Testimonianze


 

Ho tra le mani giornali ingialliti dei miei scaffali.
I loro titoli sono diversi e mi pare presentino nel loro mutare l’itinerario di Sirio, che li ha pensati e scritti in larga parte.

La voce dei poveri

Il primo è del 1961: “La voce dei poveri”.
La testata riproduce la scritta a vernice su un muro sbrecciato.
La scrittura a mano riproduce la frase di Gesù in Matteo (11,5-6): “Il Vangelo è annunciato ai poveri e beato chi non si scandalizza di me”. In verità il datario porta l’indicazione del sesto anno, ma io avevo appena conosciuto Sirio e qualcuno mi aveva inviato per posta (il francobollo è di L. 5) questo suo foglio di quattro pagine.
E’ dedicato al Natale. Porta un articolo de “La Redazione”, ma è chiaramente suo, con gli auguri della comunità.

“Un giorno, non sappiamo bene quale sia questo giorno misterioso della nostra vita, ma se ben ci pensiamo riusciamo a scoprirlo con una certa approssimazione, un giorno ci è stato inviato un Angelo. Non aveva le ali dorate, nè era vestito di sole, forse non aveva neppure il giglio in mano, ma ci ha portato un messaggio di Dio.
Le sue parole erano scese nell’anima nostra.
Ci ha chiesto se eravamo pronti ad accettare che dalla nostra carne e dal nostro sangue, nel nostro tempo, nascesse il Figlio di Dio.
La fede al Cristianesimo è questa richiesta, è questo invito, è questo annuncio.
Forse abbiamo esitato a lungo.
Abbiamo respinto per un bel pezzo.
Ci siamo difesi arroccandoci nel chiuso della nostra mediocrità.
Può darsi che abbiamo detto di no.
Di no a Dio, di no alla Fede.
Dio ha insistito e ci ha convinti.
La resa; il cedere alla Sua Grazia.
L’accettare il compiersi del Suo mistero. Che Lui facesse di noi tutto quello che Gli piaceva…
…E’ tempo ormai che ognuno si offra a Dio, perché Lui sia vivente tra noi, abiti le nostre case e mangi il nostro pane, cammini tra la folla, si sieda in un angolo del treno, lavori legato al proprio lavoro, si asciughi sudori e lacrime e consenta ancora di essere inchiodato al proprio destino e a quello di tutti gli altri e non per violenza di cose o di uomini, ma per puro e libero motivo di Amore.
Sono i nostri auguri, cioè la nostra preghiera a Dio e a voi tutti, perché ancora una volta il Miracolo si compia, sì che il nostro nome sia “Emmanuel” che vuoi dire “Dio è con noi”.

Sirio l’ho conosciuto così in quegli anni.
Nei suoi scritti c’erano molte lettere maiuscole, c’era un afflato che rasentava la retorica, c’era una passione che riscaldava i pensieri, tanto da renderli incandescenti, suasivi e perentori.
Una fede calda e sicura, fatta di poche sostanziose verità e valori e tra tutti, il primo, questa totale dipendenza da Dio, questo scorgerlo compagno di vita e termine ultimo a cui tutto risale.
Un amore profondo per questi poveri delle nostre strade, delle nostre case. Non l’elogio della povertà, ma l’accoglienza, la condivisione, la fraternità con chi la vive perché è il pane di cui si è cibato da quando è nato.
E a questi poveri imprestare la propria voce, perché imparino a parlare. Essere uno di loro per dire con loro la loro condizione, i loro diritti, le loro ricchezze, le loro speranze. Perché essi abbiano voce.
La “Voce dei poveri” arriva al dodicesimo anno nel 1968.

Popolo di Dio

In quell’anno la pubblicazione assume una veste ancora più povera, di ciclostilato, e diventa “Popolo di Dio”.
Nel secondo numero del ‘68 c’è la presentazione di questo popolo e nel titolo “Pietà di questo popolo” c’è tutta la sua identificazione, tutto il suo amore per…

“…questa povera gente, sbriciolata nelle città e nelle borgate popolari, sperduta tra i campi e raggomitolata sulle colline attorno al campanile, questo povero popolo che lavora e fa le spese a tutti, che nasce e campa alla meglio, arrangiando un po’ di consolazione dove capita e sparisce come l’acqua di un fiume in mora dopo aver fatto girare la macina di tutti i mulini.
Questo povero popolo che, nonostante tutto, continua ad aver Fede in Dio, a dare un qualche senso o anche una profonda e seria motivazione religiosa alla soluzione del mistero della vita…”

E attorno a questa gente…

“…sentiamo di studi teologici, di esperienze, liturgiche, pastorali, di dibattiti e contrasti della Chiesa fra basso e alto clero, di interventi della gerarchia, di scuotimenti alla base, ecc.
Che posto ha il popolo di Dio in tutto questo tramenìo che è il problema della chiesa del nostro tempo? … Tutti si affannano a studiare nuove teologie, catechismi di chiarezza solari, liturgie appassionanti, congressi, aggiornamenti… e studiano, studiano. E poi i gruppi spontanei. Le comunità, le nuove pastorali. Di contestazione. E il povero popolo di Dio?”

