Frammenti di vita raccontati dai PO
nel decimo anniversario della nostra rivista
Nel 1945 avevo dieci anni. Ero un bravo bambino, facevo il chierichetto. Se vedevo un prete dall’altra parte della via lasciavo il braccio di mia madre e attraversavo per andare a baciargli la mano.
D’estate, verso le due, le tre del pomeriggio, nel momento che a Roma i grandi si appisolano, me ne andavo da casa per i fatti miei. Quel giorno passeggiavo da solo sul viale Angelico, davo calci ai sassolini del marciapiede. Il duce lo aveva lasciato largo e solo battuto, praticabile dai cavalli che uscivano verso il Foro Mussolini dalle caserme del viale delle Milizie. I platani, anch’essi piantati di recente erano ancora di un bel verde e non impedivano al sole di giungere alla base delle case.
Come mai da via Ottaviano venisse un rumore crescente, come mai un gruppo non folto di gente con bandiere e cartelli si avvicinasse quasi a passo di corsa, come mai cantassero a squarciagola, sembrava con ira, come mai continuassero a farlo quando giunsero sul fianco della scuola per subnormali, enorme e vuota, e di fronte c’era solo il muro senza finestre del deposito militare, non l’ho mai capito.
C’ero solo io a sentirli, che per il timore mi ero appoggiato al muro della scuola. Cantavano forse solo per me. Quando il gruppo fu vicino capii anche le parole:
“Se non è oggi, sarà ‘st’altr’anno
che preti e frati lavoreranno”.
E cantavano forte, con rabbia, mi sembrava.
Fui come colpito al petto. Volevo bene ai preti, per me erano sulla cima della fede, vicino a Dio. Era la prima volta che li sentivo offendere. Mi appoggiai ancora di più al muro e i pensieri si confusero. Misteriosamente – lo dico ora, tutto è grazia – non presero però la via della ripulsa: sono i cattivi, stanno col demonio, io sto con i preti; e neppure si intromise il sospetto che avessero potuto avere ragione, che forse era tutto un imbroglio, la Chiesa un’altra befana da smascherare.
Non so come fu – avevo dieci anni – che quel canto fatto con ira, con passione, lo sentii che urlava una pretesa, metteva una condizione, implorava una grazia, come fosse l’unica cosa che potesse farli felici. Che mi fece nascere nel cuore un misterioso pensiero: “Perché no?”.
Poi, per quindici anni me ne dimenticai.