Bergamo, 27 aprile 2013 / gli interventi (10)


 

A questo punto della vita mi pare di dover ribadire che è necessario ritornare sempre alle 2 fedeltà fondamentali:  riferimento a Gesù Cristo, al suo Vangelo e insieme alla Storia, alla vita vissuta.  Il rischio è quello di pensare alla sua parola solo come una teoria vaga e di riferirsi alla Storia restandone lontani e dentro a un sistema, “cittadella fortificata”, con visione distorta, di ciò che accade realmente
Arriva l’anzianità e le cose si fanno più essenziali: vivo in solitudine e incontro informalmente le persone, specie in particolari difficoltà: penso alle mie traversie, ai dolori e impegni per la salute che ogni mattina ti avverte di qualche doloretto nuovo e nello stesso  tempo, ti fa incontrare altri con gli stessi problemi.  Le visite all’Ospedale (spesso il cappellano dell’Ospedale di San Donà di Piave si fa sostituire), le visite agli ammalati nella famiglie, le tragedie che parlano di tumore, di infarto, di ictus, di malattie che sconvolgono la vita, che ti riducono dipendente e magari in carrozzina, come quell’amico che non può più uscire di casa, se non facendosi sostituire accanto alla moglie immobilizzata. Nascono interrogativi nuovi con la necessità di riflessione e di un ritorno al Vangelo, che doni motivazioni di impegno e di sostegno, che si legano a questo incontro tra fede e storia.
Sarebbe augurabile che in ogni comunità e parrocchia esistesse un gruppo di persone, che si confronti con il Vangelo e rifletta su questo rapporto tra vangelo e vita.  E questo poi diventi aiuto e reale condivisione con tutti.  Non è sufficiente che i preti si trovino tra loro, senza i laici, senza apporto e confronto con i problemi di tutti, senza al riferimento al vissuto.  Da noi si è verificato il fatto che i preti giovani, inseriti nella loro comunità, abbiano organizzato la festa di capodanno da soli, come un gruppo di scapoloni, nella totale distanza dal loro normale contesto di vita.  E’ importante pensarsi sulla stessa barca, ne “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”, di cui parla il Concilio Vaticano II° nel proemio della Gaudium et spes.  Al contrario si arrischia l’isolamento, delle grosse agende piene di impegni e di scadenze, dei rapporti da telefonino e da dialogo monosillabi, di carenze di conversazione e di incontri interpersonali.  Può essere che la realtà della incarnazione e della compartecipazione è troppo esigente e difficile da vivere, che si fugge dal confronto, si sceglie la tentazione dello scappare, di rifugiarsi nel privato, nel rifiuto, nell’isolamento, come capita a me.  L’altro giorno, per sommo disagio comunitario, abbiamo assistito ad un applauso generale in Parlamento, in risposta alle affermazioni di una parte politica, che insultava e diceva tutti inadeguati e stupidi, che avrebbero dovuto andarsene a casa.  Tutti si sono auto condannati e forse non hanno pensato alle loro responsabilità e alla oro dignità, in una autodichiarazione di impotenza e inadeguatezza, salvo a continuare tranquillamente la discussione.
Avvicino la situazione alla difficile fedeltà, che mantengo nonostante tutto, agli incontri con i preti di zona (congreghe vicariali), da cui viene spesso la tentazione di fuggire.  Si perdono ore e ore di discussione su problematiche, di cui ci porterebbe a vergognarci di fronte a dei laici o a delle persone che vivono la dura realtà di ogni giorno, laici non clericali, con famiglia e reali problemi di lavoro.  Sembra di vivere in una realtà irreale.  Da noi, zona di agricoltura in declino e di una industrialità dell’indotto, in profonda crisi, di una immigrazione incontrollata, abbiamo fabbriche che fanno lavorare normalmente gli operai e poi non li pagano, o lo fanno a discrezione, saltando mesi di paga.  Noi preti dovremmo, anche in nome della serietà di risposta alle richieste del Vangelo, essere accanto a questa situazione e fare solidarietà.  Ma a volte diamo ragione a quello che si dice da noi “lavare la testa ai mussi (asini) e voler convertire un prete è tempo perso”.  Forse l’età aiuta a tornare all’essenziale, alle 2 fedeltà di base, anche pensando all’intreccio, alla forza e al realismo di cui è impregnato il Vangelo e alle promesse di Cristo di essere con noi sempre.
Di fronte a questo momento di crisi e a queste esigenze c’è da pensare quanto sia serio intrecciare la vita con l’amicizia con Cristo. Penso per noi preti, ma soprattutto per chi è in maggiori difficoltà oggi: stiamo  cercando di provvedere a 3 famiglie di rifugiati politici, che stanno per essere sfrattati dal Comune, che dice di non aver esaurito i fondi Cee e i finanziamenti europei per questi disgraziati, privi di documenti di residenza, che la legge Bossi – Fini non prevede e perciò non in grado di chiedere lavoro, attuabile solo in “nero” e con il rischio di condanna del datore di lavoro, accusato di connivenza, proprio mentre  il lavoro scarseggia e non si trova. Le assistenti sociali dicono di non avere fondi e di dover sfrattare e rimetterli in lista con tutti per la casa, quando non sono “in regola” e non possono documentare la domanda. Sono quindi destinati alla strada, figli di nessuno e con i figli che non possono neppure frequentare la scuola. Di fronte a questo la mia diocesi (di Treviso) ha emanato ordini curiali e non ufficiali (per non incontrare reazioni animate), ma tuttavia tassativi e che tolgono la competenza ai parroci, di non concedere i locali vuoti delle piccole parrocchie, ormai prive di parroco e con locali inutilizzati. Regna la convinzione che gli immigrati sono sporchi, degradano i fabbricati, non pagano affitto, e non garantiscono l’abitabilità e i rapporti con la comunità.  Sono incoerenze che interrogano, si deve rispondere alla richieste evangeliche dell'”avevo fame… ero nudo… ero ospite…”, e non si può più distinguere troppo tra affermazioni, omelie e comportamenti coerenti, comunitari.  Di recente mi ha meravigliato il fatto di essere rientrato, nell’elenco dei preti diocesani, dopo essere stato assente per tanti anni, con un titolo di “collaboratore” e di 2 parrocchie. Ma ho anche capito che si è trattato di farmi rientrare con un ruolo, nel numero di coloro, che percepiscono le quote dell’8 x mille. A questo fin dal 1984 avevo scelto di non iscrivermi (3° sui 650 preti di allora a Treviso), scoprendo la forza della libertà di autonomia economica dalla curia, ma ora era necessario inquadrarmi in qualche modo, senza per questo usufruire di vantaggi di qualche tipo, ma potendo almeno parlare di povertà nella Chiesa, che ora mi pare sospetta e poco efficace possibilità di alzare la voce, commentando le indicazioni evangeliche. Resta urgente che il nostro cristianesimo divenga semplice immediato, “sostegno” e coraggio, se coerente, a chi fa forza sullo Spirito per vivere con intensità e gioia profonda, e quella speranza che viene da Cristo, che accompagna il nostro vivere. Tuttavia mi devo riconfermare sull’idea di una vita e di una casa che diventa “romitaggio” (non ha neppure il permesso di abitabilità e non si potrebbero usare i bagni, non ancora accatastati!). Incontrando un compagno di scuola prete, tornato ad abitare a casa sua, e in cura per un tumore, quasi ignorato nella sua condizione, mi sono detto che forse ho ancora qualcosa da dover lasciare, per essere lavoratore adatto al Regno!

Giancarlo Ruffato


 

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