Seminario sulle beatitudini / Verona 1988
prima relazione


 


1. PREMESSA

Scrivere un testo su questo tema, avendo sentito le domande di quella sera e avendo avuto echi controversi sulla comprensione di quanto allora detto, da una parte è un’allegria, perché impone il ritrovare una trasparenza di percorso che prolunga e spero chiarifichi la riflessione; dall’altra parte è una preoccupazione, perché avevo pensato a quell’incontro come all’inizio di un dialogo, e non come ad una conferenza e vorrei che il testo che qui viene proposto mantenesse l’intenzione originale, non importa quale sarà la forma che il dialogo possa prendere.
Mi sembrerebbe bello se il dialogo non fosse fittizio, perché le cose allora pensate e qui riformulate sono frammenti di un’ipotesi di ricerca che ha senso solo se ha più voci: dove ognuno mette la memoria che ha delle beatitudini, e del Nord e del Sud del mondo, come immaginazione e come sperimentazione concreta, per non illuderci o ingannarci.
La mia memoria delle beatitudini è molto semplice: me le sono sempre portate con me, senza molto studiarle, come una di quelle intuizioni che afferrano dentro e convincono, o quelle poesie che rivelano d’un colpo un mondo del quale non si chiedono più spiegazioni perché non ce n’è bisogno, o quelle preghiere che rimangono piene di significato anche quando non si sa più se c’è qualcuno cui rivolgersi, o quegli amici incontrati che sono fondamentali perché si sa che esistono e ci hanno un giorno, non si sa come, legati a loro forse perché, non si sa in che cosa, ci hanno trasformati.
La memoria del Sud-Nord è un’esperienza quotidiana, crescente, che tende a divenire il sottofondo obbligatorio o il minimo comune denominatore dei giudizi e delle decisioni che prendo: è fatta di viaggi e di molte persone, di progetti riusciti, falliti, in corso. E’ il mio mestiere a tempo pieno, nel quale non mi è più facile distinguere accuratamente Nord e Sud.
Posso immaginare che le due memorie comunichino tra di loro: non mi sono mai domandato come. E forse è difficile provare a verificare i modi e l’estensione di questa comunicazione, perché è come provare a dipanare il tessuto di cui si è fatti.
Può darsi perciò che alcuni passaggi possano sembrare forzati, o artificiali, o affrettati, o tali da richiedere più intuizione per simpatia (o antipatia?) che comprensione logica.
La memoria complessiva è quella di uno che ha la coscienza molto lucida di vivere la parte fortunata e tranquilla della storia, da una posizione di lavoro che garantisce un’autonomia non comune. Anche di questo è importante tener conto, per riconoscersi nel percorso che cerco di tracciare, o per dichiararlo irrilevante, e per decidere se ha senso o meno continuare il dialogo.
 

2. PROPOSTE DI DEFINIZIONI


Beatitudini

Mi sembra che, da sempre, ci siano sostanzialmente tre modi di leggere e soprattutto ricordare o adottare le beatitudini:
a. Come codice di comportamento delle cose da fare per essere degni del Regno; o una carta geografica che identifica le aree calde dove confrontarsi con le esigenze poste dall’urgenza di far comparire visibilmente le tracce del Regno al di là del confondimento della storia. I poveri, le ingiustizie, le guerre di tutti i tipi, ecc.: sono altrettanti indicatori di una missione a cui gli ascoltatori delle beatitudini, i discepoli, sono invitati per essere riconosciuti un giorno nel Regno.
b. Come codice di comportamento interno, personale, una guida alla verifica della direzione e del senso che si dà alla propria vita, alle intenzioni, se non è possibile alla pratica. Essere poveri nello spirito, innamorati della pace, gelosi della giustizia, capaci di dolcezza, coscienti di essere esposti alle persecuzioni e solidali con quelli che le soffrono; ecc. La ricompensa, o la verifica di essere stati fedeli nello spirito alle beatitudini sarà il possesso del Regno.
c. Come dichiarazione complessiva – una benedizione, una rivelazione o una invocazione, un patto di intelligenza e una liberazione di sguardo – che la storia è opaca, e può essere fuorviante nel suo pretendere che i ricchi sono più fortunati dei poveri, che la persecuzione è una sconfitta, che la mitezza è irrisa, ecc.: perché nascosto nella storia c’è il Regno, che non è né ricompensa né riconoscimento di ciò che si è fatto, o pensato, ma è un’irruzione di senso.
Gli ascoltatori-discepoli delle beatitudini ne sono responsabili perché a loro è stata affidata questa memoria, che è un regalo gratuito, un compagno di strada venuto da non si sa dove (da una “montagna” che può essere pensata come un luogo senza tempo e che forse assomiglia alle colline dolci di una Palestina-Terra Promessa, o che può entrare nella vita come il gridare contro il vento e attraversando colline di roccia rappresentato dal Vangelo secondo Matteo – Pasolini).
Questa memoria non ha solo la gratuità dell’origine: ne ha una molto più esigente, o dura da accettare, ed è quella della verifica finale: non si saprà mai se la rivelazione delle beatitudini sarà vera, né per i custodi-discepoli della memoria, né per coloro ai quali la comunicano, per farli discepoli o per riconoscersi come compagni di una stessa strada. L’irruzione di senso del Regno appartiene ad una storia di cui sono ignote le leggi: di cui è noto solo ciò che si dice nel racconto scarno delle beatitudini.

