Renato si racconta


 

“Usciamo dunque anche noi dall’accampamento
e andiamo 
verso di lui, portando il suo obbrobrio,
perché 
non abbiamo qui una città stabile,
ma cerchiamo quella 
futura.” (Ebrei 13,13)

 

1. Vorrei che questa lettera giungesse a tutti coloro con i quali ho condiviso un tratto di un lungo cammino di fede e di Chiesa. Ho esitato molto a scrivere. Mi chiedevo se…ne valesse la pena.
Ho superato queste esitazioni pensando che fosse doveroso dare una qualche spiegazione di una scelta che mi ha portato lontano dal cammino che avevamo iniziato insieme.
Se poi a qualcuno questa lettera desse fastidio non avrà che da cestinarla: chiedo scusa in anticipo del disturbo. Userò, senza troppa attenzione, la prima persona singolare e plurale, perché presumo di parlare in qualche modo anche a nome di qualcun altro.

2. Dopo alcuni anni, abbastanza intensi, passati al servizio della diocesi (seminario, associazioni, Consiglio pastorale…), ho passato la maggior parte della mia vita di prete lontano dalle istituzioni ecclesiali, senza una parrocchia, senza un ministero preciso all’interno della diocesi. Perché tanto tempo “sprecato” nel lavoro? Perché così poco impegno nelle attività caratteristiche del prete (celebrazioni, catechesi, animazione di gruppi…)? Tanto più che i preti sono pochi, e molti cristiani hanno bisogno del prete?
Questa domanda rimane un po’ implicita quando qualche prete chiede cosa faccio; la risposta, da parte mia, è sempre un po’ impacciata: è difficile dare una risposta chiara senza spiegare un mucchio di cose che sono all’origine delle presenti scelte di vita.

3. È difficile dire in poco spazio le ragioni che ci hanno guidato nella vita. Ma non è solo lo spazio che manca: le radici del nostro agire sono spesso profonde e lontane: nell’infanzia, nella famiglia, nell’adolescenza e nell’educazione che abbiamo ricevuto.

4. Schematizzando un po’ credo di poter dire che all’origine di una scelta che può sembrare singolare (lavoro manuale prima in fabbrica, poi in cooperativa agricola insieme ad alcuni ragazzi con… problemi di inserimento nella nostra società, vita di comunità insieme ad alcuni membri di un ordine religioso e con laici, credenti e no…) ci sono due avvenimenti: il ’68 e, prima ancora, il Concilio, che hanno avuto sulla nostra vita l’effetto di un forte uragano: hanno spazzato via tutto quanto non aveva solide fondamenta. Molte cose che credevamo facessero parte delle verità indiscutibili (e di fatto indiscusse) e rivelate non erano in realtà che prodotto di una certa cultura, che oltretutto in molti punti oscurava il messaggio del vangelo e a volte lo contraddiceva. La rivolta morale verso la guerra in Vietnam è emblematica. Ma penso anche all’ “obbedienza non è più una virtù”, alla morale sessuale, alle lotte per la libertà e la giustizia, ecc. La stessa cosa si può dire della liturgia, della teologia romana dei manuali studiati a scuola ecc.

5. Quando i Padri conciliari hanno scritto che “Le gioie e le speranze, le angosce e i dolori degli uomini, in particolare di quelli che sono più poveri e che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le angosce e i dolori di coloro che credono in Cristo” hanno suscitato tante domande:
– la Chiesa nel suo insieme, in particolare nella sua gerarchia, e ancora più in particolare nei suoi preti, è in grado, è capace di vivere, condividere le gioie e le speranze, le angosce e i dolori della gente?
– come è possibile condividere le sofferenze dei più poveri se stiamo con i ricchi?
– come facciamo a condividere le speranze degli operai, delle donne?

6. Una seconda cosa ci ha colpiti: la Chiesa ha sempre dato molta importanza alla povertà, facendone addirittura uno degli elementi fondamentali della vita religiosa: preti e religiosi sono spesso personalmente poveri (e altrettante volte personalmente non poveri!), ma la Chiesa nel suo insieme è ricca e, come istituzione (fatte poche e tribolate eccezioni), schierata con il mondo dei ricchi.
I preti, per quanto personalmente staccati dal denaro, sono comunque funzionari di una realtà che sta dalla parte di chi sta bene. Inoltre chiedono soldi per le prestazioni religiose. Parlo di trent’anni fa, ma cosa si dovrebbe dire adesso che la Chiesa vuole anche i soldi dallo Stato per le sue scuole e ritorna ad esprimersi come una potenza mondana che condiziona le scelte politiche e sociali?!

