Sguardi e voci dalla stiva (4)


In questi anni non facciamo altro che parlare di crisi che genera un sacco di paure: paura per il domani, paura di perdere il posto di lavoro o di non trovarlo, paura per la salute., paura degli attentati, paura di uscire di casa ( Turoldo direbbe che uscire di casa è come andare alla guerra). Tutto ciò genera sfiducia, solitudine, chiusura.

Questa situazione che ha molte cause, soprattutto strutturali come influisce sulla vita delle persone? Quali ricadute? Com’è cambiata la vita, le relazioni, i rapporti?

E’ stato un processo lungo durato cinquant’anni che ha avuto il suo picco alto verso la fine del secolo scorso. E qui ci va di mezzo l’economia, le risorse , il petrolio, l’accumulazione della ricchezza in mano a pochi. L’1 per cento della popolazione mondiale possiede il 46 per cento: è quasi la metà. Il 10 per cento possiede l’86 per cento delle risorse disponibili. il 50 per cento della popolazione mondiale non possiede nulla. Possiamo dire che abbiamo una oligarchia del 10 per cento . L’altro 40 per cento è la classe media che appartiene al cosiddetto mondo occidentale. Tra questo ci sono molte crepe con milioni di precari e senza un futuro certo.

Vorrei partire da quel che vedo ogni giorno, sia in casa sia quando scendo in città. Guardare, ascoltare, essere attenti, sono verbi dimenticati che vanno coniugati soprattutto in questi anni, pieni di corse, velocità.

Da un anno hanno aperto un supermercato, ci vado qualche volta. Lì lavorano due ragazzi che sono sempre in movimento, girando da uno scaffale all’altro con una certa velocità da far paura. Quando gli chiedo qualche informazione ti indicano la corsia, e se ti accompagnano immediatamente scappano senza guardarti alla corsia dove stavano sistemando i prodotti. Un giorno ne incontro uno dei due mentre stavo entrando e lui stava uscendo correndo per andare a prendere qualcosa.” Che stai facendo?” “Vado in fretta perché se ritardo mi cacciano via”. “Ma fate sempre così a lavorare?” Certo, perché qui bisogna correre altrimenti ne va di mezzo il posto di lavoro.

Lo stesso atteggiamento lo noto anche in altri supermercati. Alla Esselunga i commessi corrono come burattini tra una corsia e l’altra a mettere e sostituire i prodotti. Tutti intenti a sistemare senza guardare oltre, come se fossero controllati a vista. Lì ci sono molte casse dove sono sedute soprattutto donne: non se ne vede una che sorrida, lo si capisce dai loro occhi e dal volto.. Prendo l’occasione di fare qualche battuta e gli domando se si trova bene o se la pagano bene. La risposta consiste nello storcere il naso senza parlare, forse per paura di farsi notare da qualche capo. Non hanno alternative e devono accettare quel tipo di lavoro, perché se se ne vanno, là fuori c’è una fila ad aspettare. Prima di andar via gli auguro buona giornata, aggiungendo “se così si può dire“. Anche la gente che compra è triste, presa dalla fretta e lì ognuno è solo, nonostante sia circondato da decine di persone. Diverso l’atteggiamento nei negozi più piccoli, c’è ancora un po’ di umanità. Si possono scambiare delle battute sia alla cassa, sia mentre si guardano gli scaffali.

Da parte mia cerco di salutare il più possibile soprattutto quando si è in fila alla cassa o nel momento in cui i carrelli della spesa si incontrano nelle corsie.

Storie di schiavismo nel nostro mondo incolpando la crisi mondiale, lo stato attuale delle cose, le richieste di mercato, magari dichiarando “oggi va in questo modo, in fondo siete già fortunati”.

Questo succede nei supermercati piccoli, in quelli grandi come Amazon è peggio:

Nell’ultima fase da magazziniere precario prendevo quasi millecinquecento euro al mese, in teoria per otto ore al giorno e cinque giorni la settimana. Però poi c’erano gli straordinari, che avevano un conteggio assurdo, te ne fregavi e basta, se controllavi uscivi pazzo, e c’erano le chiamate dei manager. Avevo un badge verde, come il resto dei precari, e guai se non lo tenevi in vista; serviva a dividere i lavoratori, mettendoli in competizione tra loro e creando ranghi distinti. Ranghi di poveracci tanto quanto me. Il distintivo è diventato blu quando sono passato a tempo indeterminato, però lo stipendio è rimasto uguale e sono aumentate le pretese, perché hanno paura che tu ti sieda, ti rammollisca, visto che ormai hai raggiunto una certa stabilità. E puoi capire che stabilità. Per esempio stavi male ? a me è successo una volta per le placche in gola. ho firmato un modulo a metà pomeriggio e le ore mi sono state decurtate, quindi non pagate. Ma lo sapevo Come sapevo che se chiedevi il permesso di andare al bagno più di due volte al giorno eri bollato come un fannullone. e magari stranamente ti ritrovavi con qualche euro in meno in tasca.. Non si poteva e non si può star male. Per quello là dentro eravamo quasi solo giovani, soprattutto tra i magazzinieri. Anzi , io ero tra i più anziani. D’altronde ti facevi 18 chilometri di corsa al giorno se ti andava bene, e a Natale raddoppiavano e triplicavano, con pause parecchio distanziate di mezz’ora scarsa, la pistola scanner che guidava, cronometrava e seguiva ogni tuo movimento incitandoti dal display, a cadenza di dieci secondi al massimo. Se commettevi cinque errori di qualsiasi tipo venivi richiamato, e dopo due richiami ufficiali eri fuori o sanzionato economicamente. A questi ritmi un quarantenne o un cinquantenne sarebbero scoppiati subito. Eppure ce n’erano. Pochi, ma ce n’erano. E certi manager con loro usavano frasi del genere “Muovi il sedere o sbatto te e la tua famiglia sulla tangenziale” o “domani ti sostituisco con un cinese” … Non riesco a togliermi di testa i manager che ridevano di tutto. Quello no. Ridevano anche degli iscritti al sindacato (ce n’erano, pochissimi ma ce n’erano, ma “quelle organizzazioni qui non entreranno mai”, lo ripetevano di continuo, come se i sindacati fossero stati un retaggio preistorico contro la modernità, allo sviluppo del Grande Progetto, un impiccio da eliminare. Ridevano gridando alle ragazze: ”Ehi, dì al tuo moroso che non metta in cantiere un bambino perché non ci servi con il pancione”… Se ho resistito per più di due anni e mezzo, e poi me ne sono andato pochi mesi dopo aver letto del sindaco di Castel san Giovanni, che ringraziava Amazon per aver salvato la città e abitanti, è perché alla fine ti abitui a essere una nullità, peggio di un numero. Ti ripeti che la paga non è da fame e uccidersi letteralmente di lavoro è la normalità, anzi un gesto nobile e dovuto. Ti riesce naturale salire distrutto in auto o sul pullman con gli occhi lucidi non soltanto per il i sonno … Stavo diventando … Stavo perdendo qualsiasi forma di rispetto nei confronti di me stesso. Mi facevo schifo. Certo, lo stipendio mi serviva eccome, non raccontiamoci palle, però mi faceva schifo e non avevo più un’esistenza. L’ultimo giorno un mio coetaneo dal quale avevo dormito qualche volta mi ha chiesto se fossi matto, perché rinunciavo a un posto sicuro, e gli ho risposto che ero spaventato dalla persona in cui mi stavo trasformando. Una brutta persona, che non ero io e di cui mi vergognavo”. ( da “Schiavi di un Dio minore” UTET 2016 ).

Un’altra persona che ho visto in questi giorni mi ha colpito: ha lasciato il lavoro da due anni perché non condivide più questo modo di vivere. Vive in un monolocale in un piccolo borgo e fa quello che gli viene in mente: si alza quando gli pare, va a spasso col cane lungo il fiume, campa con pochissimo, con i risparmi degli anni scorsi, si immerge nella natura, è stanco della vita di fretta e per ora è contento, vorrebbe condividere la sua storia con altre persone in un posto in mezzo alla campagna e coltivare in modo che possa barattare i prodotti che coltiva con altre cose .