Nord-Sud

Il termine (che deve essere preso nel suo insieme, N-S) è di questi anni. Ha vari equivalenti: Centro-Periferia, Sviluppo-Sottosviluppo, ecc. Può avere diverse connotazioni: economiche, sociologiche, politiche, culturali; e avere, a seconda dell’anbito in cui viene discusso, accenti e descrittori diversi.
Delle due componenti del termine N-S, è la prima che è più facile da definire: luogo, metodo, tempo, dell’amministrazione – pianificazione del potere, delle ipotesi – politiche dello sviluppo lineare (non importa quanto appiattito sull’economia e sulla tecnologia), della speranza di vita in aumento e del PNL (Prodotto Nazionale Lordo) che corrisponde, con gradazioni gerarchicamente ben definite ma tutte tra di loro compatibili, al reddito pro capite; area geografica, sindacale, politica dove il potere è talmente tranquillo di sé da accettare la co-gestione come compartecipazione oculata dei profitti (il recente contratto FIAT è un’immagine molto fedele, la carta di identità che l’Italia è decisamente un membro del Nord). Per il Nord, il Nord è la verità del N-S. Il Nord esiste. Il Sud? Di lui si può dire solo che è tutto ciò che è simmetrico – opposto al Nord.
Nel Nord il morire è un accidente, o la fine più o meno naturale del vivere. Nel Sud è il vivere che può essere accidentale, combinazione di fortuna o ostinazione. Per il Nord, il Sud acquista senso proporzionalmente alla sua accettazione di trasformarsi in mercato: economico, sociale, finanziario, di valori. Dove sono il Nord e il Sud? Il N-S è una storia solo di oggi? O è una costante della storia? C’è sempre stato, sempre ci sarà? È un nome della “evoluzione”? Come dalla scimmia (o prima) all’uomo, dal Sud al Nord: con ritardi, contraddizioni, sbagli, deviazioni, un po’ come per tanto tempo sono (stati) i Neri, gli Indios, ma con una complessiva tendenza lineare, nella quale qualcuno è sempre “più avanti”? Le risposte a queste domande, si sa, possono essere e sono diverse.
 

3. BEATITUDINI E N-S

Chi sa se ha senso provare a fare incontrare le due definizioni. Probabilmente ognuno ha già dato la risposta ai problemi che questo incontro fa nascere, in rapporto alla definizione dei termini che si incrociano.
Beatitudini come etica del fare, o come spiritualità, o come gratuità; N-S come sfida di teorie economiche, o come evoluzione darwiniana, o come un problema di giustizia distributiva. Il perché o il come uno arriva a dare l’una o l’altra risposta ad un incrocio tra termini eterogenei, sfuggono verosimilmente a spiegazioni pienamente soddisfacenti.
Si può solo raccontarsi l’un l’altro i cammini fatti, o che almeno si crede di riconoscere in un certo momento nella propria vita. Questa è perciò solo la cronaca del mio modo di camminare oggi. Avendo già detto altrove, ed essendo sempre più cosciente, di non essere uno che cammina avendo un piano, o delle forti convinzioni teoriche, ma uno infinitamente dipendente dagli incontri fatti, un po’ per tutte le strade, la cronaca assomiglia a degli appunti, come di diario, che hanno come unica continuità quella di essere tutti domande per le quali non ho risposte, ma solo echi e desideri.
E dal momento che delle tante domande che mi accompagnano lavorando nel N-S ho avuto tante volte occasione di parlare, immaginando anche ipotesi di risposta, qui racconto alcune di quelle che mi sono ritornate dentro quando mi avete chiesto di risedermi, per ritornare ad essere uno qualsiasi dei discepoli – ascoltatori delle beatitudini.
 