7. Ci è parso allora necessario, per fedeltà al vangelo e al ministero di preti, cambiare il contesto storico, sociale, culturale nel quale ci trovavamo, per cominciare a credere e sperare nelle condizioni normali della gente alla quale eravamo stati mandati. Non dovevamo inventare tutto noi: l’esperienza dei Piccoli Fratelli di Charles De Foucauld e dei preti operai francesi, ma anche italiani (don Sirio Politi a Viareggio e don Borghi a Firenze) aveva già aperto e indicato la strada: il lavoro manuale e in fabbrica ci dava nello stesso tempo la possibilità di liberarci della cultura e mentalità clericale, di vivere del proprio lavoro separando il ministero dal denaro, inserendoci nella classe operaia, allora soggetto attivo della lotta per la riforma della società.

8. Noi non abbiamo capito che i vescovi al Concilio …scherzavano e abbiamo preso sul serio la necessità di un continuo “aggiornamento” (Ecclesia semper reformanda) perché la Chiesa potesse superare l’abisso che la separa dai poveri e dalla ricerca e dai problemi dei nostri contemporanei.
Abbiamo creduto davvero che la Chiesa potesse e sapesse liberarsi dal peso del denaro e del potere: sognavamo un Papa che abbandonava il Vaticano per essere libero dalla Curia romana e dallo splendore di un regno mondano costruito senza scrupoli sul sangue della povera gente; un vescovo che vendeva i suoi palazzi e tutti gli edifici che non servivano direttamente ad annunciare il vangelo e andava ad abitare in un alloggio “normale” tra la gente semplice (a Bellavista!); i preti che vivevano del loro lavoro e riuscivano una volta per sempre a liberare le preghiere, i sacramenti, la “pastorale” dalle prestazioni di denaro; una congregazione di suore che rinunciava a costruire il “tempio” (era finita l’epoca della sacralità e molte chiese già erano superflue) e dava ai poveri gli edifici nuovi superflui; uno stuolo di religiose che tornavano ad essere ragazze e donne semplici e “normali”, vestite come le altre donne (senza chador che non appartiene più alla nostra cultura), abbandonavano le istituzioni per “tornare alle origini”, assistendo malati e anziani “a gratis”, insegnando “a gratis” alle ragazze povere e abbandonate a leggere e scrivere, annunciando loro “a gratis” il vangelo della speranza e della liberazione…

9. La nostra speranza sembrava già in fase di realizzazione: i nostri sogni ci univano alla parte più viva dell’umanità. Il mondo si stava rinnovando nella giustizia, nella libertà, nella pace. L’abisso che lo aveva separato dalla Chiesa con il Concilio era colmato.
Erano gli anni di Papa Giovanni, di Krusciov, di Kennedy, di Camillo Torres, di Fidel Castro, del Ché, che avevano trovato un’eco profonda nel cuore di tanti giovani, studenti e operai, che scendevano in piazza contro gli orrori della guerra (occidentale e cristiana) in Vietnam, a celebrare la primavera di Praga, contro la repressione…il ’68, un momento eccezionale della nostra storia.

10. La nostra ingenuità era incredibile, ma ben presto ci siamo resi conto che la nostra Chiesa, neanche sotto il soffio più potente dello Spirito, era in grado di rinnovarsi in modo profondo. Ritorno alla Parola di Dio, la liturgia partecipata, la Chiesa come popolo di Dio, ritorno al vangelo, alle origini, spiritualità di Charles De Foucauld, revisione di vita, vita comunitaria, e mille altre cose tutte belle, sante e necessarie, non erano tuttavia sufficienti a farci superare l’abisso che ci separava dal “mondo” e dai poveri.

