritto di chiederci a quale titolo avvengano queste assolutizzazioni. E che valore abbia l’assunto secondo il quale Gesù avrebbe propugnato uno stile evangelico individuale, lasciando poi alla sua chiesa (che deve strutturarsi e istituzionalizzarsi per assicurare il futuro dello stesso vangelo) la libertà di assumere le regole del tempo in cui vive. Vissuta in tempo di imperi e monarchie assolute, deve prenderne i caratteri. E se questi caratteri sembrano contraddire il vangelo, è perché indebitamente si vogliono come regole della “societas” ciò che da Gesù era stato proposto alla singola persona. Il Cristiano deve essere povero, la chiesa può non esserlo, anzi non deve esserlo; deve avere infatti i mezzi per sopravvivere. Alla chiesa gerarchica tocca comandare, al singolo fedele ed alle comunità locali ubbidire. La chiesa quando prescrive e comanda è infallibile, a sbagliare possono essere soltanto i singoli “figli della chiesa”  (6).
Discutibile per quanto si voglia, questo è lo stato delle cose. Le assolutizzazioni ci sono. I sussulti nuovi che possono verificarsi nella chiesa sono estinti sul nascere, tacciandoli di eresia, emarginandoli, colorandoli di mancato rispetto all’autorità, di perversa volontà di far soffrire i Pastori legittimi. Scrive Congar: “Noi siamo portati a vedere, non soltanto il mistero della Chiesa, ma tutte le realtà ecclesiastiche (gerarchia, sacramenti, ecc.), in una specie di situazione sopratemporale, e pertanto intemporale. È una delle ragioni per cui ci è così diffi­cile, talvolta anzi ci sembra temerario e vano, cercare­ d’immaginare nuove forme, un nuovo stile, per queste sacre realtà.”

Un rischio per la fede, una normalità per la religione

Perché questi “blocchi”?
Dal punto di vista psico-sociale possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una umanissima perversione della religione, ad una scheggia impazzita o ad un meteorite fuori orbita. Stiamo parlando di quel tipo di religiosità (trasversale a tutte le religioni – e perfino all’ateismo militante) che consiste nella conformità assoluta ad un ordine, ad una casta, ad una classe. Religione di un dio perverso che chiede all’uomo di sacrificare il proprio pensiero, di rinunciare alla propria coscienza, autorizzando perfino a sacrificare la vita dei dissidenti (7).
Dal punto di vista teologico, l’unica spiegazione che si potrebbe dare, sarebbe simile a quella fornita, in altro campo, da Francis Fukujama: l’uomo è giunto all’apice della sua evoluzione; non c’è più storia ma ripetizione del già accaduto. Similmente la “storia della salvezza” sarebbe giunta al suo apice di rivelazione, Dio ha detto tutto su come devono andare le cose, basta prenderne atto e ripeterle nei secoli. Se così stessero le cose, bisognerebbe cancellare quell’invito gesuano a camminare fino alla perfezione divina, fino alla consumazione nell’identità nella vita trinitaria, e dire che quello che abbiamo raggiunto (santo nella istituzione, problematico nel singolo battezzato) è il massimo che può venire fuori da creature umane limitate.
Bisognerebbe cancellare ogni teologia della speranza, lo stesso “principio speranza”. Questo nessuno lo vuole o, comunque, osa farlo. E se si pensasse che siamo di fronte ad un “indurimento del cuore”, ad uno stravolgimento del vangelo, ad un ritorno alle “tenebre” per non vedere le nostre “opere malvagie”?
Insomma è possibile che ci troviamo di fronte ad un peccato della chiesa? Ad uno di quei casi in cui il Cristo del vangelo è contraddetto dal Cristo della storia?
In linea di principio per chi segue il Vaticano II questo è possibile. Si veda il capitolo 8 della Lumen Gentium. C’è una chiara distinzione tra Gesù il Cristo, “santo, innocente e immacolato” e “la chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione… mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento”.
Prendiamo piuttosto atto che i sussulti della storia, le “incursioni dello Spirito” nella vita della chiesa, i cambiamenti avvenuti, ciò che, in altri termini, era visto come “novità” rispetto ad un “prima” ormai inadeguato alle esigenze del vangelo, giustifica gli ulteriori sussulti. Quanto meno il nostro diritto a non assolutizzare nulla e ad attendere creativamente la venuta del “nuovo” per suggerimento di quello Spirito che “non sai donde venga né dove vada”. La conoscenza delle forme storiche di tante realtà ecclesiali – ag-giunge Congar – “ci aiuta ad affermare meglio la permanenza­ dell’essenziale nel cambiamento delle forme; ci permette di situare con maggior esattezza l’assoluto e il relativo, e così di essere più fedeli all’assoluto stesso, adattando il relativo alle esigenze dei tempi” (8).

Il “potere” come problema

C’è una grande verità nella vita: o creare un proprio sistema di vita e acconsentire alla vita con tutto se stessi, o sottostare al sistema di un altro e vivere negli interessi di chi ci domina. Il mestiere dell’uomo non è primariamente ubbidire, neppure ragionare o stare in pace, ma creare il proprio volto, aprire i propri occhi, avere uno sguardo personale sul mondo e sul destino umano, e catapultarsi dentro in questa vita piena, nella certezza che sfasature, errori perfino, saranno corretti nel tempo dallo stesso percorso che facciamo. Ad una sola condizione: se siamo onesti con noi stessi e con Dio.
Nella storia pare di scorgere una vera e propria paura della libertà da parte di masse che si consegnano ad un “potente”, e dall’altro lato una minoranza di potenti che profittano di questa “fuga” per affermare e conservare i loro privilegi  (9). I regimi “assoluti” che fondano la loro legittimità sulla loro forza e sull’arbitrio armato (Sap 2,11) sono la regola nella storia conosciuta  (10). La democrazia è giovane nella sua formulazione, ma praticamente spesso non è stata altro che una forma mascherata di assolutismo.
In un regime assoluto, dove ciò che conta è che il potere rimanga in mano a chi ce l’ha (legittimamente o meno, poco importa), gli anni dell’individuo passano tra decisioni difficili da prendere, rischi da evitare, tentativi frenetici di venire a patti con la propria coscienza, logoramenti interiori. La fiducia poco per volta irrancidisce. Non si sa chi si è, che si vuole, se l’umano sia diventato un disumano muoversi secondo logiche impersonali, perfino crudeli, ma ritenute necessarie. Non si può pensare, riflettere, perché non esiste altra via accessibile se non quella più breve che conduce allo scopo in modo diretto. Non si può neppure misurare la violenza; c’è da abbracciarla, tutta, tutt’uno col potere da conservare o conquistare, se conduce allo scopo.
Quando si tocca questo fondo l’uomo si accorge che il potere lo ha consumato fino all’osso, si è rivelato bestiale, demoniaco, e forse c’è ancora uno spiraglio per decidersi a cambiare strada. Oppure constata che tutto è perduto perché lui non può vivere senza potere, ed è inferno per sé, minaccia costante per gli altri. Una terribile affermazione attribuita ad Andreotti: “Bisogna amare così tanto Dio per capire come sia necessario il male per raggiungere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anche io”  (11).