4. LE DOMANDE


4.1. Per quando e per dove sono le beatitudini?

La proposta di risposta che mi è sembrata più vicina è quella che ho incontrato in una frase che correva nella rivoluzione francese: non importa chi la dicesse, io l’ho riconosciuta, non come affermazione ma come invito provocatorio e allegro, in una rappresentazione del Théatre du Soleil, inizio anni ‘70.
Pienone buio del Palalido di Milano, senza palcoscenico visibile; l’assenza di attori, di suoni, di segni di vita faceva crescere la curiosità e le domande sul che cosa sarebbe successo. Mescolato alla gente, un ritornello sussurrato da ignoti (forse gli attori?) e che non si sapeva ben identificare, diveniva poi percepibile, ripetibile, linguaggio comune e quindi gioia, recita collettiva, come un riconoscimento: “la rivoluzione sarà vera e completa solo quando sarà perfetta la felicità”.
Il cuore e il segreto della domanda delle beatitudini sono il loro ritornello:
beati, beati… Uno dopo l’altro, ma come un’unica filastrocca. La censura o la dimenticanza di uno qualsiasi dei termini ne rompe la logica e ancor più ne rende impossibile l’esistenza. La loro considerazione complessiva ne rende trasparente e ovvia la comprensione.
La beatitudine è indivisibile, non accetta frammentazioni.
Dalla povertà rimanda alla pace alla giustizia alla mitezza… Il dove e il quando di questa parola d’ordine seminata nella storia? È importante anzitutto che, come nel Palalido, il “sospetto delle beatitudini” sia fatto sentire a tutti, per rivelare discepoli possibili, non dell’una o dell’altra, ma della necessità che tutte possano essere offerte a tutti. Essere discepoli del sospetto delle beatitudini equivale a porsi nella storia, personale e collettiva, come coloro che la immaginano, permanentemente, come il luogo non dell’osservazione o della gestione ma della trasformazione.
Le beatitudini non appartengono a coloro che non vogliono, o si sono stancati di immaginare la storia come una creazione. Attori che nel teatro, tutte le sere, riprovano a mescolarsi alla gente, per rilanciare il grande sospetto, e riverificare se esso viene riconosciuto come un invito e un’allegria, e non come una battuta da teatro, politico o ecclesiale, ideologico o di partito.

