Convegno nazionale PO / Bergamo, 2 giugno 2012
SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA
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La relazione di Armido Rizzi
Confronto con il papa-teologo
Inizio presentando la sintesi del discorso tenuto da Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006. Questo discorso è diventato famoso per la levata di scudi del mondo islamico contro una critica del papa nei confronti di un teologo musulmano del ‘400. Ma questa era soltanto una specie di parentesi; il tema centrale del discorso era una difesa teologicamente ragionata della ellenizzazione del cristianesimo. (Era un approccio più da teologo che da pontefice; perciò parlerò d’ora in avanti di Ratzinger invece che di Benedetto XVI).
Ecco dunque la sintesi (le parti riportate tra virgolette sono vere e proprie citazioni):
1. “È soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso?”. “Concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia”.
2. “In principio era il Logos”: “Giovanni ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio”.
3. Dal roveto ardente Dio dice “Io sono”; lo ripete durane l’esilio: “Io sono”
4. La Settanta: “è una testimonianza testuale a sé stante”: l’incontro “tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione”
5. Il cristianesimo “ha trovato la sua impronta decisiva in Europa” (Grecia + Roma) “ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa”.
6. Quindi: bisogna andare contro la richiesta di “de-ellenizzazione”, che attraversò l’Europa moderna in tre ondate:
a) La Riforma + Kant;
b) la teologia liberale;
c) le scienze naturali.
7. Depauperamento dell’uomo: manca il “da dove” e il “verso dove”. La “coscienza” soggettiva diventa in definitiva “l’unica istanza etica”, “l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale” (costruire un’etica partendo dalla evoluzione, dalla psicologia e dalla sociologia).
8. Oggi: incontro con la molteplicità delle culture: l’inculturazione: “scoprire il semplice messaggio del NT ed inculturarlo nei rispettivi ambienti”. Tesi non soltanto “sbagliata” ma “grossolana ed imprecisa”, perché “il NT è stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco”, “contatto maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento”. “Le decisioni di fondo, che riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.
Perciò la teologia “come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze”, perché “l’ethos della scientificità è volontà di obbedienza alla verità…”.
* * *
Sto tenendo per la quarta volta un “corso di teologia alternativa”. Alternativa a quella ufficiale della chiesa cattolica, secondo una linea che spero risulti chiara dall’esposizione. La prima volta che ho fatto questo tentativo è stata circa 25 anni fa; quindi non si tratta di una opposizione personale a Ratzinger ma di una convinzione maturata nel corso degli anni e dei decenni, a partire dal mio abbandono del tomismo (filosofico e teologico) e dalla volontà di leggere la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) “dal di dentro”.
Un primo punto lo esprimo così: il pensiero greco (quello in cui sono formulati i dogmi principali della fede cristiana) è soltanto un pensiero, oppure è il pensiero come tale? Cioè: il pensiero greco fa parte di una certa cultura, grande e nobile ma relativa, oppure ha un carattere – per così dire – di eternità?
Ebbene: Ratzinger parla di “concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio” , aggiungendo “sul fondamento della Bibbia”. Ora, la Bibbia non formula la verità in concetti, bensì in un linguaggio simbolico, metaforico, parabolico, formula una teologia narrativa; la quale necessita allora di maturare in teologia concettuale (perché metafore e simboli si prestano non solo all’interpretazione ma al gioco, all’alterazione). Ma la traduzione concettuale greca, avvenuta nell’epoca patristica e scolastica, è l’unica possibile? Ratzinger risponde: sì.
Il secondo e il terzo punto sono esemplificazioni della posizione dichiarata nel primo. Ma proprio la loro debolezza è già una prova al contrario, cioè dell’insufficienza di quella posizione.
“In principio era il Logos”: “Giovanni ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio”.