E’ la vena dell’anarchico che arriverà a cingergli il collo di una vistosa sciarpa nera di qualche anno fa.
E l’impazienza di chi teme di perdere tempo con le parole:

“Tante parole in questi nostri tempi spaventosamente parola!. Che cosa daremo a questo popolo?
Un po’ di rispetto, o se volete un po’ di pietà per il popolo di Dio.
Vorremmo, se potessimo, chiederlo a tutti, perché tutti hanno lo stesso comandamento d’Amore al quale obbedire, l’unico comandamento. Non ve ne sono altri e tanto meno quello di disorientare i poveri, di strappare via la fiducia nel popolo, di seminare confusione, di distruggere anche se è per rinnovare, di voler mantenere anche ciò che non significa più nulla… Perché troppe con testazioni sono scontentezze personali. Tante novità sono soltanto vuoti spaventosi d’anima. Vi è troppa motivazione personale e di gruppo in tante crisi e spinte per interessi personali in tanta ricerca di cose e sistemazioni nuove.”

Parrebbe un conservatore spaventato dal nuovo.
Chi aveva questi dubbi, queste perplessità e timori era considerato un alienato da vecchie sicurezze, non bisognava più averne alcuna.
Eppure questa sicurezza in Sirio e in quelli come lui, era àncora a cui agganciarsi, era roccia su cui costruire.
Non era il vaniloquio di troppe nuove teorie, ma neppure l’autoritarismo della gerarchia:

“Il popolo di Dio ha bisogno e diritto all’Amore che è concretezza, fatta di incarnazione, di partecipazione concreta, di comunione totale, cioè di tutto il Mistero Cristiano, calato nel nostro tempo, dalla paglia della mangiatoia al legno della Croce sul Calvario.
Il popolo di Dio ha bisogno e ha diritto a questo Amore.
Ogni altro amore è quello del ‘ladro e dell’assassino’ e nel migliore dei casi, è amore mercenario.
È troppa autorità, è avido è assurdo autoritarismo.
Certa conservazione di principi è semplicemente voglia di posizioni preminenti, di mantenimento di privilegi.
C’è tanta paura di un sopravvento che sale dal basso.
E nel frattempo continua spaventosamente a non credere all’Amore.”

E cita la lavanda dei piedi di Gesù agli apostoli per dire:

“…il popolo di Dio ha bisogno e diritto a questo Amore, cioè sapere e credere che questo è il cristianesimo.
Questa è la chiesa. Diversamente l’autorità non salva niente; è soltanto provocazione alla ribellione o almeno crescita di voglia di liberazione, o sistema, miseramente umano, di fare il Regno di Dio.
L’amore al popolo di Dio, o se non altro un po’ di rispetto.
Almeno un briciolo di attenzione.
Un minimo di riguardo. Un ricordarsi, se proprio di più è impossibile, che c’è anche lui.”

Il numero di dicembre ‘68 cita un episodio che avevo rimosso da tempo dalla memoria. Di due lettere che Sirio ed io avevamo inviato a don Mazzi, parroco dell’isolotto, e al Cardinale di Firenze.
Eravamo andati insieme a recapitare la lettera all’Isolotto, e ricordo il nostro stupore e un po’ di rabbia di fronte alla barriera di alcuni responsabili della comunità che ci facevano problema per incontrarci con il Parroco: la comunità erano tutti, era tutto, bastava parlare con loro. E anche la conversazione di qualche minuto strappata a don Mazzi.
I giornali parlarono di quelle lettere, sfuggite alla riservatezza che noi avevamo chiesto, e Sirio ne scrive con amarezza:

“Noi abbiamo inviato quelle due lettere perché abbiamo sentito il dovere di esprimere la nostra umile opinione e ci è sembrato onesto offrire il nostro modesto parere per la soluzione migliore di tutta la crisi fiorentina, senza che le confusioni successe impedissero un serio sviluppo dei valori emersi.
Abbiamo semplicemente consigliato che l’uomo non prevalesse sul problema che unicamente conta: quello del Regno di Dio.
E che poveri preti si permettano di esprimere la propria sofferenza per tutta una situazione così appesantita e desiderino, anche chiedendo grossi sacrifici, uno schiarirsi per un tornare di tutti a quell’essere “servi inutili” di cui parla Gesù e quindi fratelli e cioè “una sola cosa” come Lui e il Padre, non si vede che ci possa essere qualcosa di sorprendente.
E che i soliti poveri preti possano osare di esprimere un giudizio e dare un consiglio ad un Vescovo e Cardinale, mossi unicamente dalla ricerca del bene della Chiesa, non si vede come tutto questo possa suscitare scalpore… invece che essere considerato sincerità, Amore vero…”