4.2. Qual è l’efficienza delle beatitudini?

Il N-S è dominato dalle sfide dell’efficienza, misurata sulle esigenze del Nord, in tutti i campi. I nomi dell’efficienza sono tanti: compatibilità economica, libero scambio, servizio del debito, democrazia formale, produttività, ecc. L’efficienza misura il suo successo, cioè se stessa, con indicatori quantitativi ed economici: dichiarando che il resto sarà dato in sovrappiù.
Prodotto tipico del modello lineare ed irreversibile del progresso, dichiara che le deviazioni sono da punire, nei modi più appropriati, con le guerre più opportune: economiche, culturali, ideologiche. Di aggressione o di invasione silenziosa; di cattura per fame, o per democrazia protetta; per contratti nazionali o convenzioni internazionali. Molto più semplicemente, e in modo crescente negli ultimi tempi, dichiarando che i devianti “non hanno senso”, sono “obsoleti”, non hanno “più corso”. Si cammina tutti gloriosamente verso un 1992 della “maturità” europea.
Bisogna presentarsi vestiti bene, e senza far chiasso maleducato. Chi non ci sta, “gli altri”, possono andare incontro a tagli, salutari per altro, viene assicurato.
L’efficienza del 1992 come celebrazione della “scoperta” del 1492, che in modo infinitamente efficace dichiarò “senza senso”, “obsoleta” e perciò tagliò radicalmente la inefficiente, non lineare, “altra” parte del mondo, che divenne così, salutarmente, parte del Regno della salvezza efficiente, del battesimo e della civiltà.
L’efficienza delle beatitudini è dell’ordine della bellezza, e del senso. Il mestiere dei discepoli è la ripetizione, sera per sera, nel teatro della storia, del loro sospetto, ritornello per ritornello: che la beatitudine è indivisibile, e non può essere tale se ci sono “altri” di cui negare e controllare l’esistenza perché il modello lineare pre-determinato trionfi sui molesti rumori di fondo. La loro efficienza e la loro gelosia di questa memoria, perché possa continuare a resistere, un po’ dovunque, sparsa nella storia, così da poter emergere, riconoscibile al di là dei tempi e e dei volti: si chiami “intifada” palestinese, che mette in scacco la normalizzazione del silenzio e della rassegnazione soddisfatta degli Stati; o Mandela; o teologia della liberazione: o uno qualsiasi dei tanti nomi che traducono l’una o l’altra delle beatitudini, così che non si cancelli la nostalgia della loro indivisibilità.
Mestiere gratuito, non linearmente efficiente, perché nasce da un “non so dove” e cammina verso “non so dove”: ha dalla sua la verifica sperimentale della storia, che non sembra stancarsi di generare, insieme ai terrori e alle conquiste, i sogni di bellezza e di senso. Mestiere di ascolto e di eco: perché le singole beatitudini si possano riconoscere e darsi il cambio. L’efficienza della bellezza é minacciata solo dalla soddisfazione di chi ne possiede un frammento e lo dichiara totale, e dalla accettazione di questa parzialità da chi è ammesso a co-gestirla.
Perché se manca il riconoscimento e l’eco, la bellezza nuova che emerge (ricordate “vita e morte Severina”?) può essere efficientemente nascosta, fino a farne perdere le tracce. Mestiere indivisibile, nel N-S, e nel tempo: perché la bellezza staccata dalla memoria, diventa moda, possesso di qualcuno, mercato, segno di divisione e di superiorità. Gli strumenti di questo mestiere possono essere tanti: il sostegno economico, la solidarietà, le idee, la cooperazione: prendono tutti il loro senso da questo sedersi e riascoltare: per sapere se si è ancora discepoli del sospetto disponibili alla suggestione del vecchio ritornello, o funzionari – missionari più o meno efficienti di quel battesimo economico e culturale che è diventato d’obbligo in un mondo che vede tutti interdipendenti.

