Sguardi dalla stiva
1) Trasformazioni
Ogni anno le grandi realtà produttive espellono personale, non per il termine del ciclo lavorativo delle persone, ma per crisi aziendale con conseguente ristrutturazione.
La globalizzazione selvaggia del mercato ha reso i beni prodotti, ma anche i lavoratori merce di scambio. La tecnologia avanza e la disponibilità alla flessibilità non costituisce nessuna garanzia per i prestatori d’opera. La politica non sembra avere nessun potere, mentre decide il solo mercato.
È il moloc che ingoia anche la nostra umanità oltre le possibilità di futuro delle generazioni future.
L’Italia non si è mai caratterizzata per la presenza di grandi complessi industriali, eccezion fatta per i capitani di poche grandi famiglie del Nordovest e dei complessi delle partecipazioni statali del Centrosud. La realtà produttiva si è decentrata nei territori in una miriade di realtà, spesso familiari, caratterizzata da vivacità e flessibilità. Il Nordest (Veneto, Friuli, Emilia Romagna, Marche) è stato per anni il segno di un miracolo economico ammirato anche all’estero.
Ma il vento è cambiato. La concorrenza senza regole dei Paesi emergenti, dai colossi di Cina ed India, alle Tigri del sud-est asiatico, ai nuovi entrati nella Comunità Europea, rendono difficile tenere il passo.
Sono mancati a noi i supporti per tenere il passo ed aprire futuro: la ricerca, l’innovazione dei prodotti e della tecnologia, la formazione, ma anche la consorzialità delle piccole imprese e la loro finanziarizzazione.
Il fare da soli mette tutti contro tutti e si paga.
Oggi i tamburi battono sulla questione del costo del lavoro, giudicato troppo elevato a fronte del
Sud del mondo. Non ci interessa l’elevazione del loro tenore di vita che espanderebbe il mercato, ma il poter sostenere la loro concorrenza con l’abbassare il nostro e, nel contempo, spingere la gente a consumare di più.
Al di là di aspetti etici e di compatibilità con il sistema terra (i beni sono finiti, e l’inquinamento…) non si riesce a capire come lo stesso mercato possa sopportare una sovraproduzione di beni ed una restrizione di acquirenti.
2) Una Storia
Sono inserito (per la seconda volta) in una piccola fabbrica di 35 dipendenti fissi, più altri 5 a tempo determinato secondo le nuove tipologie di collocamento (lavoratori usa e getta, con diritti limitati e soggetti alle agenzie private di collocamento).
Presento la nascita e lo sviluppo di questa realtà come paradigma dei meccanismi che ti stritolano.
Luigi, un trentino della Val Giudicarie faceva il muletta , affilava coltelli; non trovando sbocchi in montagna, scese a Verona negli anni 1960. Questo tipo di lavoro era in crisi pure da noi, ma esisteva tutta una realta di piccole aziende che tentavano l’avventura nel termomeccanico. Colse la necessità di offrire alle aziende la filettatura di tubi (tronchetti) che andavano a raccordare lo scaldabagno alla distribuzione dell’acqua. Il suo laboratorio era lo scantinato di casa,con trapani, poi una macchina a pettini, poi un piccolo tornio…e fu supportato da alcuni conoscenti che erano anche amici.
Tra alterne vicende, la cosa cominciava ad andare per cui costruì un piccolo capannone dietro l’abitazione. I tre figli studiavano e si diplomarono in meccanica ed elettronica.
Sopravvenne un periodo di crisi del termomeccanico; sembrava che la piccola realtà dovessere chiudere ed anch’io fui licenziato. I figli rilanciarono aprendo ad altre lavorazioni: lo stampaggio e la piegatura lamiere per aziende diverse dal termomeccanico. Furono costruiti nuovi capannoni ed acquisite nuove macchine, sempre con gradualità, tre stampatrici, due laser e, per la piegatura , una diecina di macchine: Il passaggio portò all’attuale organico, ma cambiò anche la relazione con la Direzione.
Il Luigi aveva instaurato un clima familiare; l’azienda era una continuazione della famiglia: rapporti affabili, lavoro a fianco dei dipendenti, piccoli favori, tempi non controllati…ma è sempre stato inflessibile di fronte alla richiesta di sindacalizzare l’azienda ed ha sempre tenuto il minimo salariale, piangendo il morto: Il potere di autorità ed economico non si poteva scalfire da buon padre padrone. Il potere non era contrattabile e doveva restare il legame funesto di figli.
Questa impostazione è stata interiorizza dai primi dipendenti che condizionano ancora gli altri.
Di fatto, la competitività non si è collocata tra padrone ed operai, ma tra operai stessi; gli aumenti salariali non avvengono a norma di contratto, ma con superminimi ad personam incontrollabili dal Consiglio di fabbrica. Ogni trattativa collettiva (ma non si riesce a fare uno sciopero) non ha mai portato a casa risultati salariali.
Il paternalismo, l’ideologia della privacy, la cultura del farsi da soli e soprattutto, la sfiducia reciproca ci ha consegnato nelle mai del padrone . Le azioni che qualcuno pone come resistenza esprimono la rabbia personale ed hanno il valore di sola testimonianza non diventano forza politica di cambiamento.