Ma si potrebbe osservare che il termine Logos non compare più, riferito a Gesù, in nessuna pagina del vangelo; quindi difficilmente può avere quel significato preciso che Ratzinger gli attribuisce. Il vangelo di Giovanni è, come lo sono i sinottici, centrato sulla passione e la risurrezione di Gesù, non sulla sua “incarnazione” intesa in quella accezione precisa che questo concetto avrà nel dogma. Il cuore del Nuovo Testamento non è il dogma ma il kerigma, cioè l’annuncio evangelico della salvezza ottenuta da Gesù mediante la sua autodonazione in obbedienza al Padre.
Un secondo esempio che il papa porta, interpretando il cap. 3 dell’Esodo: dal roveto ardente Dio dice: “Io sono colui che è” . Si tratta di un’espressione ebraica che la LXX (1) traduce l’Essente (quello che poi Tommaso tradurrà con l’Essere, l’actus essendi in cui essenza ed esistenza si identificano). Lo ripete durante l’esilio, in particolare nel secondo Isaia, il profeta del ritorno a Gerusalemme dall’esilio di Babilonia: anche qui Dio appare dicendo: “Io sono”.
Sul significato originario – cioè della formula ebraica – gli esegeti hanno formulato molte ipotesi; ma quella che si concilia meglio con la visione del Dio biblico in tutto il suo operare è che quel verbo “essere” non dica l’esistenza in sé e per sé, ma la Presenza.
Riporto la risposta di due dizionari biblici. Il primo (protestante) afferma: “In ogni caso, nel verbo hayah [essere] l’accento deve essere posto non sulla nozione di esistenza che era ovvia, ma su quella di presenza con Mosè e con il popolo: è la rivelazione di un Dio realmente presente per guidarlo, giudicarlo e salvarlo”. Il secondo (cattolico): “Qui il verbo ‘essere’, se non esprime immediatamente il concetto metafisico dell’esistenza assoluta, designa in ogni caso un’esistenza sempre presente ed efficace: un adesse più che un esse” (2).
Quarto punto, di carattere più generale: la LXX è – sempre secondo il papa – “una testimonianza testuale a se stante”; si può quindi tranquillamente prescindere dal testo ebraico. L’incontro tra fede e ragione, tra “autentico illuminismo” (cioè le esigenze della ragione, del Logos), e la religione biblica, cioè l’Antico Testamento, si verifica nella traduzione greca. E perché non si potrebbe dire lo stesso del Nuovo Testamento, cioè che che la traduzione latina – la Vulgata – è una “testimonianza a sé stante”, di cui la chiesa d’occidente si è nutrita per secoli?
Quinto. Il cristianesimo ha trovato la sua configurazione decisiva facendo la sintesi tra Atene e Roma. Atene per il pensiero teorico e Roma per il pensiero giuridico. Con questi riferimenti il cristianesimo ha creato l’Europa, e rimane il fondamento “di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa”.
Su questo il papa ha in parte ragione, anche se non bisognerebbe dimenticare che l’Europa, nata in qualche modo dall’ebraismo e dal cristianesimo, in realtà si è resa autonoma da questi; e quando oggi si dice “Europa” si pensa soprattutto alla modernità, all’Europa laicizzata. Però si può accettare che l’origine storica e ispiratrice dell’Europa sia la Bibbia.
Sesto. Tre ondate di “de-ellenizzazione”: la Riforma (compreso Kant), la teologia liberale (della seconda metà dell’’800), la scienza. A me sembra che mettere insieme questi tre fenomeni culturali sia davvero superficiale; perché la Riforma – che non ha mai negato il senso ultimo della realtà –, la teologia liberale – che pur affermandolo lo ha liberato dall’esclusività dell’appartenenza religiosa-, e le scienze naturali – che oggi per lo più lo negano rifacendosi alla pura casualità –, vuol dire confondere tre fenomeni radicalmente diversi.