11. Il problema non si risolve con sforzi di buona volontà, è un problema culturale! Sentiamo prepotentemente la necessità di liberare la fede e la Chiesa (almeno quel pezzetto che siamo anche noi) dal contesto sacrale, dal connubio indissolubile nella cristianità occidentale con il potere (era costantiniana) e con una classe sociale che le lascia la sua cultura e i suoi valori (per lo più nelle forme del secolo precedente), il potere, il denaro, ma non la sua anima. Gli amici carmelitani si esprimevano così:

“…è necessario un esodo verso un luogo nuovo; non è un luogo interiore (condizione necessaria ma non sufficiente), ma un luogo storico, cioè sociale e culturale;
– da un luogo dove si vive anche senza lavorare, si veste, si mangia, ci si scalda come solo gli abbienti possono, si ha gratis cultura, mezzi di locomozione, gestione del tempo libero, potere sociale, si gode di sicurezza nella malattia e nella vecchiaia…
– ad un luogo di vita della “normale” gente d’oggi: ove casa pane e lavoro sono faticosamente conquistati ma rimangono rischio quotidiano (disoccupazione, cassa integrazione…); ove cultura, tempo libero, mezzi di informazione sono miraggi ambiti, ma poco agibili; ove infortunio, malattia, vecchiaia significano probabile abbandono e solitudine (1982).

12. Il lavoro manuale, in fabbrica, ci è parso il luogo più adatto per un nostro “reciclage” che ci portasse nello stesso tempo a condividere la sorte della massa (non più povera, perché alla povertà non ci sono limiti) della maggior parte della gente che vive del proprio lavoro, a liberarci della veste clericale (quella esterna ne era solo un simbolo!), a liberare la missione evangelica dal peso del denaro, e a tentare di vivere (ancor prima che predicare o “fare pastorale”) il vangelo in un contesto “secolare”.
Lo so che alcuni amici laici obiettano: “Ma ci siamo già noi che passiamo una vita in fabbrica; tu fai il prete!”. Non è la stessa cosa. Innanzitutto perché la maggior parte di coloro che partecipano attivamente alla vita della chiesa lavorano, anche in fabbrica, ma raramente come operai; in secondo luogo perché non sono mai riusciti a cambiare i preti liberandoli dal clericalismo; ma soprattutto perché la presenza di tanti cristiani sui luoghi di lavoro non ha permesso alla chiesa di liberarsi dal potere e di essere vicina al mondo operaio, e alle lotte di liberazione di cui esso era portatore.
Adesso si dice che la classe operaia non c’è più, e che se qualche ragione c’era nel passato perché il prete andasse a lavorare in fabbrica, ora la situazione è diversa. Certo le cose sono cambiate, ma la situazione di coloro che vivono del proprio lavoro subordinato e non altamente specializzato non sono migliorate, anzi sono, e di molto, peggiorate. La povertà in Italia e nel mondo è cresciuta in presenza di una crescita eccezionale dei beni prodotti (ma non finalizzati alla fame e al benessere dei più poveri), mentre la condizione del clero è largamente migliorata, e la chiesa nel suo insieme, nonostante un serio impegno caritativo, è sempre più staccata dalla povera gente; il clero più aggiornato è “postmoderno”, naviga in internet…
La realtà del lavoro, l’ambiente di fabbrica, l’essere necessariamente coinvolti nelle lotte sindacali, la necessità di un’analisi della realtà economica ha per forza di cose ridimensionato il ministero sacerdotale e cambiato profondamente la nostra vita…E’ successo quello che con saggezza (ma clericale!) il Sant’Ufficio prevedeva nel 1954: la vita sacerdotale (così com’era concepita e vissuta) non era compatibile con il lavoro operaio in fabbrica. La preghiera, la povertà, il celibato, tutto l’apostolato o ministero non potevano più essere quelli di prima.

13. Il prete al lavoro, il prete-operaio rispondeva ad una necessità sentita da tutta la Chiesa, e non solo da alcuni preti. Giovanni XXIII aveva posto la lontananza del mondo operaio (così come la questione femminile) come una delle principali preoccupazioni della Chiesa e Paolo VI aveva aggiunto: “per questo la Chiesa manda alcuni suoi preti a condividere integralmente la condizione operaia”.
Qualche anno dopo la Chiesa italiana metteva il problema dei preti-operai tra le questioni di disagio e che creano preoccupazione. In realtà parecchi preti si erano scontrati con i loro vescovi, e la Chiesa italiana non era in grado di assimilare e rendere feconda l’esperienza, troppo radicale per essa, dei preti operai. Questi, nonostante parecchi tentativi, hanno sostanzialmente navigato per conto proprio, pur essendo per la maggior parte inseriti in qualche modo nella pastorale diocesana.
Sarebbe troppo lungo descrivere qui la storia e il significato della vicenda dei preti-operai. Basti ricordare che di essa abbiamo partecipato (saltuariamente ai convegni) a tutte le sue dimensioni.