Andare a chiedere a Don Mazzi di riflettere se non è meglio scegliere una strada diversa da quella intrapresa o al Cardinal Florit di pensare seriamente se il vuoto di comunione attorno a lui, vescovo, non dovesse indurre a ritentare altrove la sua esperienza di pastore, non piacque a sinistra nè a destra, ma fu un gesto che esprimeva il desiderio profondo di mettere la causa di Dio prima delle sicurezze umane sulla giustezza dell’operato dell’uomo.

Il ciclostilato “Popolo di Dio” continua le sue pubblicazioni fino alla fine del 1971. Le problematiche più discusse sono la Chiesa, il sacerdozio, il celibato dei preti, un bellissimo documento della “Comunità ecclesiale di Viareggio” (aprile ‘69) fatta da laici, religiose, preti e vescovo, e le storie di alcuni credenti (Luther King, Bonhoeffer, P. Perrin, P. Perpiguère, Simone Weil, ecc.) trattate dal fratello di sempre, don Rolando.
Questo amore per la chiesa è per Sirio più che un sentimento.
La contestazione più radicale su alcuni errori, atteggiamenti, scelte della gerarchia non è mai motivo di lacerazione, di distacco.
Non è mai entrato nel suo parlare il “dentro e fuori” della chiesa che era tanto di moda in quegli anni.
Un amore sofferto e lucido, una denuncia per unire, per rinsaldare vincoli di umanità e di fedeltà al Vangelo. Mai l’atteggiamento di giornali di dissenso dell’epoca alla ricerca dello scandalo, alla difesa persino banale, ad ogni costo, delle vittime dei vescovi, una specie di martirologio di pessimo gusto.
Anche lui ne soffriva. Ne parlavamo spesso.
La “lettera alla Santa Madre Chiesa” in quattro puntate del 1974 in “Lotta come amore”, troppo lunga per poter essere citata, è un percorrere questo itinerario doloroso di una vita che cerca il dialogo vero e che raccoglie soltanto rifiuti o noncuranza, che esprime la lacerazione di un uomo innamorato costantemente respinto che pare aver perso ogni speranza mentre dichiara ancora una volta il suo amore.

Lotta come amore

A seguire Sirio nei suoi scritti si direbbe che i primi anni 70 segnano una svolta che non è soltanto nel titolo della pubblicazione che inizia con il ‘72: Lotta come Amore.
La parola “lotta” aveva fatto capolino alcune rare volte nei suoi scritti precedenti. Entra di prepotenza in quel periodo, sull’eco, forse, del gran rumore degli scontri sociali di quegli anni.
E che sia una nuova espressione lo mostra la caratterizzazione che sente il bisogno di darle con la specificazione “come amore”, che l’accompagnerà sempre, come rimarrà il sottotitolo del giornale: “amatevi come io ho amato voi”.
È un uso diverso della stessa parola che percorre le piazze.
È frutto delle stesse provocazioni, è indicazione di medesimi obiettivi, è sostegno agli stessi valori, è percorso quotidiano con gli altri, è volontà di novità di vita, ma è radicata in matrice diversa, cerca motivazioni che sono altre e offre atteggiamenti interiori che hanno sapori diversi.
Nel n. 4 del ‘72 l’editoriale si intitola “Lottare tutti”.

“È una vocazione questa della lotta che è tutt’uno con la volontà di Dio che ci ha chiamati alla vita.
Nessuno che vuol essere vivo e vivente può eludere questa chiamata, tirarsi fuori da questa vocazione fondamentale che è nella carne e nel sangue, nel destino della realtà umana…
La prima e più fondamentale lotta da combattere, per chi ha intuito nel pensiero di Dio la motivazione vera che spiega l’esistere umano, è la lotta contro questa lotta selvaggia, per strapparci di bocca gli uni agli altri il boccone di pane, per riempire i propri granai fino alla sovrabbondanza e lasciare morire di fame chi ha seminato e mietuto il grano. Tirarci fuori da questa lotta contro lo spaventoso infernale egoismo che attanaglia gli uomini e li rende belve che si scatenano per il possesso della carogna, è consentire, è essere conniventi, è essere responsabili.
È una lotta contro la lotta alla quale ogni uomo e ogni donna sono chiamati. La lotta contro la disumanizzazione dell’umanità. E quindi contro la guerra, l’uccidere, la violenza, l’ingiustizia, la prepotenza, l’oppressione, la schiavitù, lo sfruttamento, la ricchezza, il potere, il dominare dispotico, l’imposizione armata e poliziesca, il succhiare il sangue a vene capillari o a fiumane da allagare il mondo e affogarvi ogni creatura…
Non è lotta da estremisti, da contestatori ad ogni costo, per sfizio personale, per fissazione mentale, per impossibilità a starsene in pace, come un verme nel proprio buco, ben difesi, soddisfatti e pasciuti.
È lotta che sta alla radice e decide, come nessun altro valore umano può decidere, dell’essere vero uomo e vera donna, autentica realtà umana, vera e propria umanità.”