4.3. Può la contemplazione essere un metodo scientifico?

Due testi per incominciare…
Ho presenti due testi principali per rispondere a questa domanda: il primo è la “storia del popolo di Dio” rimandato all’esodo ogni volta che dimenticava il segreto della sua origine da una promessa, per giustificarlo come un diritto da affermare in nome di Dio; il secondo è la “Memoria del fuoco” di E. Galeano, che racconta “la merda e la meraviglia” dell’esodo che continua dei popoli delle Americhe, “attaccati con le unghie al vento” del nostro secolo.
Il Libro è talmente parte della memoria di tutti come rivelazione da non sembrare neppure più la traccia precaria e contraddittoria di un Dio in una storia che potrebbe essere oggetto di un qualsiasi telegiornale dalle stesse terre; e il secondo testo è un libro di letteratura.
Raccontano però entrambi una stessa storia. Quella di un sogno di “bellezza da ri-incontrare”: viene talmente dal fondo e da lontano da essere attribuito a Dio, ma fatica enormemente a farsi riconoscere come il senso evidente delle cose e degli uomini. La ragione unica è che sono tanti quelli che, in tanti modi, periodicamente, dichiarano che è finito il tempo adolescenziale degli esodi e dei sogni, ed è arrivato quello delle dottrine, sacerdotali o di sicurezza nazionale, dei templi in cui si adora o in cui si scambiano valute forti, delle rivoluzioni industriali o della società capitalistica matura o post-industriale, che ha scoperto la formula del benessere messo a disposizione della democrazia.
Qual è il metodo più appropriato, scientifico appunto, serio, coerente per risolvere il problema di questa storia frustrata negli obbiettivi per i quali sembrava essere programmata? Un tempo nella storia del popolo di Dio (era il Nord o il Sud del mondo?) il “vuoto” che abitava nel Santo dei santi (cfr. Levitico) era la memoria che l’esodo non era finito: che l’esistere sulla terra promessa doveva ogni volta riprendere senso a partire dal riconoscimento che la terra non poteva mai essere un possesso; anzi le regole del potere emerse nella società dovevano essere riconsegnate, ogni giubileo, perché il popolo può esistere, come soggetto complessivo di promessa, solo se non ha padroni.
Nel tempo efficiente della società post-moderna questo “vuoto” che giudica non è più tollerabile, neppure come simbolo o idea. Al massimo può essere una dichiarazione di disponibilità: una raccomandazione spirituale, una lavanda dei piedi al giovedì santo, con 10.000 lire ai poveracci di un quartiere romano, un giuramento sul “Libro” nel prendere il potere costituzionale negli Stati Uniti, un giubileo ben piazzato nella società multimediale e di turismo di massa.
Chi oserebbe chiedere come oggettivo dovere di rispetto scientifico delle priorità della storia un “giubileo” del debito al Fondo Monetario Internazionale (FMI)?
I discepoli delle beatitudini che hanno profonda dentro di sé l’esigenza e la bellezza di “quel” vuoto, sono sfidati a riannunciare continuamente l’esistenza e la dialettica totale al popolo che sta dentro e fuori la terra promessa: con la testarda lucidità di chi sa che è a partire da là che le cose riprendono senso. Il popolo con cui si confrontano le chiavi di lettura del senso della storia, non solo nella teoria, ma nella “routine” dei conflitti abita ora il villaggio mondo, e non la circoscritta società della rivoluzione industriale, o le fabbriche del Nord che si ristrutturano e sopravvivono alla crisi grazie alle loro filiali o consociate sfruttate del Sud. Il popolo che attende di essere ridonato alla sua identità di esodo ha preso tanti nomi: occorre prendere le distanze, del vuoto o del sogno raccontato da Galeano all’inizio della bibbia delle Americhe, per riconoscere che i nomi sono simili, e indicano tutti la stessa gente per la quale il sogno è stato seminato nella memoria dell’uomo: anawim, schiavi, proletariato, classe operaia, indios, emarginati urbani, campesinos e camponeses.
Solo se si è ri-capaci di contemplazione, di tollerare (ripetendo il ritornello del sospetto) l’attualità del “vuoto”, si ritorna capaci di uno sguardo scientifico sulla storia: sia quello di Marx, o di Bartolomeo de las Casas, o dei movimenti di liberazione o di coscienza, è scientifico quello sguardo che rivela, contesto per contesto, la realtà e l’intollerabilità del fatto che uomini si dichiarino custodi e padroni del valore e del futuro di altri uomini.

…una parentesi non marginale
E’ interessante in questo contesto la moda che oggi nel Nord, soddisfatto e conquistatore, dichiara progressivamente non-scientifico Marx, togliendolo dalla “sua” storia, per farne una dottrina da condannare a posteriori, dopo averne riassorbito i valori di liberazione.
Procedimento perfettamente non scientifico, che identifica errori, distorsioni, parzialità infinitamente ovvie, per dichiarare irrilevante e non affidabile uno sguardo che, avendo svolto scientificamente il suo mestiere di constatare l’intollerabilità dello sfruttamento, aveva avuto la pretesa di divenire metodo, per documentare come l’uso dell’uomo da parte dell’uomo non è un accidente o un eccesso o una patologia o la violazione di una morale, ma è un minimo comune denominatore che si traveste di leggi economiche o di regole di progresso; con l’ulteriore pretesa di pensare, mentre cresceva il positivismo, che una cosa così poco “positiva” come l’utopia della liberazione doveva essere parte integrante dell’analisi scientifica.
Metodo scientifico per una storia: perciò, per definizione, storicamente datato. Sguardo e metodo che rimangono scientifici solo nella testa e nella prassi creative di uomini viventi in altre storie per chiamare per nome i nuovi – o travestiti ed equivalenti – protagonisti dello scontro. Non è qui il luogo o l’occasione, né c’è l’interesse da parte mia, di discutere della “verità” del marxismo, che come metodo scientifico deve avere solo la verità che deriva dalla sua verifica sperimentale, che per le scienze storiche è la relatività della storia a cui si applica.
Quello che mi sembra importante, nell’incrocio del sospetto delle beatitudini con l’attuale situazione N-S, è prendere distanza da tutte le operazioni che cercano di dichiarare eretici, fuori corso, obsoleti coloro che, avendo un sogno di liberazione non accettano la “intollerabilità” di una storia nella quale ciò che conta è la “compatibilità con la classe economicamente dominante in quel momento”. L’operazione a posteriori sui marxismo è l’invito alla diffidenza sulla trasformazione: a tollerare la violenza strutturale, levigata, irreversibile delle istituzioni e a cancellare o a giudicare un costo necessario tutti i popoli-uomini, più o meno numerosi, per milioni, che cadono fuori dalla ipotesi di sviluppo tracciata linearmente dai modelli vincenti.
A questi modelli (dell’economia classica, del FMI, degli accordi verbali tra le 7 potenze, delle trattative del debito differenziato per Paesi buoni e cattivi) si chiede non di cambiare, ma di avere, per favore o per elemosina o per decenza, almeno “un volto umano” (vedi documenti preparatori del FMI e della Banca Mondiale all’assemblea annuale del 1988 – Berlino; vedi d’altra parte il lavoro sulle necessità di un nuovo realismo dialettico di Cornia, Jolly, Stewart, economisti dell’UNICEF, non certo tacciabili di marxismo; vedi i lavori del Tribunale Permanente dei Popoli sul debito ed il diritto internazionale).
Se mi è permesso citare un ultimo testo in questo paragrafo, vorrei che si leggesse la “Introduzione al Socialismo” di Lelio Basso per ritrovare la documentazione articolata della continuità possibile e necessaria tra la contemplazione della liberazione e la sua scientificità, nel N-S, senza separazioni: soprattutto oggi, quando l’intuizione di un riconoscimento necessario e reciproco di tutti i “poveri” in tutto il mondo è più possibile, e (forse proprio per questo) più accuratamente scoraggiata e irrisa da chi parla (con la goffaggine dei “nuovi arrivati”) in termini planetari.