La parola “potere” porta con sé una grande ambiguità. Può significare la capacità effettiva di un uomo di imporsi sugli altri uomini quasi fossero sua proprietà. Può indicare una legittima entità a cui è stato demandato il compito di reggere e regolare la vita di una comunità. Può parlare di “potere” chi conosce una determinata disciplina, una competenza. Uno scienziato che scopre un segreto della natura ha certamente potere rispetto a chi la ignora. Infine può dire di avere potere chi si carica della responsabilità di dirigere un ospedale, una scuola o anche solo una famiglia.

Collegato con il “potere” c’è il termine “autorità” o “autorevolezza”. Ordinariamente il potere civile, militare, fi-nanziario ha sempre autorità, ma non sempre autorevolezza. Il discrimine forse sta solo qui, se le cose si guardano alla radice: c’è un “potere-dominio” e c’è un “potere-servizio”. Il primo si fonda sulla essenziale disuguaglianza tra umani (esiste il “superiore” e l’uomo “inferiore”), il secondo si rifà alla comune origine di tutti gli uomini, alla loro radicale uguaglianza nella dignità ed alla possibilità che essi hanno di aiutarsi vicendevolmente a crescere mettendo a frutto i doni ricevuti dal Creatore. Possiamo tranquillamente affermare che nella storia dell’umanità si conosce molto “potere-dominio” e poco, pochissimo “potere-servizio”. Si usano le proprie capacità, le circostanze esterne, le condizioni di nascita, le amicizie, le alleanze, per accrescere il dominio su quante più creature sia possibile.
Questa predominanza storica del potere-dominio ha fatto pensare a qualcosa di naturale, ad una sorta di diritto di gente privilegiata, di “sacri lombi”, a piegare ai propri interessi la massa, magari con scuse plausibili, quasi che la consegna al Principe fosse il prezzo che il popolo pagava per la difesa da eventuali nemici esterni. Così radicata questa convinzione, che l’insegnamento di Gesù riguardo al potere, da uomini e nazioni cristiane, è stato ridotto all’ambito familiare al massimo, quando non è stato del tutto ignorato.

Gesù e il potere dell’uomo sull’uomo

Gesù di Nazareth che “Parola” ha detto agli uomini sul potere e sui potenti? Che parola sulla libertà e dignità umana?
Intanto Gesù è cosciente di avere ricevuto “ogni potere sulla terra e in cielo”; sa di essere “re”. Certamente ha il “potere di rimettere i peccati”. Lasciando ai biblisti uno studio dettagliato su questo argomento, una cosa è certa: Gesù non usa mai il suo potere per dominare (“il mio regno non è di questo mondo e nessuno combatte per difenderlo”), ha contestato questo tipo di potere (“Non chiamate nessuno padre-padrone-maestro perché siete fratelli” ), ha esercitato il potere-servizio come unico legittimo (Gv 13). Tuttavia è stato tentato dal potere-dominio fin dall’inizio della sua vita pubblica, e vive questa possibilità come qualcosa di satanico e demoniaco.
La primitiva comunità cristiana accoglie questo messaggio definendo uomo vero non il ricco che si vanta della sua superiorità e quindi del suo “diritto di rapina”, ma l’uomo che “serve”, che si dona perché l’altro “sia” (Fil 2,6). Il cristianesimo con la sua Buona Notizia doveva essere “la religione dell’uscita dalla religione” – scrive M. Gauchet – cioè da quel tipo di religione che consiste nella conformità assoluta ad un ordine, ad una casta, ad un gruppo di potere che si autoproclama sacro e che – come abbiamo notato sopra – chiede all’uomo di sacrificare il proprio pensiero, di rinunciare alla propria coscienza.
Che il ‘potere’ possa essere pensato, anche da Gesù di Nazareth, come “demoniaco” pare un’affermazione azzardata, quasi si vagheggiasse una società di irresponsabili anarchici e beati “figli dei fiori”. Non lo è, se si prende potere come potere-dominio. Si contesta nel modo più netto il dovere di un uomo di avere padroni, di appartenere in senso stretto a qualcuno (come pretendevano i maschi in epoca romana che parlavano di moglie e figli come “res pater familias”), come gli si contesta il diritto di avere “servi”, “uomini suoi”, gente votata ad eseguire senza riserve i suoi comandi, anche quando si manifestano ben oltre la moralità e la giustizia. I primi cristiani hanno rigettato il dovere di avere padroni ed il diritto di avere servi, non tanto rigettando l’istituto della schiavitù quanto rifiutandosi, se militari, di emettere il “sacramentum”, il giuramento di assoluta obbedienza all’autorità dell’Imperatore. E pagarono con la vita.
Per rendersi conto di quanto in effetti sia “diabolico” il potere-dominio forse bisogna riandare alla natura profonda dell’uomo. È un solitario l’uomo, un assoluto? Una monade chiusa in se stessa, “senza porte e finestre” che ha da fare con altri “assoluti” da strumentalizzare o, appunto, dominare? Oppure l’uomo è una relazione, una creatura che deve ad altri ciò che ha, limitato e bisognoso essenzialmente di altri, chiamata radicale a donarsi, riversarsi nelle persone che incontra e che ama? Insomma, l’”io” precede il “noi”? La libertà precede o segue la responsabilità? Il primo fratricida, Caino, si credeva un “assoluto” a cui il fratello dava fastidio. Non è “custode” di nessuno lui. Solo padrone di chi è meno forte di lui. Ecco la dissociazione, la disgregazione e dunque il “diabolico”: due creature che sono relazione sostanziale dell’uno all’altro, sono separati dalla irresponsabilità di un “forte” che si scrolla da dosso ogni dovere di cura ed ogni unità di origine.