Settimo. Ratzinger dice: depauperamento dell’uomo: manca il da dove (l’origine) e il verso dove (la finalità). La coscienza soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. Ma questo, più che della modernità, è caratteristica della post-modernità (cioè di quel fenomeno che si è progressivamente imposto a partire dagli anni ‘80). Bisognerebbe allora distinguere tra coscienza soggettivistica, che tende a cancellare il senso del dovere e ad assolutizzare quello dei diritti individuali, e coscienza laica, la cui possibile autenticità è stata riconosciuta dal Vaticano II (soprattutto nella Gaudium et spes, par. 16 e 22).
Ottavo: l’inculturazione: “scoprire il semplice messaggio del NT ed inculturarlo nei rispettivi ambienti” è una tesi non soltanto “sbagliata” ma “grossolana ed imprecisa”.
Qui entreremmo in un campo molto delicato. Comunque:
– È vero che l’inculturazione non è un compito facile, e rischia di tradire non solo il dogma ma anche il kerigma (sia dell’Antico che del Nuovo Testamento) identificando Dio con il mondo; ma essa non è da rifiutare come tale, è oggi anzi il compito principale della teologia e della pastorale.
– Ecco: giustamente si dice che Ratzinger fa fatica ad accettare il Vaticano II, e si trova più vicino al Vaticano I, che ha avuto il suo centro nell’istanza della razionalità della fede; per di più, una razionalità che rimane quella della filosofia greca.
– Una precisazione. Non voglio dire che i dogmi siano falsi, errati. Dico che sono desueti, che diventano parlanti solo se uno si mette a studiarseli di nuovo nel loro contesto; sono termini che potevano avere ragione di essere in quei concili che nascevano per rettificare certe visioni storte, le eresie. Ma non hanno senso rispetto ad altre problematiche che allora non erano assolutamente note. – Prendiamo due esempi desunti dal Credo della messa domenicale. Chi comprende oggi che cosa vuol dire “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”? E chi sa che il “procede dal Padre e dal Figlio” (detto dello Spirito Santo) è stato l’elemento teologico che – assieme a quelli politici – ha determinato lo scisma della Chiesa orientale nel 1054?
Che cos’è la ellenizzazione?
Dopo aver rifiutato l’identificazione tra “pensiero” e “pensiero greco”, cerchiamo di comprendere qual è il principio che sottende quest’ultimo, la linea ispiratrice di quel pensiero che sottostà non solo alla formazione del dogma ma anche alla spiritualità, e che non è solo di Ratzinger ma anche di molti teologi, soprattutto cattolici: una linea che ha generato convinzioni che sono state le idee portanti della chiesa per tanti secoli.
Formulo così: tutta la realtà è scaturita da un principio impersonale, vale a dire senza libertà. Se prendiamo il Dio di Platone, ma soprattutto quello del neoplatonismo (Plotino) – che è quello che influisce direttamente sulla patristica (a partire da quella greca) – non è un Dio che decide di creare il mondo, ma il mondo si forma perché questo Dio ha una tale pienezza di essere che tracima, trabocca. Quest’idea è presente anche in quel distico di Dante: “in Dio si interna / ciò che nell’universo si squaderna”: in Dio è concentrato quello che, traboccando da lui, è partecipato in misura diversa: ci sono gli angeli, poi gli umani, poi ci sono gli animali, poi i vegetali e infine quello che non ha neanche vita. Tutto questo non è creato per volontà di Dio, ma fuoriesce per necessità.
Secondo: questo è un Dio che può diventare di sua natura l’oggetto di un amore straordinario, ma questo amore avrà sempre la stessa natura di quel Dio: è una specie di ritorno a lui (reditus) dopo l’uscita (exitus). Questo è detto in termini straordinari nel Simposio di Platone, dove Socrate dice cos’è l’amore: l’amore è eros; e che cos’è l’eros? L’eros è desiderio del bel corpo; ma non basta uno, ci vogliono tutti; ma non basta ancora: ci vuole l’anima bella, la quale è quella che osserva le leggi della polis, della città; ma più in là delle leggi della città c’è la contemplazione delle leggi dell’universo; ma quello che è aldilà di tutto è arrivare alla contemplazione della Bellezza: ed è Bellezza non più in una parte, sì in una parte no, ma interamente: è il Divino. Quella tracimazione che ha portato alla formazione del mondo porta attraverso l’eros umano al ritorno al Divino, alla sua contemplazione.