…per continuare e concludere il paragrafo
Tutto il mondo è il teatro dove il sospetto delle beatitudini deve essere ri-annunciato, sera per sera, con strumenti scientifici appropriati, perché la memoria non si perda ed il vecchio sogno non venga dichiarato bene culturale, da rivisitare, proteggere, in vista di una migliore, possibilmente duratura, archiviazione.
La teologia della liberazione è stata la documentazione, a partire dalla sperimentazione della vita, dell’efficienza della Parola nel creare comunità capaci insieme di contemplazione – scientificità.
Nata nel Sud del mondo come parola di liberazione sussurrata giorno per giorno fino a divenire lingua e coscienza, la teologia della liberazione ha avuto un grande successo di esportazione nel Nord che è coinciso con il suo progressivo travestimento in dottrina e spiritualità. Quasi che il Nord non sia più capace di tollerare una parola che vive solo in simbiosi con la trasformazione storica, O la parola delle beatitudini è valida solo per i disgraziati – dannati della terra con i quali essere spiritualmente solidali? A quando una teologia – sperimentazione del Nord? O non ce n’è bisogno? Se è così, ha senso, è possibile ancora chiamarsi discepoli delle beatitudini? O non si è capaci, noi efficienti scienziati della analisi – gestione, di quel supplemento di scientificità – fantasia che ci permette di non essere, anche in questo campo, scopritori, chiosatori, consumatori della speranza – disperazione del Sud?