Per il Creatore, l’uomo fatto a sua immagine, ha il dovere di sapere in che orizzonte vive, quale “casa” abita, dove è giunto il percorso di umanizzazione. Ha anche il dovere di sapere che ne è degli altri. Questo pensa Eloim nel Libro della Genesi, ma Adam, l’uomo, non è d’accordo, e fa registrare al Padreterno due fallimenti. Quando pone la domanda “Adamo, dove sei? Dov’è la tua umanità? A che punto è il tuo cammino?” – la coppia umana è latitante, dietro un cespuglio, nascosta a se stessa e al Mistero della Vita. E poco dopo, quando Eloim chiede “Caino, dov’è tuo fratello?” appare chiaro che Abele è vittima di una violenza blasfema che si autogiustifica quasi che al mondo questa della forza sia l’unica legge valida.
Fino a quando non si riannodano i legami un giorno recisi, fino a quando non ci si sente “responsabili” dei propri fratelli, la voglia di dominarli non scomparirà dalla faccia della terra.

La chiesa e il potere – il potere nella chiesa

Punto fondamentale: la chiesa di oggi e il Dio che essa presenta, aiutano la creazione di un ambito di libertà che permetta una crescita dell’uomo e di tutto l’uomo in dignità e fratellanza? O la ostacolano? Liberano l’uomo o lo imprigionano? Lo preparano ad essere libero figlio di un Dio innamorato dell’uomo, o figlio della paura e necessariamente nemico di ogni altro uomo?
Mi sembra di potere affermare che l’invocazione ad una “verità che libera”, il richiamo ad un regime di “grazia” e di libertà profonda fatto da Paolo, una liberazione dai legami della Legge, cose come queste, furono presto dimenticate dai cristiani e dalla stessa chiesa gerarchica  (12).
A partire dalla “svolta costantiniana” la chiesa non se la sente più di condannare il potere-dominio esercitato dai re e imperatori che si proclamavano cristiani. Nei secoli successivi non condannerà neppure l’assolutismo. Non le sarà mai facile ridimensionare il potere dell’uomo sulla donna, la società patriarcale e maschilista. Non tirerà mai le conseguenze pratiche del valore della coscienza come criterio ultimo-pratico delle scelte nella vita  (13). La chiesa condanna solo dettagli, eccessi, ma sostiene il sistema. In fondo, for-se, era impossibilitata a farlo, dato che essa stessa ben presto era passata dal potere-servizio che costava sangue e vite umane, al potere-dominio portatore di privilegi, denaro, splendore di guardie armate, infallibilità, immunità, sotto la protezione di imperatori a tutto interessati eccetto che al vangelo ed al suo annunzio di liberazione totale (14).
Non mi pare esistano storici giunti ad affermare che la chiesa, custode del potere-servizio, non abbia mai ceduto alla seduzione del potere-dominio. Tentativi di ieri e di oggi di “contestualizzare” gli avvenimenti, ce ne sono. Apologisti che si imbarcano in imprese perdute, pure. Del resto il lavoro di questi ultimi consiste nell’esporre il contesto storico e nell’evidenziare gli aspetti positivi anche di certi papati oscuri.

La chiesa è passata dal “potere – servizio” al “potere – dominio” per via di un processo di istituzionalizzazione che ha preso per modello i potenti di questo mondo. “Societas perfecta” 15 – si è autodefinita la chiesa, allontanandosi piut-tosto vistosamente da quella “ekklesia di Dio” (assemblea pubblica, di tutta la comunità) con cui la comunità cristiana chiama se stessa a Gerusalemme 16. Così si è dotata di cen-tralismo imperiale, di palazzi, leggi, tribunali, carceri, soldati, cursus honorum, carriere, privilegi e… corruzione.
Il tutto per garantire l’annunzio del vangelo e del “Regno” di Dio. Solo che i criteri di un “regno mondano” sono radicalmente opposti a quelli che strutturano il “regno di Dio”.
Nel “regno di Dio”, amore, giustizia, pace, rispetto della dignità infinita di una persona, legame indissolubile tra fratelli, comune obbedienza alla Parola, cammino di purificazione per giungere alla pienezza della vita del Cristo nella propria carne, sono le caratteristiche di un popolo di fratelli che vanno verso la Vita con ruoli diversi ma con uguale dignità. Nessuno è maestro di un altro, ma tutti obbedienti alla Parola ed alle sollecitazioni dello Spirito.
Nel regno mondano la sottomissione a chi comanda, l’intangibilità dei potenti, il dovere di sottostare a regole rigide anche quando imprigionano la vita, l’uso della coercizione e della forza, la rinunzia alla voce della propria coscienza, sono elementi portanti e, per certi versi, irrinunciabili. Una chiesa centralizzata, un papa-re, un assolutismo dogmatico che prescinde dalla collegialità dei successori degli Apostoli, trasformano inesorabilmente in potere-dominio quel potere-servizio che ci era stato donato (17).

Quando in una istituzione (laica o religiosa che sia) c’è una persona che ha un enorme potere perché occupa una posizione più elevata e centrale rispetto agli altri, si crea il “sistema della corte”. Chi in questa istituzione ha anche un ruolo dirigenziale, non agisce in nome proprio, ma dell’”unico signore” e da lui solo dipende per avere, conservare, difendere privilegi, status sociale e funzioni. Il “signore unico” distribuisce benefici materiali e spirituali, onore o disonore, può togliere o aumentare qualsiasi potere delegato. In questo sistema la minima sfumatura di umore o di parere nel “signore” ha una enorme importanza per gli uomini di “corte”, per la loro sopravvivenza. Inutile cercare libertà di pensare e di proporre nelle “corti”. Si ha un servilismo più o meno interessato, più o meno onesto. L’obiettivo irrinunciabile è stare in sella col “signore”, dunque difenderlo anche nell’indifendibile. I “cortigiani” possono essere tra loro ostili, ma la “corte” è massa; e con questa sua compattezza, con questa autogiustificazione quotidiana, non solo tende a difendere sempre se stessa, ma diventa maestra di vita per tutta la nazione. Chi pensa ed agisce diversamente dal “signore” e dai “cortigiani” è nemico del popolo e della stessa civiltà con cui la “corte” si identifica.
In questo sistema il “signore” è l’unico “potente” in senso stretto, dunque non può non avere che sottomessi, servi. Nessuno uguale a lui, ma tutti sotto di lui. Chi aspira a crescere troppo è un nemico.

È difficile pensare che la chiesa-istituzione possa essere pensata immune dai difetti del “sistema della corte”. Solo che bisognerebbe vigilare molto perché quando la chiesa-mistero diventa chiesa-istituzione, il “mistero” è in pericolo, minacciato dalla stessa istituzione. Quest’ultima non si preoccupa principalmente del fine per cui è nata (la custodia e la trasmissione del mistero cristiano) ma di se stessa, della propria sopravvivenza, del proprio “onore”. “Ahi, Costantin di quanto mal fu matre” – dice Dante. La chiesa centrata principalmente sull’istituzione rischia di abiurare a Dio e di adorare i nuovi vitelli d’oro derivanti dal potere-dominio. Gli uomini del “sistema della corte” credono di dovere rivendicare per sé il potere dell’onnipotenza del giudizio, del “potere delle chiavi”. Essi assolvono e condannano tutti gli altri. “Sederanno a giudicare le 12 tribù di Israele”, dicono spesso di sé.

