Svolta epocale e segni di speranza (1)
Segni dei tempi, cambiamenti epocali, svolte storiche…: stiamo provando a declinare un alfabeto della speranza o è solo enfasi retorica? Anche sciolto il sospetto di attingere troppo disinvoltamente ad un vocabolario incontrollato, gridato solo per farsi udire nella selva delle voci, una volta cioè appurata la buona fede di chi usa queste parole, rimane la questione di fondo: siamo sicuri di aver visto bene, di non essere vittime di miraggi? Il problema non è tanto quello di esibire le prove, le pezze giustificative delle presunte svolte. Certo, un primo anticorpo alla patologia della retorica sta proprio nell’attenersi ai fatti, nello sforzo di guardare e nell’onestà intellettuale dello sguardo acceso sulla scena del mondo. Ma l’operazione del vedere è sempre parziale, soggettiva: si guarda a partire da un preciso punto di vista. Ci siamo interrogati a lungo in cosa consista quello “sguardo dal basso” che Bonhoeffer riteneva un’esperienza di eccezionale valore. Personalmente, non lo confondo con le indicazioni di una sociologia militante, che prende in analisi la realtà dei senza voce. Lavoro importantissimo, che denuncia le mistificazioni “dall’alto” dello sguardo interessato dei potenti, i proclami trionfali dei politici e mette a nudo i disastri compiuti dalla mano invisibile del mercato. Tuttavia, se lo sguardo dal basso si limita a registrare l’esistente, non può che partorire il grido disperato di chi fissa l’abisso. Com’è possibile parlare di speranza, se si guarda la scena tragica della storia? E’ vero, la vicenda umana non è mai a tinta unica: ci sono sempre trentasei giusti che impediscono all’umanità di soffocare in un grido. Ma per l’appunto, appaiono più come argini alla disperazione che come attori di un mondo effettivamente svoltato…
Con piglio post-moderno, potremmo decostruire tutte le grandi narrazioni ed ironizzare su molti eventi catalogati come rivoluzioni. Quanti sono stati coinvolti dai tanto sbandierati cambiamenti? A che prezzo sono avvenuti? Chi ne ha beneficiato effettivamente? E sui lunghi tempi, cosa hanno prodotto? Progetti storici che hanno riguardato solo un’esigua minoranza; eterogenesi dei fini: le voci critiche potrebbero essere legione.
Neppure il racconto biblico risulterebbe immune dal ridimensionamento degli eventi narrati, dalla fragilità della loro tenuta sui tempi lunghi, dai numeri ridottissimi degli interessati. La storia non è avvezza ai trionfi; e quanto una generazione ha conquistato sul campo di battaglia, quella successiva lo dilapida in un batter d’occhio. Come non dare ragione alle sarcastiche considerazioni del Qohelet?
E dunque? Non resta che accodarsi alla schiera dei rassegnati abitatori del nostro tempo, esponenti di una società depressiva, incapace di andare oltre la gestione individualistica del presente?
Non penso sia un esito necessario. Non lo è stato per i narratori delle Scritture che, proprio in un tempo di crisi e di disperazione, lungo i fiumi di Babilonia, hanno configurato un mondo possibile, diverso da quello che avevano sotto gli occhi. Il loro fare memoria di grida raccolte, di liberazioni insperate, della possibilità di abitare una terra senza mali, dove scorre latte e miele, è stata la mossa geniale per non arrendersi al magro presente.
Questa operazione narrativa ci interpella, a patto di ricordare che le svolte operate dal Dio d’Israele avvengono nei racconti, più che sulla scena storica. E agli orecchi degli uditori delle Scritture suonano come favole. Appunto: “c’era una svolta…”!
Favole che sanno amplificare eventi minimi, dai più neppure conosciuti: una banda di fuggitivi, scappati dalla fabbrica di mattoni; un minuscolo popolo, sempre succube delle superpotenze; una manciata di visionari… Nelle memorie di corte dell’Egitto, di Babilonia o di Roma, neppure un accenno a quel pugno di sabbia che rivendica la pretesa di aver manomesso l’intero ingranaggio.
L’ho definita mossa geniale. Non si tratta, invece, dell’ennesimo imbroglio, di cui abbisognano gli umani per non soccombere? Un’espressione dell’incapacità ad attenersi al principio di realtà? Cosa ci sta dietro l’operazione delle Scritture di Israele?
Di certo, non vi ritroviamo una comoda rimozione della realtà: la narrazione biblica guarda in faccia la storia in tutti i suoi aspetti. Non è un libro ideologico. Il protagonista divino conosce cosa si cela nell’abisso del cuore umano, malvagio fin dalla adolescenza. Ed il narratore passa la storia al contropelo, senza tacere le infedeltà, le contraddizioni e le ingiustizie prodotte da chi era stato eletto per operare la svolta. L’andamento favolistico del racconto non mira ad edulcorare la realtà, ad assolvere dai crimini, a dimenticare il male. Le favole non raccontano fiabe!