4.4. E se le beatitudini fossero una richiesta di ateismo?

Mi sembra sia un esperto di spiritualità, Michel de Certeau (chi sa se si scrive così: ho incontrato un suo libro un giorno, viaggiando nel Sud del mondo: “Extase blanche Faiblesse de croire”) a descriverci (noi del Nord della fede, che ci siamo trovati a vivere nel tempo in cui le beatitudini possono essere semplicemente recitate in chiesa, come estetica della fede, o celebrazione di tutti i santi), come riluttanti a riconoscere che il tempio di dottrina, di fede, di valori di cui eravamo fatti (non solo che avevamo costruito) è diventato una cava di pietre. Già belle squadrate, pronte da portar via, per essere usate non importa dove, da non importa chi. Si può mettersi nella posizione di chi puntigliosamente ricorda a tutti che le loro case sono belle perché fatte anche delle nostre pietre, ornate dei nostri fregi, reclamandone il riconoscimento, se non la restituzione. Come si fa tra direttori di musei concorrenti, quando si trafugano capolavori, per arrivare a mettere almeno l’etichetta di provenienza. Per avere la libertà di riconoscere e lasciarsi scoprire dall’infinita varietà ed incertezza delle speranze che nascono nel mondo, è forse utile dimenticare per un po’ il tempo in cui le pietre erano tempio. Le beatitudini devono correre nel mondo tradotte in tutte le lingue possibili: come una creazione nuova.
Noi del Nord, che ne abbiamo conosciuto le corruzioni possibili, possiamo, forse, essere solo la memoria della necessità della loro invisibilità: una dopo l’altra, contemplazione e scientificità. Non sono state difese dall’aver avuto come etichetta quella di Dio. Come non sono state esaltate quando sono state utilizzate per mobilitare solo la giustizia, o per legalizzare gli specialisti delegati da Dio per i poveri o i perseguitati. Per essere contemplativi-scienziati della provocazione di trasformazione che abita nelle beatitudini, forse occorre essere capaci di ritornare ad essere coloro che non nominano Dio, che non fanno le cose perché c’è Dio, ecc.: ma perché hanno dentro il sospetto grande, così strano, così gratuito, ma così chiaro, da non poterne fare a meno, che su quella montagna, per un momento, si è udito l’eco di un futuro talmente incredibile, da non saperne il nome: non si vorrebbe nominarlo, per non rischiare di scambiarlo per qualcos’altro.
Là si chiamava il Regno: ma era chiaro che era solo per dare un’idea della sua bellezza. Chi sa che cos’è: e poi c’era quell’ulteriore diffido a cercare di definirlo: dei cieli. Le beatitudini come ateismo sono l’opposto della laicizzazione, come disincanto, piedi per terra, storicità a tutti i costi, definizione di orizzonti. La laicità rispetto alla storia permette e invita alle fughe nella spiritualità personale; o le distinzioni accurate dei valori, il sussiego di essere indipendenti da ideologie globali. L’ateismo dei discepoli delle beatitudini è l’allegria di chi si sa abitato, e racconta le sue speranze, senza preoccuparsi di distinguere tra scientificità e contemplazione: anzi.

4.5. Può il Regno essere un progetto di ricerca?

Non c’è dubbio che il titolo di quest’ultimo paragrafo è un tributo al mio vizio-mestiere di ricercatore in un settore sperimentale delle scienze della vita. E avendo già parlato altre volte di questo compito possibile e necessario dei pretioperai di essere comunità – minoranza di ricerca, non ci insisto. Dico solo che è una cosa da prendere molto sul serio. La bellezza non comparirà nella storia (per dare la nostalgia del Regno ed essere il segno di riconoscimento dei “poveri” e non lo strumento di potere dei “saziati”), se non c’è la coscienza molto sobria, ma forte e collettiva che il compito di essere discepoli delle beatitudini impone una pratica difficile di studio e di sperimentazione per continuare a trovare spiragli di trasformazione in una realtà che gioca sulla omogeneizzazione e sulla irreversibilità di quanto c’è per giustificarsi.
Fabbriche, USL, partiti, sindacati: i luoghi della pratica della trasformazione sono progressivamente impermeabili a trasformazioni visibili. Convincono della inutilità.
Suggeriscono l’impossibilità di ritrovare minimi comuni denominatori. Stancano. Rimandano ad evasioni personali o di contemplazione-spiritualità. O alla cooperazione al Sud, dove sembra di vedere la speranza che cambia la morte e il silenzio in vita e parola dissociandosi dal Nord.
Il quotidianizzarsi della ricerca di spiragli – cammini è il compito specifico del Nord. E’ la resistenza creativa che viene chiesta per non avallare il consolidamento di modelli di appiattimento, stanchezza, rinuncia, pronti poi per essere esportati come veri, aggiornati, moderni. Ricerca poco visibile come risultati: a volte, o spesso. Esige una rilettura delle regole del lavoro di gruppo: per rimettersi in studio (e comunione). Come quando si apprendeva a “fare” gli operai. Allora però tutto era (o sembrava) più chiaro. Era la condivisione, la lotta, la testimonianza. Tempi alti. Le beatitudini avevano il sapore della proclamazione, dell’identità che cresceva, anche se faticosa.
La regola che sembra oggi prevalere è quella della ragionevolezza, o della minoranza come emarginazione perdente, o come preservazione puntigliosa di spazi. Il progetto di ricerca dei pretioperai come “fermento della massa” affronta la stessa minaccia che ogni movimento di liberazione affronta quando “si prosciuga l’acqua, perché i pesci non possano più nuotare e moltiplicarsi”.
Le beatitudini, sussurrate a preti senza più l’acqua della Chiesa, e ad operai senza più quella delle masse, e ad uomini senza più quella dell’identità riconosciuta, assomigliano sempre più ad un ritornello (tanto simile al camminare contemplativo del “Pellegrino Russo” ripetendo il Nome), che ricorda che sarebbe ben buffo se il Regno dovesse soggiacere al potere delle leggi della controguerriglia che sottrae acqua ai pesci: per chi non si rassegna, pur avendo gli occhi aperti, il mare rimane grande: scoprire, esplorare, soprattutto lasciarsi portare, un po’ per essere cullati e un po’ per essere scossi, secondo la stanchezza o la rabbia o la delusione che si porta.
Nord? Sud? N-S?
 