Non era facile parlare di lotta nella chiesa.
Non era facile parlare di amore nella classe operaia.
Abbiamo provato.
Abbiamo faticato.
Pensando a quei giorni sentiamo tutti di aver testimoniato troppo poco, di aver gridato troppo raramente, di non aver osato abbastanza. Lui lo ha fatto.

Nel ‘75 c’è un viaggio in Terra Santa.
Ne parla Maria Grazia, che aveva scritto spesso nei primi anni pagine belle, fresche e dolci e severe come lei.
Al ritorno c’è un ammorbidirsi del linguaggio, ma anche un volgersi sempre più al di là delle problematiche interne della comunità cristiana; un guardare più lontano.

“Lotta come amore” non cambia più titolo negli anni seguenti, ma il suo cammino incontra altre realtà, acutizza argomenti che si fanno più urgenti e chiamano all’ascolto.
Sirio entra sempre di più nella problematica della non-violenza. Anche le sue presenze in giro per l’Italia inseguono momenti di protesta, di urlo, di dissenso, di denuncia, sino alle accuse, ai processi, alle condanne.
Sirio pare ritrovare giovinezza ed entusiasmo.
Le rappresentazioni teatrali che lo vedono autore, regista e attore lo entusiasmano come un bimbo.
L’artista, il poeta, lo scrittore si fondono in questa ultima creatura che gli nasce dal cuore.

Anche i problemi del lavoro di questo prete operaio paiono non interessarlo più molto.
Per altro il lavoro artigianale ha caratteristiche assai diverse e la bottega ha influssi e incidenze molto diverse.
Gli anni del cantiere sono molto lontani.
Sirio rimane colui che meglio di tutti sa dire le nostre cose, anche se le strade tra noi si sono molto diversificate.
La fabbrica segna profondamente negli anni, indurisce la vita e i rapporti; la produzione, lo scontro sindacale nel quotidiano rischiano di incattivire e persino di banalizzare i gesti e le aspirazioni.
Il poter creare qualcosa con le proprie mani, la relativa libertà dell’artigiano, l’ambiente umano che può costruirsi, gli spazi che lascia per le grandi problematiche, tutto questo è respiro che consente aperture e cammini oltre le mura.
Ne parla con gioia, ne difende l’originalità e dignità.
Gli ultimi anni di Sirio sono segnati da questa presenza “alla grande” tra la gente e dalla fatica di un corpo logorato dalla passionalità dell’impegno di una vita interamente offerta e pesantemente pagata.

In questi giorni sto leggendo il suo ultimo libro “Antico sogno nuovo” (ediz. Gribaudi).
In questo titolo c’è l’ultimo Sirio.
Per un verso il Sirio di sempre: “un cuore buttato al di là della barriera”, una speranza che è sogno da vivere, un amore che è antico come la proposta di Cristo.
Ma anche il Sirio degli ultimi giorni che raccoglie l’insoddisfazione, le delusioni, i sogni infranti di tanti uomini, in questo periodo che sa di sconfitta e che pare senza avvenire, per sospingerli ancora una volta verso l’utopia nella fraternità di una vita con la povera gente che sente prepotente il bisogno di “terre nuove, di cieli nuovi”.
Nel libro ci sono, allegoricamente espresse, le tappe della sua ricerca, testimonianza, messaggio.
Tornano in mente le parole del titolo del suo primo libro: “Una zolla di terra” (1951) e la coerenza della sua vita con la frase citata nel risvolto: “Chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre su tutta la terra”.
Dai suoi scritti appare chiaro questo suo percorso.
Dall’officina del “Bicchio” a S. Maria, alla Comunità del porto in darsena, alle piazze italiane, alla dimensione cosmica dell’antinucleare.

Al mercato ittico dove si sono svolti i funerali, ai piedi del feretro, con calligrafia incerta era scritto su un foglio bianco: “Addio don Sirio, sei stato un grande uomo: prete e uomo di libertà verso tutti i lavoratori”.
È il riconoscimento popolare ad una testimonianza che è rimasta nel cuore di molti.

Carlo Carlevaris


 

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