Sirio Politi / Scritti del periodo 1975-1986 (4)
Pretioperai e “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”
E’ chiaro, ma la cosa non mi sorprende anche se mi angoscia profondamente, che un invito alla riconciliazione per gli organizzatori del convegno, vuol dire stringere la mano tesa per, finalmente, fare la pace, buttarsi nelle braccia aperte e lasciarsi serrare al cuore in un abbraccio tutto di perdono, di “non parliamone più…”. In fondo, a ben pensarci, sarebbe cosa semplice, facile: fra i tanti nostri difetti personali e collettivi, a parte una certa (e simpatica) spregiudicatezza, in noi pretioperai non hanno senso chiusure orgogliose, blocchi culturali, nemmeno posizioni conquistate e irrinunciabili.
Stranamente, ma è vero, la vita operaia ci ha resi umili, disponibili, accoglienti, contenti di un “buon giorno”, di una conversazione amichevole in piazza ; proprio perché realtà di popolo, speranza dei poveri ci hanno profondamente raddolcito sensibilizzato e costruito alla capacità di una fiducia, di una speranza senza limiti e senza stanchezze . La perdita di ogni privilegio, di ogni autorità è a tutto vantaggio della crescita di umanità, di fraternità e quindi di serenità, di pace.
Credo di poter affermare con tutta sincerità che è fin dall’inizio di questa mia scelta di vita operaia – e fu subito storia durissima di terribile solitudine e d’immediata emarginazione – che mi ha perseguitato nella mia vita di Fede cristiana, questo richiamo alla riconciliazione, il bisogno, come dell’aria che si respira, di unità, di sentirmi e di essere Chiesa nella realtà di una vita, spesso sopraffatta da difficoltà, da aridità estreme.
Ma e lo confesso candidamente, riconciliazione nel profondo della mia anima è parola che mi suona terribilmente equivoca e quindi incomprensibile e inaccettabile. E per due motivi.
Riconciliazione presuppone una separazione, una divisione, un ritorno dopo essersi allontanati. E quindi un rinnegare qualcosa, respingere, condannare ciò da cui è richiesto “convertirsi”.
Ma io non mi sono mai separato dalla Chiesa, non me ne sono mai allontanato. E cosa devo rinnegare, abbandonare, da cosa mi devo convertire? Cosa vuol dire “conversione” per me, vecchio preteoperaio? Dopo trent’anni di vita operaia vissuta nella povertà, nella sparizione di ogni diritto e privilegio, in un perdermi dentro i cancelli di un cantiere, fra gli scaricatori di porto, nell’artigianato offerto e vissuto fra contadini e handicappati, nelle manifestazioni rivendicative delle lotte operaie, contro le centrali nucleari, contro il militarismo, per la pace, la fraternità, la nonviolenza… mi devo convertire, è il momento della riconciliazione. E a cosa mi devo convertire, con chi devo fare la riconciliazione?
L’altro motivo di perplessità e d’impossibilità per me è che dev’essere tutta dalla mia parte, è un cammino che io devo fare verso là dove sono atteso, sia pure a braccia aperte. Non è possibile che non mi si ponga l’interrogativo se anche la Chiesa o meglio, gli uomini della Chiesa, avvertono il bisogno e scoprono il dovere della riconciliazione, quella capacità profonda di intuizione capace di suscitare nella coscienza il giusto giudizio, la visione oggettiva delle proprie responsabilità per ottenere in sé stessi e intorno a sé autentica riconciliazione e vera comunione. In ogni storia d’incomprensione, di contrasto, d’insopportazione, di separazione e allontanamento, tutta la responsabilità non è mai da una sola parte.
Ciò che conta è il superamento di ogni difficoltà, di ogni ripiegamento e lasciarsi prendere e vincere dal bisogno, dalla voglia incontenibile di incontrare “l’altro”, ottenendo la grazia e la gioia della riconciliazione.
Non può non tornare alla memoria, a questo punto della riflessione, la lunga e dolorosa storia dei pretioperai e del giudizio di respinta e del comportamento di ostilità da parte della Chiesa e dei suoi vescovi.
Riprendere per accenni brevissimi questa storia non è per recriminazione e nemmeno per il desiderio di mettere in evidenza quanto la disponibilità alla riconciliazione programmata e promossa in un convegno a livelli ecclesiali, possa esaurirsi in una generica e superficiale offerta di accoglienza al “ritorno” dei figli prodighi.
Perché se così è, come sembra, il convegno può diventare ed essere nulla di più di una campagna pubblicitaria sia pure di prodotti di bontà.
E’ per questo che mi sembra giusto e doveroso guardare indietro: è indicativo anche per conoscere e rendersi conto della realtà attuale. Perché come sempre per il passato, anche al presente (vedi il discorso del papa all’udienza della Conferenza episcopale del 25 ott. ’84) è possibile l’ottenimento dell’unità e il consolidamento della comunità ecclesiale è nelle “sacrae disciplinae leges” del Codice di diritto canonico, promulgato l’anno scorso.