5. IPOTESI PER CONTINUARE UN DIALOGO

5.1. Non dovrebbe essere difficile riconoscere che sono un sostenitore istintivo della terza delle definizioni delle beatitudini formulate all’inizio: mi sembra proprio che le altre ne sono la conseguenza, e certo tra le due preferirei la prima, anche perché non conosco nessuna lettura di Mt 6 più fedele, contemplativa e scientifica, spirituale e politica, di fede e di simpatia umana, di quella che si trova in Mt25.
5.2. Testardo nel mio suggerire di riconoscere un po’ ovunque compagni di strada, vorrei consigliare a tutti di leggere il testo di Hrabal (pubblicato su Il Manifesto del 23Agosto 1988 in occasione del XX anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia) sull’impossibilità di chiedere visti di uscita dalla storia della gente per chi si trova ad essere portatore e custode dei sogni di bellezza e delle parole segrete della gente stessa: e sulla stupefacente e triste stupidità di coloro che pensano di vincere perché applaudono i vincitori.
5.3. C’è un dotto ma molto semplice libro di F. Rigaux che commenta la Dichiarazione di Algeri, e racconta il Tribunale dei Popoli come progetto di ricerca che anticipa la storia degli Stati, che può essere metodologicamente utile per ritrovare il senso e la pazienza del tempo, quando si deve considerare l’efficienza dei sogni che pretendono diventare storia (Edizioni della Pace, Firenze, 1988). E ce n’è uno in arrivo per la fine del 1988 (pubblicato dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso), sulle prospettive di liberazione alla fine del XX secolo, che è stato pensato come un’eco dei percorsi (teorici, religiosi, sociologici, ecc.) che si stanno sperimentando nel mondo, all’ascolto di quel ritornello venuto dalla montagna e sussurrato nel teatro.
5.4. Sono abbastanza sperimentale nel mio mestiere per non aver pensato nessuna delle cose dette fuori dalla concretezza di una loro possibile applicazione. Cerco di verificarla, e mi piacerebbe farlo anche con voi: nel Nord e nel Sud, come amici che studiano molto e sperimentano, per poter sostenere le sfide, di paura, di delusione e di allegria, che si incontrano su questa strada.
5.5. Una donna, molto bella, molto giovane e infinitamente silenziosa, che non conosceva le beatitudini, che aveva fatto invadere, con timore, il Nord della sua casa di ricercatrice affermata dal Sud di bambini boliviani, per lasciarsene trasformare, aveva un giorno parlato delle radici di tutto questo (tanto tempo prima di innamorarsi del Sud e di morire, Pasqua 1988, con la stessa bellezza, la stessa gioventù, lo stesso silenzio), scrivendo, su un’agendina usata per ricordare le cose che si devono comprare, due appunti che forse riassumono (poesia – ritornello – spiritualità – istinto, a partire da un innamoramento-tu che per ognuno ha volti diversi) questa lunga chiacchierata. “E se amare vuol dire – più cercare di rendere felici – più che esserlo – e cercare di ascoltare – più che imporsi – allora credo di averlo davvero capito – e di desiderare queste cose – più di ogni altra cosa al mondo – perché me l’hai insegnato tu – pur nel silenzio delle parole”.
5.6. Può darsi, evidentemente, che l’ipotesi di lettura, non soltanto quella di queste pagine, ma quella che ci si è dati prendendo sul serio le beatitudini, sia sbagliata. Ma come si fa a saperlo? E fin quando dura il sogno?

Gianni Tognoni


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