Anche questa “salita” non dipende dal singolo uomo, non è libera: è l’effetto necessario della conoscenza della verità. È ancora Socrate che dice: se uno conosce la verità non può non seguirla. Qui manca dunque la libertà come capacità di decisione, con cui mi assumo la responsabilità del mio agire e di renderne conto. Qui è invece essere trascinati da questa ondata e tornare al Divino: è questa la natura e la forza dell’eros (3).
La teologia “alternativa”
Ecco allora la teologia alternativa a questa che ho rapidamente esposto (e chiedo scusa per la semplificazione). L’alternativa è quella di pensare dentro la Bibbia (4). Pensare dentro la Bibbia, cioè pensare trasformando quello che la Bibbia dice con mito, simbolo, leggenda, parabola, ecc., in concetti, che traducano fedelmente ciò che è detto nella Bibbia. E mi auguro che ci sia sempre maggiore collaborazione tra biblisti e teologi ermeneutici (alcuni parlano ancora di teologi “dogmatici”, io preferisco il termine “ermeneutici”); a me non pare che ci sia una grande collaborazione. Da un lato i biblisti, molto attenti – giustamente – agli aspetti storici e linguistici, trascurano l’aspetto del pensiero, e a volte prendono delle cantonate (quando per esempio continuano a considerare come eros l’amore di cui parlano sia l’Antico che il Nuovo Testamento ). Dall’altro lato, non parliamo dei filosofi, che – anche se cattolici – ignorano i biblisti; ma anche i teologi, che dovrebbero essere più attenti agli studi biblici, in genere non ne hanno grande conoscenza. Pensare dentro la Bibbia, allora, vuol dire scoprire il nucleo di verità del racconto-mito.
Il metodo. La Bibbia è un grande mito; il che non vuol dire una falsità, una leggenda; il mito è stato ben definito dal primo grande studioso italiano di storia delle religioni, Raffaele Pettazzoni; il quale ha scritto un grosso libro sulla “onniscienza di Dio”: non è che Dio conosca come è fatta la materia, gli atomi, le molecole, eccetera, ma Dio conosce tutto ciò che passa nel cuore dell’uomo e tutto ciò che partendo dal suo cuore si traduce in azione umana. Ma come lo dicono le religioni? Parlando degli occhi di Dio: affermando che Dio ha un occhio davanti e uno dietro e due a lato, che ne ha dieci, cento, che ha tutto il corpo coperto di occhi. Ma questa non può essere una verità da prendere alla lettera, è il rivestimento mitologico di una grande verità, che costituisce il cuore del mito. Qual è la verità contenuta in queste immagini? È che a Dio nulla sfugge di quanto l’uomo pensa e fa, che Dio legge nel cuore dell’uomo e ne segue tutte le azioni, e lo giudica in base ad esse.