E noi pretioperai facciamo sicuramente parte di quella diaspora che, e non è certamente per cattiva volontà, non è disponibile per un ritorno, se è richiesto per la strada sulla quale camminare sono le leggi e la terra per l’incontro e l’abbraccio è il Codice di diritto sia pure canonico.
Una semplice e oggettiva “memoria” della storia dei pretioperai (e ognuno di noi preteoperaio può raccontare la sua storia di solitudine, di emarginazione, di fatica per tutta una fedeltà alla Chiesa e alla condizione operaia) è più che sufficiente per raccontare che il comportamento della Chiesa nei confronti di preti che fanno la scelta di vivere nella condizione operaia è stato fin dall’inizio, rifiuto, respinta, condanna.
Siamo appena dopo la fine della guerra, 1946 e l’esperienza di preti al lavoro nei campi di concentramento tedeschi, si trasferisce in Francia. Immediatamente e in crescita progressiva, i sospetti, le accuse, che saranno fondamentalmente sempre le stesse: compromissioni del sacerdozio con la politica a tutto servizio della rivoluzione e dell’ideologia marxista.
E’ nel’54 che l’intervento del card. Pizzardo prefetto della Congregazione dei religiosi, precisato in una lettera durissima e sperata risolutoria del problema, inviata all’episcopato francese, mette il centinaio dei pretioperai francesi nell’impietosa condizione di scelta fra l’essere preti o l’essere operai.
In quel 1° marzo del ’54 secondo l’autoritarismo implacabile di Pio XII, doveva concludersi, e definitivamente, questa storia di preti che abbandonando le sistemazioni tranquille e sicure di una pastorale tradizionale avevano scelto e deciso di andare “all’inferno”.
Ma è scritto che “il regno di Dio è come la semente che un uomo sparge sulla terra. Ogni sera egli va a dormire e ogni giorno si alza. Intanto il seme germoglia e cresce ed egli non sa affatto come ciò avviene: la terra da sola fa crescere il raccolto…” (Mc. 4, 26). Sono 30 anni da quel 1° marzo del ’54 e ancora questa esperienza dei preti operai è viva e vivente in quella realtà di Chiesa che si ostina a rifarsi al Vangelo per ritrovare e vivere una condivisione e partecipazione al mondo dei poveri e cioè di quella condizione di esistenza di popolo senza voce, senza potere ma appesantita e schiacciata dalla sopraffazione del potere economico, politico, religioso. Di condivisione e partecipazione, come sempre sulla propria pelle, della condizione operaia propria di ogni tempo storico e quindi anche di quello attuale, oppressa e disumanizzata dalla assolutizzazione della ragione economica e del profitto, dal progresso tecnologico sempre più avviato alla dipendenza non soltanto dell’uomo dalla macchina, ma alla sostituzione della macchina all’uomo, sempre più nella prospettiva ma ormai è programmazione inarrestabile, dell’ultimo depauperamento nei confronti della classe operaia e cioè dell’unica sua forza e dignità, quella del lavoro.
Condizione di preti e condizione operaia: due realtà distinte e inconfondibili appartenenti, sembrerebbe, a due mondi assolutamente inconciliabili.
E la fatica della Chiesa è stata costante, instancabile, cocciuta a non consentire e tanto meno a non benedire l’ottenimento di una nuova identità sacerdotale nella quale realizzare una unificazione di una realtà storica separata e lontana dalla Chiesa: lo scandalo del secolo ventesimo è la separazione della classe operaia dalla Chiesa, diceva già Pio XI e Paolo VI stesso si era domandato il perché di tutta una incomunicabilità ed incomprensione tra Chiesa e mondo del lavoro.
Il progetto preteoperaio è tutto nella ricerca di questa nuova identità personale attraverso la compenetrazione di due qualificazioni tradizionalmente, per cultura, finalizzazione e prassi, fra loro irriducibili: prete nella Chiesa cattolica e operaio nella condizione operaia.
La Chiesa ha sempre giudicato assurda, impossibile questa nuova identità, non ipotizzandola nemmeno, per il convincimento che nella confluenza delle due realtà, in pura perdita sarebbe risultata l’identità sacerdotale. E sia per l’assorbimento inevitabile del preteoperaio nell’ideologia marxista sia per l’intruppamento irresistibile nelle organizzazioni della sinistra partitica, sindacale e sia per una logica e deprecabile liberazione dalla dipendenza dalla gerarchia ecclesiastica e dal magistero, maturata anche a seguito di una indipendenza economica.
(articolo pubblicato in parte su “Rocca” del 15.3.1985)