Le condizioni di lavoro


 

Sui frontoni bianco-perlacei degli stabilimenti, che risplendono al sole in contrasto con la torre nerastra degli uffici, campeggia ancora la scritta “Alfa Romeo Auto”. Se non è cambiata esteriormente la scritta, all’interno delle officine si è verificato un profondo cambiamento sul piano dell’organizzazione e delle condizioni di lavoro, in seguito al passaggio del gruppo Alfa Romeo dalla “mano pubblica” alla “mano privata” ed al recente accordo con le Organizzazioni Sindacali, con la coda di polemiche circa i risultati del referendum tra i lavoratori di Pomigliano d’Arco ed Arese.

Il giorno 22 giugno sono all’ingresso n. 4 dello stabilimento Alfa-Lancia di Pomigliano d’Arco, per avere alcune informazioni di prima mano dal coordinamento del Consiglio di fabbrica sulle recenti vicende e capire meglio cosa è avvenuto. Un gruppo di cassintegrati, non più giovani, convocati imperativamente dalla direzione per essere invitati ad un licenziamento volontario dietro qualche compenso finanziario, stazionano alle sbarre dell’ingresso. Alcuni delegati del coordinamento, che ho fatto chiamare, mi vengono incontro, ma i vigilanti mi avvisano che non posso entrare all’interno per parlare con i delegati. Ci sediamo su uno scalino a ridosso del box della vigilanza, e subito Salvatore Romano, a cui incomincio a rivolgere alcune domande per avviare la conversazione, mi fa rilevare questo impedimento e mi dice di segnalarlo. Il discorso si porta immediatamente sulle vicende che hanno condotto all’introduzione anche a Pomigliano d’Arco del modello organizzativo della Fiat. Mentre Romano incomincia a rispondere ai miei quesiti, gli altri delegati ad uno ad uno si allontanano, secondo un costume che altre volte ho rilevato.
Nel corso degli anni 1981-1986 si era avviata negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco una fase di ristrutturazione, che non riguardava gli impianti – a differenza dell’Italsider di Bagnoli – ma l’organizzazione del lavoro con la realizzazione del lavoro a gruppi di produzione, che aveva il consenso e la partecipazione dei lavoratori. Tale sistema, che comprendeva lo scorrimento dei lavoratori nelle varie postazioni della catena o la loro rotazione, consentiva di ridurre la monotonia e ripetitività del lavoro, ed una certa autonomia decisionale – entro i vincoli produttivi prefissati – nella gestione del lavoro da parte dei lavoratori in stretto collegamento con i capi. In tal modo si era conseguito un aumento dello stessa produttività, con la partecipazione dei lavoratori. Tuttavia l’azienda Alfa Romeo non procedeva agli interventi necessari per la ristrutturazione ed il risanamento aziendale: questo determinava la situazione critica per l’autonomia del gruppo. Di qui la ricerca di un partner per realizzare il risanamento aziendale, che si concludeva con la vendita da parte dell’IRI degli stabilimenti del gruppo Alfa Romeo alla Fiat.
Con il cambiamento di proprietà e di direzione veniva posta subito dalla Fiat l’esigenza di armonizzare l’organizzazione del lavoro a quella degli altri stabilimenti con il marchio Fiat, non volendo condizioni di lavoro diverse negli stabilimenti di Arese e Pomigliano d’Arco. Nella trattativa la Fiat si dimostrava irremovibile circa il suo modello organizzativo e le sue regole (“la Bibbia Fiat”), pur essendo il Sindacato disponibile ad affrontare i problemi di produttività ed efficienza. Il Sindacato però scontava la sua debolezza sul piano dei rapporti di forza, l’isolamento dai partiti e divisioni interne. La strategia della Fiat, secondo il mio interlocutore, rispondeva a due ragioni: di potere, con il controllo diretto e discrezionale dei lavoratori per addomesticare quelli ribelli, che vengono addetti alle postazioni più faticose; di sfruttamento dei lavoratori, in nome della produttività, riducendo i tempi di lavorazione conseguiti.
