“PRETIOPERAI QUALCHE ANNO DOPO”
Convegno nazionale 1989
1. Forse mai come in questo convegno nazionale sono messe in evidenza le anime presenti all’interno del nostro movimento. Due posizioni radicali (le restanti, con sfumature diverse, possono essere ricondotte all’una o all’altra) che non possono più essere attribuite alla specificità di una particolare regione italiana, ma che si intrecciano e convivono: la posizione di chi si appella alla fondamentalità del mandato della chiesa (facilmente pensata come “costruttiva e positiva”) e la posizione di chi, partendo dall’esperienza operaia, si pone alcuni interrogativi sullo stesso significato del sacerdozio cattolico (frettolosamente definita “distruttiva e nichilista”).
Si tratta di una antinomia irriducibile o del palesarsi delle due facce dello stesso problema? Certo, del partire con i ragionamenti dalla chiesa o dalla storia, dall’essere preti o dal nostro essere operai.
Oggi comunque non c’è più niente da aggiungere e nulla da mediare. Quali dunque le prospettive?
‘A bocce ferme’ sono ipotizzabili, mi pare, quattro soluzioni:
- Ferma restando la ricchezza dei cammini individuali, che continuerebbero, questo convegno decreta la fine dei pretioperai italiani come collettivo. Una caduta in piedi, coerente e piena di dignità.
- Il collettivo è mantenuto come spazio di testimonianze. Ma il pericolo è che tendenzialmente sempre più si diversificheranno non solo le scelte concrete ma anche le motivazioni ed il senso. Ed inoltre l’acquisizione di un approccio alla politica su dimensioni di laicità, finirebbe per privilegiare sedi specifiche e parametri di riferimento rispetto ai quali fede e sacerdozio diverrebbero elementi del tutto periferici ed ininfluenti.
- Il rilancio volontaristico di una struttura vuota; il confronto tra sordi privo di dialogo. Il tener alta una bandiera sul nulla. E chi vuole?
- Da posizioni opposte (ma complementari?) e forse non mediabili, accettare di interrogare e di lasciarsi interrogare. Come le sponde di uno stagno rilanciano le onde provocate da un sasso lanciato nell’acqua.
Non so bene se esista una tale disponibilità (il convegno deve pronunciarsi chiaramente), so che su questa scommessa può aprirsi il futuro.
2. Ieri compagno di strada, oggi nostro maestro, la relazione introduttiva della segreteria uscente ha rievocato l’indimenticato Sirio Politi. Il suo invito a portare fino in fondo “la pazzia della fedeltà”.
Venti anni e più di esperienza nella classe operaia, lì nei momenti delle conquiste come in quelli della sconfitta, stanno decisamente ad indicare che tutti abbiamo rischiato e continuiamo a farlo, tutti “abbiamo fatto un salto” in nome della coerenza, tutti ne paghiamo il prezzo. Ce ne diamo credito? E chi può definirsi il primo della classe nei confronti degli altri?
Non si tratta di un avviso moralistico, ma del richiamo al superamento di ogni forma di ipocrisia clericale e farisaica, per la quale ha più importanza l’apparenza che il contenuto, e dalla quale il quotidiano, duro rapporto con la gente schietta del nostro popolo non ci ha ancora, forse, del tutto liberati.
3. Quale il terreno dell’interrogazione?
A me pare che necessariamente debba essere il terreno dei temi essenziali nostri specifici (le radici e le utopie del preteoperaio), che non sono, badate bene, quelli politici, così importanti nella storia del movimento e nelle vicende di ciascuno.
A volte abbiamo posto al centro del nostro interesse anche questi temi, ma ormai è fin troppo chiaro che tendevano a ridurre la fede a impegno politico.
A tutti noi risulta ovvio che tra i pretioperai ci sia chi elabora strategie all’interno degli strumenti storici della classe operaia, come chi lavora per la coscientizzazione popolare, o chi si impegna sul tema della pace, dell’America Latina, della emarginazione… Ma nessuno di questi è l’interesse specifico del nostro movimento, né tanto meno il nucleo aggregante della nostra ricerca. Restano tutti validi punti di partenza (dai quali…) se la fedeltà ai compagni di strada significa condivisione e se l’ispirazione evangelica non è barattata come fedeltà all’istituzione.
I temi essenziali non li inventiamo adesso: fanno parte del nostro patrimonio. Ma oggi ci è chiesto di affrontarli con una libertà nuova, che da una parte sia in grado di superare i condizionamenti derivanti dalla paura di perdere qualcosa, e dall’altra sappia trasformare le posizioni in dialogo attento e produttivo.
Ne elenco alcuni: evangelizzazione, il divino, il sacerdozio come mediazione, la teologia dell’annientamento…
Ci è richiesto uno sforzo rinnovato di riflessione, di proposta di idee ed interrogativi, e la ricerca di nuovi strumenti di confronto.
La ricchezza non è del tutto esaurita. Vale la pena di continuare.