Uscite di sicurezza?

In un mondo come il nostro che consacra il potere di pochi big della finanza sull’uomo, dove il “pensiero unico” è diventato l’unico pensiero, non si avrebbe bisogno di una chiesa che esercita nudamente il suo potere come servizio alla liberazione dell’uomo? Non si avrebbe urgente bisogno di questa “profezia”?
Ha ragione Fiorini quando afferma che “è proprio sulla concezione del potere e del servizio, sul loro rapporto sostanziale, sulla presenza di fattori non riconducibili alla sostanza del Vangelo, quanto piuttosto a meccanismi mondani introdotti e strutturati… su tutto questo occorre il coraggio di cercare la purificazione. La nuova situazione del mondo, la posta in gioco che si sta vivendo in questi decenni esigono una chiesa diversa da quello che appare ancora come un apparato di potere.”

Qualcuno pensa che dalla sopraffazione del “potere-dominio” sul “potere-servizio” non si possa uscire. La parabola della zizzania indica che c’è qualcosa di inestirpabile nella storia umana, e forse una di queste è l’abuso del potere. Il potere-dominio farebbe così parte della storia della salvezza.
Personalmente rimango molto perplesso. La chiesa non può rinunziare a recuperare la sua libertà e la sua verità. Tutto ciò è doloroso, costa. Se si è lasciata condurre da “cattivi maestri” (quanti, anche in buona fede, hanno concepito la chiesa come potere accanto ad altri poteri mondani) è tempo che prenda come criterio della sua organizzazione le prospettive del “Regno” di Dio e non dei monarchi della terra. Il suo potere deve essere solo servizio per la crescita in comunione, libertà, responsabilità, dignità di ogni figlio di Dio, chiamato ad inserirsi nella vita trinitaria. Non è una agenzia di consenso, non è una holding o una multinazionale che misura sui numeri il suo successo. Non è neppure una centrale di sapere o di ideologie elaborate a Roma ed imposte al mondo. È figlia del vangelo, non padrona.
Stiamo cercando di dire che il potere-dominio (con i suoi corollari di fasto e ricchezza) si supera solo in una nuova coscienza evangelica. Così la chiesa deve investire sull’annuncio più che sulla dettatura di regole e norme che sarebbero ricavabili da una retta ragione. A costo di non essere compresa, perché da troppo tempo legata a poteri mondani fino all’avallo di leggi equivoche o di indirizzi legislativi disumani (cfr. il “pacchetto sicurezza”, le azioni di guerra, il sovvertimento della pari uguaglianza di fronte alla legge, lo sterminio del mercato di lavoro…) questa chiesa deve trovare nelle parole del suo Signore la “magna charta libertatum” delle sue scelte e delle sue istituzioni. Mai altrove. Pare a volte che da secoli essa cerchi di annacquare il vangelo per raccordare insieme soldi e vangelo, il Padre e Mammona.

Tutto ciò non è solo compito dell’”alto”. Non bisogna mai dimenticare che una istituzione nella storia non ha mai riformato se stessa. La chiesa sottostà a queste leggi. Il vangelo prevarrà ad opera di una sotterranea, diuturna azione del basso. Voglio dire che tutti siamo responsabili perché il Potere nella chiesa ridiventi Servizio all’uomo e null’altro. Per questo si ha una grande nostalgia di testimoni, di sognatori di una chiesa povera, come Mazzolari, Milani, Lercaro che coniò il termine “chiesa dei poveri”, Dossetti, Turoldo, Balducci. Abbiamo bisogno di riscoprire la parola di verità che c’è nella “invenzione” di Francesco di Assisi ed in quello di Paola; essi parlarono di “minorità”, di “minimità” in opposizione costruttiva ad una chiesa che voleva essere grandiosa e magnifica.
Oggi, poveri lo siamo davvero, tragicamente, ma di testimoni… Eppure devono nascere in questa chiesa che ne ha bisogno. Sono dono dello Spirito. Da parte nostra qualcosa la possiamo fare. Bisogna rianimare la fiducia nella chiamata di Dio e nella stessa chiesa, contro la quale “le porte degli inferi non prevarranno”. Far sentire la foresta che cresce, aiutare ad avere un occhio critico ma soprattutto benevolente verso la chiesa, la storia, l’oggi. Occhiali oscuri creano il buio ed offuscano la luce.
Forse dovremmo fare esperienza un po’ tutti di un potere che è solo servizio, e dunque di una vita senza potere del denaro e senza gloria rispetto ai potenti di questo mondo. Potremmo scoprire il segreto di una nuova pace che testimonia “la verità di una vita nello Spirito”.
Gesù non proibisce di “volere essere primi”, “più grandi”, ma indica lo stile di questa primazia e grandezza: il servire più degli altri e tutti. Per certi versi Egli non combatte il potere dei potenti, ma spinge a farne a meno, a non averne bisogno, dato che di fronte a Dio una impotente vedovella che dà tre spiccioli è più “potente” dei ricchi elemosinieri del tempio. Questa vedova, dottore della chiesa! Maestra!
Una chiesa che faccia a meno del potere sembra una utopia. Ma forse c’è da scegliere tra uno stile evangelico e l’insignificanza. A che serve una chiesa che… non serve? Il nostro modo di agire deve “rendere gloria a Dio”, non agli uomini. È così? In ogni caso se stiamo affrontando questo problema non è per il gusto di accusare, ma per l’esigenza lancinante di una esistenza più evangelica di liberazione, di fratellanza. La chiesa deve ritornare ad essere segno di un potere-servizio che è agli antipodi di ogni oppressione ed ha come stella polare il “Regno”. Se la tentazione del potere-dominio può prendere a scusa il “dominate” della genesi, è anche perché si dimentica il “custodite”. Ritornare a custodire l’altro perché è me stesso forse è uno degli scopi non secondari della salvezza.