3) Ma esiste un fondo del sacco?
Nonostante la grande effusione di energie dei figli ( personalmente li vedo come i nuovi monaci del XXI secolo, perché tutto la loro vita è in fabbrica) resta la debolezza strutturale del prodotto: un semilavorato per altre ditte committenti, che non ci permette di entrare direttamente nel mercato con un nostro prodotto; siamo una ditta di appalto.
Difficile è prevedere, programmare il lavoro; il che fare, i tempi i prezzi sono nelle mani di chi si trova fuori dal circuito della nostra azienda. Inoltre tutte le ditte hanno eliminato le scorte di magazzino, si deve lavorare con il just in time su ordinazione e risposta immediata. Si passa quindi dal lavoro urgente e stressante al non lavoro, ed alla CIG .
Resta problematico il lavoro stesso. Le aziende committenti, per grandi quantitativi,
preferiscono ora portare il lavoro all’estero, Paesi dell’est Europa dove il lavoro costa meno, lasciando a noi la campionatura od i pochi pezzi urgenti.
Questo ha generato la corsa ad individuare ed eliminare tutte le perdite di tempo e di errori del processo produttivo. La centralità non è posta sul prodotto, l’organizzazione del lavoro, le competenze e la formazione, ma sui tempi e metodi che sono solo una parte del complesso da rivedere.
L’alveare è impazzito, divenendo un luogo da analisi psichiatrica a cominciare dalla Direzione. La logica va nella direzione di “fare concorrenza ai paesi …del terzo mondo”
Tutto passa dal controllo della penna ottica: tempo di lavorazione, attività della macchina, proprietà del prodotto in conformità; non sono ammessi tempi morti: sono monitorati anche i bisogni fisiologici. Per ogni infrazione arrivano lettere di contestazione con richiesta di giustificazione.
Il risultato è un aumento di carichi di lavoro, di ritmi stressanti, di tensioni psicologiche, di stanchezza,
di pericolo per la salute e la sicurezza ; anche le relazioni tra colleghi sono incrinate perché ognuno deve difendere se stesso pur lavorando a fianco di altri . C’è stato un sussulto contro la Direzione, ma subito si è placato dall’esigenza di salvare il proprio posto di lavoro… con i tempi che corrono.
Il padrone ha vinto prima nella testa , nella cultura e poi in fabbrica, Berlusconi ne è il segno! Paghiamo un prezzo enorme per una cultura vincente a favore di pochi, ma non convincente e rivelante.
Luigi Forigo
ANCHE ALLA FIAT NON SI SCHERZA
Usando il solito ricatto occupazionale e contando sulla complicità dei sindacati filopadronali la Fiat sta obbligando gli operai degli stabilimenti italiani ad osservare un sistema aggiornato di misurazione dei tempì occorrenti per la produzione. È Il cosiddetto TMC2, già adottato a Melfi e a Pratola.
Con la nuova metrica i lavoratori vedono accrescere i ritmi ed i carichi di lavoro, la cadenza nelle linee di produzione si esaspera e le pause diminuiscono. La velocità di esecuzione (il cosiddetto rendimento), che con la precedente metrica TMC1 era espressa in 133,33 centesimi di minuto, ora passa a 163,38.
Le macchine e le linee vanno più svelte. Il lavoro si intensifica, producendo di più nello stesso tempo.
Per fare un esempio, alla Carrozzeria di Mirafiori se prima dell’introduzione del TMC2 un operaio doveva lavorare su 250 autovetture il giorno, ora deve lavorare su 292. Si costringe cioè l’operaio a far entrare in un turno una più grande quantità di lavoro.
Assieme allo sfruttamento aumentano la fatica (di circa il 20%), lo stress, la tensione, il logoramento psicofisico, i pericoli. Il controllo diventa da caserma.
Di conseguenza il valore della forza lavorativa cala.
È stato calcolato che un operaio Fiat in 40 minuti di lavoro produce il valore della propria forza lavorativa, ossia il valore dei mezzi di sussistenza che gli necessitano. Per tutto il tempo restante crea plusvalore che resta nelle mani del capitalista. Con l’introduzione della nuova metrica si accorcia quella parte della giornata lavorativa necessaria all’operaio per produrre l’equivalente dei propri mezzi di sostentamento e si accresce quella rubata dai padroni.
Come si è arrivati al TMC2? I padroni hanno per anni studiato e sperimentato la nuova metrica del lavoro. Si sono avvalsi dei progressi tecnico-scientifici, del perfezionamento degli strumenti di produzione, dell’ergonomia, dell’organizzazione della produzione, della microgestualità e della medicina del lavoro. Si sono appropriati dell’esperienza stessa degli operai, della loro abilità di dettaglio.
Paradossalmente i più potenti strumenti per abbreviare il tempo di lavoro e conquistare tempo libero, per diminuire la fatica e distribuire su tutti i membri della società il lavoro, si trasformano nelle mani dei capitalisti nel mezzo più sicuro per dissanguare gli operai, per peggiorarne le condizioni di lavoro e di vita.