Bergamo, 27 aprile 2013 / gli interventi (4)
In un incontro a Milano per ricordare il Card. Martini, il prete che lo ha accompagnato fino al termine della sua vita, don Damiano Modena, ha raccontato che Martini negli ultimi tempi non parlava più. Si esprimeva con un sottilissimo filo di voce che si faceva fatica a comprendere. Ciò nonostante, anche da quel flebile sussurro si percepiva il contenuto della sua parola, che manteneva la sua forza e la sua profondità.
Don Damiano ha rappresentato questa situazione con queste parole:
“debolezza della voce, forza della parola”.
Mi sembra un esempio di parola liberata, nel senso che Martini, in quei momenti, pur in una condizione di estrema fragilità, esprimeva la sua testimonianza di vita, della sua vita che giungeva al termine. “Eventi e parole intimamente connessi” come recita la “Dei Verbum” (n. 2).
Questo mi ha fatto ripensare alla mia vita di prete, durante la quale ho detto tante parole, sono stato obbligato a parlare, anche quando forse sarebbe stato più opportuno il silenzio. La parola rituale, la parola professionale, la “scuola di religione” … è “debolezza della voce”, è “parola incatenata”.
Come è già stato sottolineato, la parola esprime la sua forza e la sua verità quando parte dal cuore ed esprime la vita.
E’ stato il Concilio che, proclamando la centralità della Parola, mi ha aperto delle prospettive nuove, che hanno cambiato la mia vita.
Racchiudo in tre parole il messaggio del Concilio come io l’ho recepito.
La prima parola che è stata “liberata” dal Concilio è “comunità”.
Nei primi anni dopo il Concilio tra i giovani preti della mia diocesi si era diffuso un interesse per il tema della comunità. Allora ci si incontrava spesso tra preti coetanei, a gruppi spontanei, si rifletteva criticamente sulla vita della diocesi e sulla nostra presenza tra la gente. Avevamo ricevuto in seminario una formazione prevalentemente individualistica. Ora il Concilio cambiava le prospettive: “Dio volle salvare e santificare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo…” (Lumen gentium n. 9). Si è avviata una riflessione comune sui testi biblici riguardanti la vita di comunità, che ci ha aiutati a prendere coscienza di un nuovo cammino da percorrere. Che poi ciascuno ha cercato di tradurre nel proprio ambiente, dando origine ad esperienze comunitarie che vivono ancora oggi.
Altra parola “liberata” dal Concilio, fondamentale per noi preti operai, è “condivisione”. Tema biblico, legato all’incarnazione, col testo classico della lettera ai Filippesi (2, 6-8), che ha plasmato le nostre coscienze e orientato il nostro cammino. Siamo partiti dalla suggestione della vita di Gesù a Nazaret, sulla scorta delle testimonianze di Charles de Foucauld, di Paul Gauthier, dei Piccoli Fratelli… Poi abbiamo capito che tutta la vita di Gesù è stata un condividere la condizione umana in tutti i suoi aspetti, a partire dai poveri, dai malati, dai diseredati, dai peccatori. Si è parlato dell’identità del prete. Io penso che, se c’è uno specifico dell’essere prete, noi l’abbiamo trovato nell’immedesimarci nella condizione umile della gente normale, a partire dal lavoro e dal lavoro operaio.
L’altra parola “liberata” nel nostro cammino è proprio “liberazione”.
Noi preti operai ci siamo raccontati spesso facendo riferimento alla liberazione, sia riguardo ai cambiamenti che sono avvenuti dentro di noi, sia per il nostro impegno nelle lotte operaie a difesa dei diritti, sia per la nostra presenza critica nella chiesa. L’Esodo è stato per noi un riferimento importante. Ma anche le parole brucianti dei Profeti. E la parola di Gesù, che ha testimoniato una fede in Dio libera dal tempio e dalla legge.
Ma oggi, in questo mondo cambiato, e come siamo cambiati anche noi, che cosa significa condividere un cammino di liberazione? Cosa significa vivere un “parola liberata”?
In questo mondo segnato dalla precarietà, in cui non solo il lavoro è precario, ma sono precarie le prospettive, è sempre più precario il riconoscimento dei diritti, per molti diventano precari anche i valori spirituali su cui hanno impostato la vita, e cresce la sofferenza e la disperazione… alcune cose importanti danno un po’ il senso alla mia vita attuale:
1. essere vicino (traduco così il “farsi prossimo” di Luca 10, 36)
– sostenere la resistenza delle vittime del sistema, a partire dai più colpiti, stranieri, rom-sinti, disoccupati, sfrattati…
– accompagnare i malati e le famiglie colpite da lutti;
2. promuovere la pace
– incontri e iniziative tra persone di culture e religioni diverse, basati sulla conoscenza reciproca, il rispetto, l’amicizia;
3. sognare una Chiesa altra.
Non ho mai sperato né riposto la mia fiducia nelle gerarchie.
Ho sempre creduto nella chiesa della base, della gente umile, che fa fatica a credere e non si fida dei preti.
Ho ritenuto Papa Giovanni il dono più grande che la chiesa gerarchica ha fatto alla mia vita. Non speravo di vedere un Papa Francesco, che facesse rinascere in me la speranza umana di una Chiesa altra anche nelle alte gerarchie.
Oggi perciò prego con più fiducia per “una Chiesa libera dal potere e dall’idolatria del denaro, solidale con i progetti di liberazione delle donne e degli uomini, per costruire insieme una nuova pacificata umanità”.
Piero Montecucco