A 50 anni dal Concilio

Sono abbastanza perplesso sul modo come ci prepariamo a celebrare i 50 anni del Vaticano II. Mi sembra che più che una celebrazione si voglia un funerale  (18). Meglio: la celebrazione di un funerale, non di una proposta di speranza. Il modo più serio e responsabile è quello di individuare il cammino da compiere, oggi che sono cadute le illusioni e ci rendiamo conto che un nuovo corso, se nasce, come sempre, nasce dal basso, dalla “fede della tua chiesa”.
Dalle occupazioni e preoccupazioni che vediamo vivere in tanti nostri pastori, ci si domanda se essi percepiscono che deriva stia prendendo non solo la chiesa ma la fede nel mondo. Il vero dio non è quello annunziato da Gesù, ma il denaro, la forza, l’imporsi sugli altri. I ragazzi non sono solo ignoranti di religione, ma vuoti. Corrono dall’essere al nulla – dice Turoldo. Ci troviamo di fronte alla “prima generazione incredula”. Nelle regioni dove il potere ecclesiastico è tanto, anche la pedofilia alligna trionfante, la scalata sociale, la ricerca di benessere economico non solo dei fedeli, ma degli stessi pastori, la totale insignificanza per le persone se queste non servono al “sistema”. Ci troviamo di fronte ad un fallimento dello stesso cristianesimo che nei secoli non è riuscito per nulla a portare “pace sulla terra” e dunque a “dare gloria a Dio”, a fare accettare che i beni vanno condivisi e non accumulati.
Mentre cose come queste sono sotto gli occhi di tutti la grande preoccupazione di uomini di chiesa sembra che sia la rivendicazione del carattere divino della sua istituzionalizzazione così come oggi è. Tutto in essa deve essere “di diritto divino”. Essa è destinata da Gesù a farsi obbedire, come quel Dio che comanda e “tutto obbedisce”. A somiglianza di quel Dio che vuole la sottomissione umana, l’abnegazione, la mortificazione, la legge, perché l’unico rapporto della creatura col creatore non può non essere se non l’obbedienza a quanti agiscono in nome e per conto di Dio. In altri termini, pare che la preoccupazione di tanti uomini di chiesa sia l’autorità, la correttezza, l’origine evangelica della sua organizzazione così come essa oggi è, che non può essere messa in discussione, a cui tutti devono piegarsi. E detto ancora in termini più chiari: oggi Dio tramonta, ma la chiesa si aggrappa a tutti gli appigli perché non tramonti né essa né il suo potere dottrinale e disciplinare. A volte pare che si accontenti di una appartenenza alla chiesa anche senza fede alcuna. Emblematica la risposta di una persona di cultura: “Non credo in Cristo ma mi conviene credere nella chiesa”.

Che ne sia del vangelo e della risurrezione di Cristo in questo orizzonte, è sotto gli occhi di qualsiasi uomo appena pensante. E se è vero che la teologia del XX secolo ha tentato di contestare questa kenosi della fede fondata su una immagine di Dio molto lontana dalla “fede di Gesù”, è anche vero che i successi sono modesti. La stessa controriforma liturgica propone oggi, con molta autorità, un Dio lontano, forte, alleato dei privilegiati e dunque delle nostalgie fasciste ed autoritarie, inaccessibile alla povera gente, riservato a quei gruppi che non hanno mai visto nella religione se non una identità esclusiva ed escludente.
Ricordiamo la vecchia profezia di K. Rahner: “Il nuovo secolo o sarà mistico o non sarà credente”. Possiamo tranquillamente affermare che “mistico” non è. Se i Vangeli e tutto l’insegnamento delle chiese giovannee, propongono un’altra immagine, un’altra forma di rapporto “uomo-Dio” ed “uomo-uomo”, quella di un’amicizia, di un’uguaglianza che mette ogni partner alla stessa altezza, l’attuale proposta cattolica vira su altre sponde. Fa paura un Dio che serve coloro che dichiara figli; è meglio un Dio che vuole servi ubbidienti. Se Dio “serve”, anche i pastori devono “lavare piedi” polverosi e cingere il grembiule. Se Dio è servito, i troni diventano diritto all’arpagmos: a farsi servire ed a “rapinare” quanto attiene alla dignità ed alla libertà di una persona. Un Dio-sposo chiede una intimità simmetrica così profonda da sconfinare nella identificazione di una “sola carne”; un Dio padrone-giudice vuole distanza, vestiti di rappresentanza ieratica, separazione dalla gente comune.

In questo inizio del terzo millennio c’è dunque un nodo da sciogliere, quello a cui accennavo all’inizio: una chiesa centralizzata, autoritaria, potente, gerarchica, assoluta, escludente, unica depositaria autorizzata di verità naturali e soprannaturali, è un dato di fatto da giustificare teologicamente o da contestare (biblicamente e teologicamente) in nome del vangelo e delle sue esigenze di “buona notizia”? Sono nella chiesa a pieno titolo chi giustifica un andazzo in nome del già fatto, o chi sogna il futuro in nome del “non ancora”? E infine: se questa chiesa costantiniana che non è stata scalfita dal Vaticano II, ha come suo esito il tramonto insieme di Dio e dell’uomo  (19) nei limiti in cui essa chiesa ha coscienza di parlare in nome di Dio, non avrebbe tutto il dovere di ripensare se stessa, il fine per cui esiste e ritrovare il coraggio di un passo avanti decisivo verso il vangelo e “la fede del Cristo”?

I “sogni” del popolo di Dio

Si inseriscono in questo orizzonte i “sogni” del popolo di Dio e di quanti hanno davvero a cuore non se stessi ma il vangelo di salvezza dato per l’uomo, o, se si vuole, la salvezza dell’uomo offerta dal vangelo. Dirò questo in alcuni punti:

1) Partiamo dal fatto che la chiesa viene accusata di mostrarsi come centro di potere prima ancora che come mediatrice di grazia divina. Nella misura in cui questa accusa ha un fondamento di verità, non è superfluo chiederci su quali piedistalli il potere ecclesiastico si poggi. Si richiede un discernimento serio.

2) Qualsiasi potere – preso nel senso umano ed ordinario del termine – per sussistere ha bisogno di un fondamento solido che consenta al “potente” di essere “più degli altri”, mai uno fra i tanti. Nel caso nostro, un piedistallo può essere quello dei numeri: la chiesa ha potere perché presiede tanta gente. Contiamoci dunque, ed avremo un peso presso altri potenti. I numeri sembrano oggi una mania. Siamo nel Pianeta e nella stessa Italia una minoranza di fede, ma ci comportiamo troppo spesso come se le folle che riusciamo a radunare fossero la dimostrazione di una societas ancora christiana e tutti avessero noi e le nostre parole come punto di riferimento.
C’è il piedistallo dell’informazione, della cultura, della visibilità, della retorica. La verità non sembra stare più nel Vangelo e nella nostra quotidiana testimonianza, ma nelle parole di qualche “importante” personaggio, che in nome della carica rivestita cala dall’alto pensieri e giudizi su tutto lo scibile umano. C’è il piedistallo che ci può fornire qualche appoggio politico giusto, in cambio del quale siamo disposti a tacere e/o a parlare secondo gli interessi in gioco. Ci sono le conseguenze del fatto che esiste un piccolo regno, lo Stato della Città del Vaticano, regno tra regni, con un papa-capo-di-stato, accanto ad altri capi di stato. E poi c’è il piedistallo più solido, quello del denaro, dei beni, “quinta piaga della Chiesa” – diceva il beato Rosmini. Ovviamente al primo posto assoluto c’è il mandato di Cristo che fonda la sua chiesa e le dà i suoi “poteri”.