Le parabole hanno tutte dell’incredibile, pur narrando di lavori ordinari, di problemi familiari comuni, di dettagli quotidiani. La pasta non ha niente di eccezionale; ma il lievito che agisce in essa e le mani che la lavorano con creatività fanno la differenza. Dunque, non una narrazione per parlare d’altro. La Bibbia sa che l’ordine del giorno è dettato dalla realtà. E perlopiù si tratta di una realtà deludente, tutto il contrario di quel desiderio di giustizia che plasma i nostri sogni. Ciò che fa la differenza è lo sguardo che si posa su di essa. Uno sguardo che sa intrecciare senso della realtà e senso della possibilità.
Quelle che i protagonisti delle Scritture narrano come svolte, agli occhi altrui sono eventi privi di significato. Cosa può venire di buono da Madian o da Nazaret? Eppure, la narrazione dell’esodo come quella evangelica trasfigurano l’insignificante nella novità a lungo sognata e ritenuta impossibile.
Interpreto questa operazione compiuta nelle Scritture come l’indicazione ad assumerci il rischio di leggere il nostro presente col medesimo sguardo biblico, a discernere negli eventi storici – mai di per sé decisivi – le tracce della tenacia divina per il suo Regno. E intuisco anche l’importanza del “come” si narrano gli eventi. La narrazione di Bonhoeffer di una chiesa in un mondo adulto, sollecitata a dire l’evangelo con categorie diverse da quelle della religione; o quella di Francesco della chiesa “in uscita” del Vaticano II: non sono entrambe operazioni narrative, che la realtà potrebbe facilmente smentire, mettendo in evidenza le continuità e le resistenze, più che le svolte? E la vicenda dei pretioperai non riveste i tratti dell’irrilevanza sociologica, in grado, allo stesso tempo, di mostrare un altro modo di abitare la terra e vivere con fede?
L’arte della narrazione biblica ha implicazioni politiche, fa intravvedere svolte ai più invisibili, suscita passioni nel tempo del disincanto, apre sentieri interrotti.
E’ un racconto “generativo”, che non si arrende di fronte ad una storia incapace di creare futuro, che rende feconda una realtà sterile.
Forse, anche noi, mettendoci alla scuola delle Scritture, potremmo narrare del nostro sogno di una chiesa, di un cristianesimo, di una storia differenti. Forse, è questo il compito che abbiamo ancora da assolvere, con molta autoironia ed il minimo necessario di autoreferenzialità. Nella consapevolezza che non è tanto decisivo sapere se ci saranno ancora dei pretioperai, se questa parabola è giunta alla sua conclusione o è in grado di rinascere. La svolta sta nel racconto consegnato ai futuri lettori. Nel modo di narrare il nostro sogno antico e sempre nuovo.
Narrare il nascosto: un esempio
La svolta messianica, operata da Gesù con la sua venuta nella storia, inaugura i tempi ultimi. Matteo ne racconta la nascita all’insegna del nascondimento. Maria si ritrova incinta prima di andare a vivere con Giuseppe. Costui, un uomo giusto che non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente (1,19). E fin qui possiamo anche capire quel desiderio di nascondere qualcosa che gli altri avrebbero giudicato negativamente. Ma il seguito del racconto insiste di nuovo su questo aspetto. Gesù, cercato dai magi d’Oriente, è nascosto al re e a tutta Gerusalemme (2,3). Ricercato da Erode, deve nascondersi in Egitto (2,13-15) e poi in Galilea (2,23-25). Nel seguito della narrazione, Matteo ricorda la parabola di Gesù, secondo la quale Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo (13,44). Le parabole stesse, secondo Matteo, sono raccontate per annunciare qualcosa di nascosto: Aprirò in parabole la mia bocca; proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (13,35). Gesù ne parla perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto (10,26). Ma non tutti sono disposti ad accogliere questa parola. La venuta di Gesù è qualcosa di nascosto, per nulla eclatante. La sua nascita non ha destato alcun interesse a quell’epoca. Ed anche oggi, che calcoliamo gli anni distinguendoli tra quelli prima e quelli dopo Cristo, la sua presenza ed il suo sogno continuano a rimanere nascosti in una storia che è affascinata da altri idoli. Fare memoria della venuta di Gesù nella carne significa credere che nel campo insanguinato di questo nostro mondo è nascosto il tesoro del Regno di Dio. Credere che in quel bambino sono racchiuse le speranze di una nuova umanità. Credere che la sua Parola, per quanto inattuale e nascosta al giudizio della nostra società, sia quella luce di cui abbiamo bisogno. Dio si nasconde perché vuole essere cercato. Lo dice bene un racconto della tradizione ebraica: Il nipote di Rabbi Baruch, Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo. Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo uscì dal nascondiglio, ma l’altro non si vedeva. Jehiel si accorse allora che quello non lo aveva mai cercato. Questo lo fece piangere; piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono allora di lacrime e disse: «Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma nessuno mi vuol cercare» (Martin Buber, I racconti dei Chassidim). Fare memoria di un Dio nascosto significa mettersi alla ricerca, come i magi, senza presumere di avere e di sapere già. Significa farsi piccoli: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto (11,25-26). Piccoli che conoscono quel segreto che la volpe confida al Piccolo Principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Come il Dio che si nasconde (Is 45,15)
Svolte epocali, evidenti a tutti, o tesori nascosti rivelati ai piccoli?