14. Con il mondo operaio nella nostra vita sono entrati anche i “sottoproletari”, gli emarginati…Già la fabbrica, soprattutto nei lavori più bassi, sporchi e faticosi, raccoglieva tutta una umanità priva di sicurezza economica, a malapena integrata negli strati più bassi, con lavori stagionali o precari. Erano gli anni in cui le galere si svuotavano e si riempivano le fabbriche.
Una parte di questa umanità ha trovato posto nelle nostre case, che cercavano si strutturarsi in comunità. Ne è nata una ospitalità molto variegata, con ragazzi e ragazze che venivano dalla droga, dal carcere, dalla illegalità e che hanno segnato profondamente la nostra vita. Non abbiamo dato loro che un letto in casa nostra, un po’ di comprensione e di affetto, la speranza di poter tornare all’onore del mondo. Qualcuno ce l’ha fatta; molti hanno solo trascorso un periodo di serenità e di pace per tornare poi all’inferno di prima.

15. Quando parliamo di queste cose ci viene sempre chiesto: ma quanti ragazzi ospitate? Alla nostra risposta: due, tre, cinque, quanti riusciamo con i nostri limiti di tempo di spazio di capacità affettiva e psicologica, notiamo una espressione di delusione, come se si dicesse: “Mi pareva che non era una cosa seria”. Perché questi problemi sono in genere affrontati a livello di istituzioni (come d’altra parte è nella tradizione della Chiesa e delle congregazioni religiose): comunità terapeutiche, mense per i poveri, case per le ragazze madri, case per gli extracomunitari ecc.
Noi abbiamo scelto un’altra strada, meno efficace, con numeri infinitamente più piccoli, aprendo la nostra casa a loro. Ci è parso così di rispondere a quella scelta degli ultimi che anche la Chiesa italiana ha detto a un certo punto di aver fatto, ma senza che questo abbia modificato la realtà della Chiesa stessa. Una conferma della necessità di trovare forme non istituzionalizzate di vicinanza ai più poveri la si ha nel fatto che qui a Ivrea quando una prostituta vuol lasciare il giro o un ragazzo ha bisogno di essere accolto fuori casa ecc. non sa a chi rivolgersi. Certo, si potrebbero moltiplicare le istituzioni, ma alla fine l’insieme dei credenti ne rimane estraneo e i bisognosi vengono “istituzionalizzati”. Inoltre la maggior parte delle istituzioni assistenziali che erano prerogativa delle comunità religiose, oggi o sono assunte dal servizio socio-assistenziale nazionale, o sono dei veri e propri business (vedi case per anziani, comunità terapeutiche…).

16. È cambiato il nostro modo di essere credenti. Ci siamo trovati dall’altra parte della barricata: i cortei, gli scioperi, le rivendicazioni sindacali, il lavoro dipendente, ci hanno fatto vedere e vivere la Chiesa e il vangelo in modo nuovo:

“Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti…Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell’alto” (Dietrich Bonhoeffer).

17. Possiamo dire che la prima parte di quanto dice Bonhoeffer si è verificato: vediamo il mondo e la Chiesa con occhio critico, dal basso. Pur essendo molto lontani da quello che ci pare l’ideale, i poveri sono entrati nella nostra vita e siamo diventati capaci (obbligati) a guardare le cose piccole e grandi dal basso.
Non sempre o molto poco siamo riusciti a non prendere la parte degli eterni malcontenti, e soprattutto ben poco siamo riusciti ad andare al di là del basso e dell’alto. Non siamo riusciti a dire tutte queste cose ai nostri fratelli nella fede per limiti nostri, certamente, ma probabilmente anche perché l’insieme della nostra Chiesa (locale e no) preferisce il ritorno del religioso, i movimenti più o meno carismatici, e in genere, da sempre, l’aspetto psicologico – spirituale della fede. Non siamo neanche riusciti a vivere ed elaborare una spiritualità adeguata alle scelte fatte.
Questo ci ha impedito di dire (annunciare), a coloro con i quali abbiamo condiviso la vita, le ragioni del nostro credere e sperare. Pur consapevoli delle mistificazioni nelle quali spesso si incorre, abbiamo una certa nostalgia per quelli che riescono a parlare di fede e di vangelo.
Noi abbiamo fatto un cammino che ci pare indispensabile, ma non siamo arrivati alla fine.

Renato Pipino

 

Renato con alcuni familiari


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