3) Ciò che autorizza tanta gente a parlare di chiesa come potere è il suo aspetto istituzionalizzato. Siamo ben lontani dal demonizzare ogni potere, come siamo ben convinti che una istituzionalizzazione ecclesiastica sia indispensabile proprio per gli interessi stessi del Vangelo. Ciò che voglia-mo dire, a parole, è semplice: che quando si parla di potere ecclesiastico bisogna intendere questa parola in senso analogico e mai univoco nel suo uso secolare; che il piedistallo del potere nella chiesa è solo la forza e la validità del vangelo; che ogni potere nella chiesa trova nel fine la sua norma, il suo stile, i suoi limiti, cioè nel regno di Dio da annunziare e costruire. E se a quel potere ecclesiastico anche circoscritto servono dei mezzi (economici, informatici, formativi…) mai si può dimenticare che essi sono mezzi al Regno, mai fini.
Fanno tuttavia pensare certe confessioni. A cosa stiamo oggi assistendo? – si domandano credenti perplessi. Qualcuno risponde: “Constatiamo un silenzio da parte dei vertici ecclesiastici, una reticenza a chiamare male il male, che può far pensare ad un tacito, forse neppure del tutto consapevole, accordo tra una Chiesa lasciata detentrice di “valori non negoziabili” sul piano etico, ed una politica “lasciata in pace” anche quando si violano le norme poste alla base della convivenza civile, intorbidando così la parresia evangelica in un gioco di alleanze tra poteri. L’ambiguo intreccio tra trono e altare, in cui l’uno si appoggia all’altro, è quanto di più lontano possa esservi dal vangelo.” Parole simili possono non essere condivise, ma certamente feriscono.

4) Nei fatti quanto abbiamo affermato è solo una meta a cui tendiamo, a volte pare addirittura un sogno. “Anche gli uomini di chiesa subiscono la tentazione del potere, di lavorare cioè per se stessi e per la propria carriera” – ha ricordato in una udienza generale Benedetto XVI che da anni denunzia il carrierismo e le sue derive. Esiste anche tra gli uomini di chiesa la “libido possidendi”. Per questo non sempre prevale nella gestione dei beni economici lo stile della comunione, della corresponsabilità, della limpidezza della loro destinazione al vangelo ed ai prediletti di Gesù, i poveri. Il nostro cuore ancora non si è stancato di sognare una chiesa povera, una chiesa dei poveri, che non cerchi piedistalli dei potenti, ma si curvi sulle miserie umane e che si fidi di più della Provvidenza divina. Non vogliamo far tacere questo cuore inquieto con la rassegnazione che “così va il mondo” e che non c’è altro modo per farsi sentire che quello di gridare più forte, di essere più potenti dei potenti, per costringerli a tacere o ad ubbidirci. Preferiamo pensare che si debba essere portatori del “potere di Cristo” nel mondo, ma col suo stile di umiltà e di partecipazione.

5) Ed esiste anche tra gli uomini di chiesa la “libido dominandi”. Dagli albori dell’umanità il “potere” è un problema per chi lo detiene e per chi lo subisce; siamo figli di Caino che ritenne di avere il diritto di ammazzare un fratello più devoto, ingenuo e debole. Il problema-potere riguarda ogni uomo. Se tutti abbiamo un qualche potere, alcuni sono chiamati direttamente ad esercitarlo, e tradirebbero la loro vocazione se non lo facessero. Una madre di famiglia, un insegnante, un prete, un politico devono essere coscienti che un potere ce l’hanno.
Ma devono anche sapere che il rischio di utilizzarlo non per far crescere ma per vedersi crescere, è dietro l’angolo. Possono scegliere la via dell’autorevolezza, tipica di chi vuole far crescere il singolo o la collettività; o quella del dominio, che rende servi. Possono scegliere la via della liberazione da ogni asservimento o la via dell’asservimento per una parvenza di “libertà dei servi”.

6) Urge riconsiderare in tutte le sue implicazioni ecclesiologiche, cristologiche, sociali, morali il mandato di Gesù: “Tra voi non sia così!”. Siamo stati messi in guardia da Gesù Cristo: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così…”. E colui che ben conosce le debolezze dell’uomo, Satana, ci aveva provato persino con il Figlio di Dio a farlo cadere nella trappola del gusto del comando: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria … Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Anche Pietro ci provò: Signo-re, che Messia sei se vesti gli stracci di un poveraccio da cro-cifiggere?
In tempi recenti, il martire Oscar Romero ebbe un momento di dubbio se il potere – segno del Dio potente – non avesse perfino ragione ad imporre l’Ordine con qualsiasi mezzo. Prima della sua svolta “gesuana”, dopo l’assassinio di cinque campesinos suoi fedeli, si chiede se non abbiano avuto ragione i militari a sparare su quei “piccoli criminali” che in realtà avevano di sovversivo solo la Bibbia.

7) La vita di Gesù (che si imbatté nel problema “potere sull’uomo – a fin di bene, magari – o servizio all’uomo?”), deve essere determinante per noi. Gesù si guarda bene dall’esercitare anche quel potere che è il nome vero di un amore possessivo, protettivo, da chioccia. Amore che sembra procurare il bene dell’altro, ma in realtà gli impedisce di essere se stesso, di crescere in autonomia e libertà. Per questo non vuole mai che il beneficato “lo segua” e passi dalla sottomissione a forze a lui estranee (demoni, malattie, volontà oppressive di uomini religiosi) ad una nuova dipendenza dal benefattore. Manda a casa, rinvia i “miracolati” alla propria famiglia, alla città da cui sono stati emarginati, vuole che la gente dolorante faccia la propria strada. Il segno che Gesù chiede ai “guariti” è quello di sentirsi veramente liberi e di andare lontano a proclamare la bontà del Padre. La libertà degli uomini è il luogo naturale della testimonianza che veramente quelle creature sono state toccate dall’amore, disinteressato, gratuito, di Dio.

8) La primitiva comunità cristiana – nonostante le incertezze di Paolo in Romani 13 – accoglie questo messaggio definendo uomo vero non il “signore”, il ricco che si vanta della sua superiorità e quindi del suo “diritto di rapina”, ma l’uomo che “serve”, che si dona perché l’altro “sia” (Fil 2,5-11). Questa stessa comunità vede in Gesù il modello perfetto di tale nuova umanità e sente come un pungolo l’insegnamento basilare su questo problema.