Tale processo di armonizzazione sul piano dell’organizzazione del lavoro si è consumato nell’arco di 90 giorni di negoziazione, e viene definito da Romano come una normalizzazione. Il sistema organizzativo Fiat che viene così introdotto anche negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco ed è di stampo tayloristico, si basa:
– sul lavoro a “postazione fissa”, per cui ad ogni stazione corrisponde un solo lavoratore che ripete decine o centinaia di volte nella giornata lo stesso movimento;
– sul controllo rigidamente gerarchico da parte dei capi;
– sull’avocazione di tutte le questioni concernenti l’organizzazione del lavoro e la produttività (individuale e di sistema) all’azienda.
Il “nuovo” sistema organizzativo, nella sua applicazione, ha aggravato le condizioni di lavoro; ha reso possibile lo sfruttamento dell’individuo e la discriminazione dei lavoratori più recalcitranti o impegnati, come nella selezione dei lavoratori posti in CIG; comporta il rischio di un’occupazione di massa dequalificata ed una deprofessionalizzazione. “Questo accordo, mi dice testualmente Salvatore Romano, non solo introduce questi elementi, ma il lavoratore deve lasciar fuori della fabbrica la sua persona, la sua cultura, una volta che varca i cancelli. Ha aggravato la dignità umana del lavoratore che la stessa Chiesa difende più di noi”.
In questa luce, si può comprendere il dissenso manifestato dai lavoratori di Pomigliano d’Arco nel referendum sull’accordo, e la defezione dal Sindacato di gruppi di lavoratori, facilitata dall’azienda sul piano amministrativo, non verificandosi le condizioni per migliorare le condizioni di lavoro. D’altra parte, il Consiglio di fabbrica si vede con le mani legate, non potendo intervenire per modificare l’organizzazione del lavoro fissata anche contrattualmente. Perciò, non può rispondere alle richieste di rotazione da parte di lavoratori che operano su postazioni faticose o nocive (il lavoratore che sputa sangue per il lavoro alla verniciatura, o che deve lavorare inginocchiato), essendo essa a discrezione del capo.
Con la privatizzazione dell’azienda sono anche mutate le relazioni industriali tra i due partners aziendali. Il recente accordo poi ha messo in atto una centralizzazione sindacale, che prevede verifiche periodiche per quanto riguarda l’applicazione dei principali capitoli del contratto. “È un sindacato istituzionale, afferma Romano, non più di rivendicazione e tutela dei lavoratori”. Il Consiglio di fabbrica si vede ridotto il ruolo negoziale e di tutela, potendo solo intervenire per verificare l’intensità delle prestazioni operaie (tempi delle singole lavorazioni, saturazioni delle singole postazioni della catena).
Chiaramente l’accordo raggiunto è frutto di un compromesso, in cui il Sindacato ha accettato il modello organizzativo della Fiat in cambio di garanzie su1 piano industriale e dell’occupazione, che riguardano il destino dell’insediamento di Pomigliano d’Arco. Come affermava Tiziano Treu “si è realizzato uno scambio tra produttività ed occupazione”. Sostanzialmente, ci sembra, in cambio del riconoscimento e della legittimazione del Sindacato e dei suoi vertici, e quindi della sua partecipazione alla ristrutturazione, con i costi umani accennati ed una quota di defezione dei lavoratori. È una strategia che non si allontana da quella perseguita in altri casi di ristrutturazione aziendale.
Da questo colloquio emerge la sofferenza di un militante sindacale di non poter difendere i lavoratori, di metterli insieme a lottare, di stare nel sindacato. Forse il momento oscuro passerà, con il tempo si determinerà un’inversione di tendenza, una ripresa di movimento per migliorare le condizioni di lavoro. Mi allontano dai cancelli dell’ex Alfa Sud dopo questo incontro con un delegato del coordinamento, che manifesta tanta umanità ed impotenza. Che cosa fare per fare conoscere questa situazione, che comporta tanti costi umani in nome della produttività ed efficienza ed anche della legittimazione sindacale? Vorrei essere un giornalista di grido, ma non so se riuscirei a scrivere queste cose.

Domenico Pizzuti s.j.


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