La Bibbia è un grande racconto che va letto in base a questo principio: cercare la verità che essa dice in forma figurata, tradurla in idee, in concetti. Prima bisogna mettersi ad ascoltare il racconto, servendosi ovviamente degli studi biblici, ma poi bisogna andare al di là di questi e porsi delle domande di tipo ermeneutico, cioè di interpretazione anche concettuale (a cui il biblista di per sé non risponde). Questo vale come metodo
Il contenuto. La religione biblica è una religione di alleanza tra Dio e l’essere umano; un’alleanza che inizia con il popolo di Israele, il quale però – non subito, ma dopo alcuni secoli – si accorge di essere il popolo che rappresenta tutta l’umanità; un’alleanza che Dio, soprattutto nei secondi profeti e poi nei testi successivi, fa con tutta l’umanità. Ma questa alleanza Dio la fa liberamente, non è l’effusione necessaria di quello che Egli è; scaturisce piuttosto da quella personalità di Dio che opera liberamente. È quindi Dio come il Presente, Dio come hesed u emet, (come bontà e fedeltà): ha fatto una promessa gratuita e la manterrà: ha liberato gli israeliti dall’Egitto, dov’erano stranieri e schiavi; li ha guidati attraverso il deserto – terra invivibile – nutrendoli e difendendoli; poi stabilendo l’alleanza sul monte Horeb, e facendo di loro il suo popolo – Israele – infine portandoli nella terra promessaIl termine che in ebraico significa “fedeltà” (appunto: emet o emuna) nella traduzione greca diventa aletheia, e in latino veritas. Ma non è la verità che anche Ratzinger continua a rivendicare: è la fedeltà, la verità dell’esistenza: ogni promessa è debito, e Dio si sente per così dire in debito di mantenere le sue promesse. Questo è il Dio della Bibbia: che chiama l’uomo con un’iniziativa assolutamente libera, ma che rimane fedele a questa iniziativa, anche quando Israele lo tradirà.
Ma l’alleanza non è – non può essere – unilaterale. Dio chiama Israele a una risposta che dev’essere anch’essa libera: questa risposta si chiama nella Bibbia il “cuore” (leb o lebab).
E qui compare la seconda faccia dell’alleanza: il cuore umano non è, nella Bibbia, lo slancio spontaneo – e dunque necessario – come risposta all’iniziativa divina; è la libera adesione a questa iniziativa: il credere ad essa e l’obbedirle. Questo punto è, in certo senso, ancora più difficile da cogliere che quello che riguarda Dio. Nella Bibbia “cuore” non ha quel significato che troviamo nelle nostre lingue (e che è comune già nell’antichità), cioè l’eros nel senso di qualunque emozione, passione, desiderio. Delle circa 850 ricorrenze del termine “cuore” nell’AT la maggioranza ha il significato non di luogo naturale di installazione dell’eros ma di sede della conoscenza della volontà di Dio e di adesione ad essa.
C’è un testo che ha l’autorità e la chiarezza di rappresentare tutti gli altri: è Dt 6, 4-8:
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze . Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi, e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
L’atto di fede di Israele nel suo Dio come Dio unico è subito seguito da quello che verrà chiamato il “primo comandamento”: tu risponderai amando il tuo Dio con tutto il cuore. Di quale amore? L’amore di desiderio non ha bisogno di essere espresso in forma di un ordine (“amerai”: futuro con valore di imperativo). E infatti il testo continua parlando della Legge: “Questi precetti che ti do ti stiano fissi nel cuore”; e ancora: devi scriverli sul tuo corpo e trasmetterli ai tuoi figli. È la legge di Dio, l’imperativo categorico di Dio. Allora la risposta a questo suo appello è l’amore comandato. So benissimo che “al cuore non si comanda”; ma qui si parla di quel cuore che è l’orecchio in ascolto della voce di Dio e la volontà che gli obbedisce: è la coscienza etica.
Questo è il fondamento biblico di quello che il teologo Ratzinger diceva negli anni ‘60: non c’è nessuna autorità che possa andare contro la voce della coscienza. Certo, perché la voce della coscienza, se non ammutolita, se ben intesa, se non alterata, è la voce di Dio.
Ma l’amore che nasce dal cuore biblico non è un movimento spontaneo, come lo è l’innamoramento (per una persona o per una pittura o per una musica….); non è neppure l’amore per la verità, che, conosciuta, conquista la tua ragione. L’appello all’amore per Dio ci pone di fronte a un bivio:
“Ecco, io pongo davanti e te la vita e il bene, la morte e il male. Oggi perciò io ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva […]. Ma se il tuo cuore si volge indietro, oggi io vi dichiaro che certo perirete […]. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito e lui….” (Dt 30, 15-20).