9) Tanti abbagli nella vita di una chiesa che si è imposta in numero e potere, hanno potuto spingere l’amore fuori dal cuore di certi “uomini di Dio”, fuori delle loro mire, ma non così fuori da loro stessi fino a farli abiurare all’amore. Questo vuol dire che una via della redenzione c’è sempre, per tutti, anche per chi solo “all’ultima ora” si accorge di “avere corso invano”. In questo spirito scriviamo. Nessun linciaggio, ma un accorato appello nella chiesa perché non si ceda al maligno.

Concludendo

Nel “regno di Dio” amore, giustizia, pace, rispetto della dignità infinita di una persona, legame indissolubile tra fratelli, comune obbedienza alla Parola, cammino di purificazione per giungere alla pienezza della vita del Cristo nella propria carne, sono le caratteristiche di un popolo di fratelli che va verso la Vita con ruoli diversi ma con uguale dignità. Nessuno è maestro di un altro, ma tutti obbedienti alla Parola ed alle sollecitazioni dello Spirito.
Nel “regno degli uomini” la sottomissione a chi comanda, l’intangibilità dei potenti, il dovere di sottostare a regole rigide anche quando imprigionano la vita, l’uso della coercizione e della forza, la rinunzia alla voce della propria coscienza, sono elementi portanti e, per certi versi, irrinunciabili.

In questa prospettiva, una chiesa centralizzata, un assolutismo dogmatico che prescindesse dalla collegialità dei successori degli Apostoli, trasformano inesorabilmente in potere-dominio quel potere-servizio che le era stato donato. Con l’ovvia conseguenza di un enorme rischio che il “regno di Dio” prenda le caratteristiche del “regno degli uomini”, cioè si snaturi e conduca ad un vero “abuso di potere”. Cristiani pensosi si domandano se non si configura come “abuso” avere fatto divenire primaria la chiesa sul Regno, l’insegnamento magisteriale sulla Scrittura, le posizioni più conservatrici di gruppi di potere, sul Concilio, la “preferenza dei ricchi” – anche se sanguinari dittatori e crudeli assassini  (21) – sulla “preferenza dei poveri”, la propria teologia sulla ricerca teologica, le apparenze formali sulla sostanza di vita, il buon nome della chiesa sulla sofferenza dei bambini abusati, la solidità economica di persone ambigue sulla testimonianza morale, la lotta al comunismo finanziata da Reagan sull’annuncio del Vangelo, la “carne” sullo Spirito.

Per questo Gesù custodisce in sé, come un sogno, una chiesa libera dall’ipocrisia, dalla vanità, dall’onnipotenza  (22). Celebrare l’Eucaristia è fare nostro questo sogno. Basta con comunità che si saziano di belle parole, che “dicono e non fanno”. Basta con passerelle di vanità, per un “farsi vedere e lodare”. Niente preghiere e digiuni sulle piazze, ma intimità col Padre nel chiuso di una stanza. Basta con uomini che si sentono padroni e “signori” di altri uomini fino ad imporre loro “fardelli insopportabili”, fino a nutrire atteggiamenti severi e umilianti verso i non adempienti e la povera gente, ma che fanno sentire giusti e grandi chi ipocritamente li predica. Quando nella chiesa, di fatto, si accumulano ipocrisia, senso di onnipotenza, vanità, allora in essa “manca il respiro” dello Spirito e del vangelo. È come se si facesse scen-dere Cristo dalla croce dandogli quel potere da lui già rifiutato.
Fa pensare un’espressione del Cardinale Martini che descrive l’esito di questo nostro avere fatto scendere Gesù dalla croce per intronizzarlo tra i potenti. Se Gesù fosse sceso dalla croce per salvarsi o avesse trasformato le pietre in pane per sfamarsi, “si sarebbe fatto garante di un dio pagano, di un dio detentore di potere e distributore di potere per accre-scere il potere di ciascuno; di un dio che si serve del potere a proprio vantaggio e lo distribuisce perché ciascuno se ne serva a proprio vantaggio. Se scenderà dalla croce gli crederanno, ma crederanno ad un dio che fa comodo, ad un’immagine sbagliata di Dio”. Non è certo questo ciò che la chiesa vuole. Non di questo ha bisogno l’umanità. Non è questo che desidera ogni uomo pensante, credente o non credente che sia.

Vorrei concludere ricordando alcune parole di un uomo che ci ha lasciato 20 anni fa, Ernesto Balducci. Sono parole di speranza, le uniche che ci si addicono in tempi come i nostri. “Io sento che in questo momento della storia umana è resurrezione tutto ciò che va nel senso della solidarietà, della fraternità fra tutti gli uomini, della libertà di tutte le coscienze. Questa è resurrezione, perché ciò che è represso viene alla luce se questo si avvera. Dobbiamo, sia pure con tutte le riserve che sono d’obbligo, sperare che l’umanità, il cui destino è stretto alla terra, trovi la via della liberazione da questa morsa entropica che la sta conducendo alla morte. Ha diritto a sperare solo chi per questa speranza è pronto a dare tutto se stesso. C’è una religione egoistica che è il prolungamento nell’aldilà della concupiscenza terrena ed essa non è degna di dire le parole pasquali. C’è però una speranza che si purifica nell’amore, che si collega alle speranze di tutti gli oppressi del mondo ed allora essa può anche suggerirci le parole che ci riguardano: noi siamo convinti che la morte è stata vinta e che il segreto che Dio ha nascosto fin dalla creazione del mondo si è manifestato in quest’uomo che ha dato tutto se stesso per benedire le speranze disprezzate, non facendo del bene alla maniera paternalistica, ma cogliendo le pietre scartate dai costruttori ed esaltandole.”

Felice Scalia


1  La Croce, da segno nudo e spoglio di dolore innocente sofferto, da simbolo dell’umana sofferenza ad opera di altri uomini, passò a segno e simbolo di trionfo armato, di Roma vittoriosa, di persecuzione nei confronti di ebrei, pagani e miscredenti, per poi passare, ai tempi nostri, a “croce uncinata” o ad ornamento muliebre. Il segno supremo della redenzione diventa simbolo dell’oppressione. Cfr Gustavo Zagrebelsky, “Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza”, Einaudi, Torino, 2012.
2  Forse lo è anche oggi se il Vaticano ci tiene a celebrare, in un convegno internazionale, come “Nascita dell’Europa cristiana” quell’evento.
3  È questa la tesi che il papa voleva esporre e difendere a Regensburg.
4  Kueng Hans, Salviamo la chiesa, Rizzoli, Milano, 2011, pp .67-94.
5  Mt 28,18
6  Cristiani pensanti di tutti i tempi si sono chiesti: a partire da quando la chiesa non ha più osato dire di essere il luogo messianico della rinuncia assoluta al potere di dominio ed alla violenza? Quando non si è più percepita come la società alternativa proposta da Dio al mondo? A partire da quando nella chiesa si è dimenticato che l’unico potere dato agli uomini era il “poter servire i fratelli”? La risposta va verso la “svolta costantiniana” e la complessa, successiva, elaborazione teologica di Sant’Agostino in “De civitate Dei”. Cfr. Ger. Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità?. Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 239-243.
7  M. Balmary, Il monaco e la psicanalista, Paoline, Milano, 2008, pp. 45-46. Franco Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori, Ed. Salerno, Roma, 2011.
8  Yves Congar, Servizio e povertà della Chiesa, 1964, pp. 17-18.
9  Cfr E. Fromm, Fuga dalla libertà, Ed. di Comunità, 1980. In questo saggio, che forse è il più famoso e importante, l’Autore spiega come la libertà sia un grande valore, ma anche un peso insostenibile per la maggioranza degli uomini, che cercano così di fuggire alla responsabilità, rifugiandosi nel sadomasochismo, nell’autoritarismo o nel conformismo. Questa frequente e diffusa fuga dalla libertà spiega gli inquietanti totalitarismi del Novecento. Si veda anche F. Dostoevskij, La leggenda del grande inquisitore, in I fratelli Karamazov; e Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Roma, 2010. Cfr. di Gustavo Zagrebelsky, La libertà dei servi, in “La Repubblica”, 16.06.2011.
10  Questo uso del potere è come un peccato radicato nel nostro essere. Almeno è una tentazione ricorrente del nostro “io” che vuole imporsi, forse nella segreta assurda speranza di fuggire dall’angoscia dell’insignificanza personale (e della morte) costruendosi una eccellenza sulla massa. Tentazione e peccato che diventano evidenti quando il clima di un popolo è segnato da totalitarismi (nazismo, fascismo, franchismo, stalinismo ed oggi berlusconismo…) che cercano sostegno e consenso anche in uomini mediocri che pensano di riscattare la loro nullità identificandosi col “potente” di turno.
11  Un caso emblematico di questa abdicazione alla propria coscienza e libertà di uomo in ricerca pare si abbia nel caso di CL. Don Giussani era animato infatti dall’ossessione della “presenza”: i cattolici, contro una visione intimista e individualista della fede, devono mostrarsi nel mondo, costruire cose visibili. Questa era l’”ontologia” di don Giussani. Ne seguiva – nel suo pensiero – che noi uomini siamo strappati dal nulla che ci incombe addosso, incontrando Cristo nella forma specifica che lui ha scelto: la Chiesa cattolica, luogo in cui si fa presente. Nella concretezza, incontrando Cl. Il singolo uomo è in sé insignificante, è nulla. Per poter essere, deve diventare cellula appartenente alla corporazione ecclesiastica, come le api e le formiche sono nulla senza il loro gruppo organizzato. Anzi di più: per l’uomo la dipendenza ontologica è totale, come i buchi nel formaggio. Dio presceglie un gruppo di uomini, Cl, e questi lo rappresentano in Terra. Chi è scelto è tutto, in quanto appartiene (cioè obbedisce) al gruppo. Chi è fuori è nulla. Siamo di fronte a una terribile e devastante teologia tribale. Il successore di don Giussani, Julián Carrón, come l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, sembrano prendere le distanze dagli ultimi avvenimenti criminosi in Lombardia, ma condividono quella teologia. Cfr G. Barbacetto in “Il Fatto quotidiano” del 24.04.12 che riferisce l’esperienza di Bruno Vergani già membro di “Memores Domini”, la comunità monastica di Co-munione e Liberazione.
12  Cfr. sopra nota 4.
13  “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad geennam”. Così il Concilio Lateranense IV del 1215. Ma ci vorranno quasi otto secoli prima che si stili il documento conciliare “Dignitatis humanae”.
14   Le ricerche sul potere della chiesa si confondono con quelle sulla essenziale natura violenta dei monoteismi. Si veda Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia, 1983 – Jan Assmann, Non avrai altro Dio, Il Mulino, Milano, 2007 – Aldo Zanca, Religione e morale – Filo-sofia del condizionamento religioso, Ed. Istituto Poligrafico Europeo, 2012.
15   Nel 1939 un parroco berlinese, Karl Pelz, pubblica un’opera significativa, “Der Christ als Christus” (Il cristiano come Cristo), esponendo la visione paolina della incorporazione a Cristo o la teologia del “Corpo mistico di Cristo”. Negli anni immediatamente successivi, diversi teologi giudicarono pericolosa la dottrina del Corpo mistico, chiedendo il ripristino puro e semplice della definizione della Chiesa come societas perfecta, una nozione abbastanza recente, impostasi fra XVIII e XIX secolo, che significativamente san Tommaso non usa – egli parla di communitas perfecta ovvero agosti-
nianamente di civitas (cfr. Summa theologiae I-II, q. 90 a. 3), concependo la civitas come comprendente la cooperazione col potere politico (regnum). Altrettanto significativamente, la categoria di societas perfecta fu invece ripresa da Karol Wojtyla in un suo intervento al Concilio (cfr. Acta synodalia II/3, 155-156).
16  Cfr. 1 Cor 15,9; Gal 1,13.
17  Interessanti per una panoramica su questo argomento i due volumi del compianto Giancarlo Zizola, L’altro Wojtyla e Santità e potere, Sperling & Kupfer, Milano.
18  Marco Politi, Joseph Ratzinger. Crisi di un papato, Laterza, Roma, 2011, 81-97.
19  Nel “secolo breve” non muore solo l’uomo ma anche Dio e la sua provvidenza per dare posto all’orrore di “guerre infinite”, alla fame endemica, alla prepotenza dei forti, alla supremazia del denaro e del mercato,
20  Gerhard Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità?, Paoline, Cinisello Balsamo, 1987.
21  Si pensi ai rapporti dei Nunzi Vaticani con i dittatori dell’America Latina. Emblematica la vicenda di Mons. Oscar Romero, reo – secondo un Giovanni Paolo II appena eletto – di non andare d’accordo con il governo che massacrava poveri e clero e suore della sua diocesi.
22  E dal XIII secolo teologi e canonisti giungono a dire del papa che è “quodammodo Deus”, che lui è “Dominus noster”. Giulio II nel 1512 al concilio Lateranense V viene chiamato “alter Deus in terris”. Esagerazioni certo, ma la cui ricaduta encomiastica ricadeva anche sul più umile prete di campagna.

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