Il bivio di fronte al quale il Dio dell’alleanza ti pone è quello della scelta tra il bene e il male; ma questa scelta è veramente tale: Dio ti comanda di seguire il bene, ma non ti trascina irresistibilmente verso il bene (come dirà il pensiero greco): la decisione è tua. Obbedire a Dio seguendo il bene non è un automatismo della coscienza , ma un atto di libertà nell’accezione più profonda di questo termine. Non viene né dalla tua natura né dalla tua cultura, viene dal tuo “cuore” . È questo il senso della responsabilità: è questo che ti fa soggetto etico in prima persona. È questo l’amore di cui parla la Bibbia, l’amore comandato; se a qualcuno non piace questo linguaggio, può parlare di amore dovuto, oppure di amore giusto: l’amore come giustizia.
Qui entriamo nella seconda dimensione di questo amore, che è l’amore verso l’“altro”: non verso il “prossimo”, ma amore come “farsi prossimo” a chiunque sia nel bisogno, anche se ti è sconosciuto (la parabola del buon samaritano sintetizza in maniera eccellente quest’idea) (5).
Nella Bibbia le due categorie antropologiche fondamentali sono il cuore e la carne: la carne è l’essere umano nella sua debolezza, nella sua fragilità; e quindi come tale bisognoso di tutto; mentre il cuore è ognuno in quanto chiamato a chinarsi su questa povertà come povertà ontologica, che diventa spesso anche povertà storica: l’orfano, la vedova, l’affamato, lo straniero, il carcerato, colui che ha bisogno di un certo aiuto economico…
Il raggiungere l’altro non per quello che tu già conosci di lui o di lei, non per quello che tu dici simpatico o antipatico, ma semplicemente perché è nel bisogno, esige appunto l’amore che scaturisce dal cuore biblico.
Questo amore è, da un lato, l’amore per Dio che te lo comanda; dall’altro, è l’amore stesso di Dio, che entra in te e diventa l’anima del tuo cuore. Tu gli metti a disposizione l’intelligenza e le mani. Di tutto questo non c’è nulla nel pensiero greco, mentre costituisce l’abc del pensiero biblico.
Ancora una parola: siamo rimasti all’Antico Testamento, sì, perché io sono convinto che – come disse papa Woytila a Magonza all’inizio degli anni ‘80 – Dio ha fatto con il popolo d’Israele un’alleanza “mai revocata”; e, ripeto, è un’alleanza non solo con il popolo d’Israele, ma è l’alleanza universale che è passata attraverso quel popolo che ci ha regalato la sua Parola.
Sappiamo però che c’è tutta una storia di peccato che ci è raccontata nei profeti di Israele, che è il “cuore di pietra” (come dice Ez 36 e come dicono tante altre formule dei salmi e dei profeti e dei libri sapienziali: un cuore ostinato, un cuore duro, cieco, incirconciso…). Ma a un certo punto arriva la promessa: “ti darò un cuore nuovo, metterò dentro di te uno spirito nuovo”. È quella Nuova Alleanza che – è il centro della fede cristiana – si è realizzata nella morte e risurrezione di Gesù, e che trova nel perdono il suo fondamento. È questo il nucleo di verità, lo ripeto: non il dogma ma il il kerygma cioè il nuovo annuncio del racconto cristiano. Il kerygma cristiano può essere riassunto in quell’espressione di Paolo (Gal 2,20), che parla in prima persona, ma una prima persona che è ogni uomo: “Io vivo nella fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e si è consegnato per me.”
Ecco, io cerco di vivere di questa fede e di interpretarla; e questa fede non ha bisogno del pensiero greco.
Armido Rizzi