Altro atteggiamento che noto è il continuo maneggiare il telefono, sull’autobus, per strada, nelle sale d’attesa, alla posta. Perché? E’ la paura? E’ il bisogno di qualche novità, di qualcosa di bello che possa dare una svolta alle nostre vite? Questo continuo schiacciare i tasti isola, non dà la possibilità di essere, della presenza nel luogo in cui si è. Le persone camminano sui marciapiedi spesse volte dando delle gomitate a chi gli passa accanto perché non si accorgono. Non si ha più voglia di aspettare, di star fermi, di fare le code, che diventano un continuo sbuffare. E’ come se qualcuno ci manovrasse. Possiamo chiamare questa situazione come una crisi di presenza, Dasein, come direbbe Heidegger; un malessere, un senso di inutilità e di impotenza. “Se il mondo si ritira dal soggetto, il soggetto si ritira dal mondo, che, dal punto di vista esistenziale, per lui si riduce, si fa sempre più piccolo”. La voglia di uscire da questa cappa per agire, essere protagonisti della propria storia, contrariamente a quello che avviene con l’esperienza di sentirsi “agito da”. Non ci si sente più liberi, come se tutto fosse già scritto, sotto controllo. E’ periodo di passaggio, da un’economia ad un’altra, da un certo modo di vivere al desiderio di qualcosa altro non ancora ben definito.

Spesse volte capitano all’eremo persone quarantenni che hanno un lavoro, ma sono in crisi, nonostante lo stipendio fisso. Perché? Il posto di lavoro a tutti i costi, importante è averlo, ma a lungo andare questo porta in un vicolo cieco soprattutto per le persone abituate a ragionare con la propria testa. Sono scontente, sentono un disagio che spesse volte si trasforma in depressione, tristezza. quel tipo di lavoro non li soddisfa, e non gli dice più nulla. Si sono dedicate per anni con impegno, qualche volta facendo carriera, perché avere un lavoro era importante. Ora non più. Aiutare a scoprire i propri talenti, è un’attività a cui mi dedico da anni. “Che cosa desideri fare? Che cosa avresti voluto fare? Quando vai da qualche parte che cosa ti far star bene? Da quale stile di vita sei attratto? Da bambino che cosa sognavi? Cosa volevi fare da grande?” Sono tutte domande che rivolgo a queste persone dopo aver analizzato i colori che usano nei disegni che propongo di colorare. E si scoprono diverse cose. Per anni si sono dedicati a un lavoro che non faceva parte della loro vita. Si son messi su quella strada perché è stato quello che hanno trovato.

Sviluppare i propri talenti non è facile, perché richiede impegno e non ci sono sicurezze almeno all’inizio. Consiglio loro che per ora sarebbe utile, almeno nel loro tempo libero, fare ciò che gli piace veramente, dedicarsi a un’attività manuale creativa, che da anni hanno sognato ma che hanno sempre rimandato. In questa maniera è come ricaricarsi di un’energia che gli permette di affrontare il lavoro quotidiano con meno tristezza. Col tempo, se il nuovo dà la possibilità di vivere possono staccare la spina del vecchio e dedicarsi completamente ad esso, o per lo meno a metà tempo. E’ dura soprattutto per chi è abituato ad un lavoro dipendente e l’autonomia richiede una forte determinazione. Quindi il lavoro oggi nella maggior parte dei casi non è creativo e genera scontento e insoddisfazione anche a causa della scomparsa dell’artigianato. Quale prospettiva per i giovani? E qui si può, parlare anche di nuove emigrazioni che hanno ripreso con un ritmo sostenuto in questi ultimi anni, 450 mila giovani hanno lasciato l’Italia in questi ultimi tempi.

Un’altra conseguenza di questa situazione è la sfiducia nella politica che si dimostra anche con la scarsa partecipazione alle elezioni. “Tanto non cambia niente”. Una sfiducia dovuta anche al fatto del modo di fare politica basato molto sul sistema clientelare. Favori contro voti e il clientelismo ha trasformato i partiti tradizionali, sostituiti da forme di associazioni trasversali senza più caratterizzazione ideologica: cordate, cosche o con gruppi e correnti. Un’ultima conseguenza è la natalità, si fanno pochi figli e questo si rifletterà nei prossimi anni sulle pensioni dei vecchi. Ci sono gli immigrati che contribuiscono (almeno 5 milioni) a dare stabilità a questo problema. Quando si vive in questa situazione di paura e insicurezza è facile poi prendersela con l’anello più debole della catena, creando conflitti e alzando dei muri, dando retta a coloro che nelle piazze alzano la voce.

E i giovani? Quale prospettiva? E qui c’è un dato che ci fa pensare. Hanno ripreso con un ritmo sostenutole nuove migrazioni: 450 mila giovani in questi ultimi tempi hanno lasciato l’Italia. Possiamo chiamare la loro una generazione da sacrificare, a cui offrire lavoro come briciole che cadono dalla tovaglia. Gli studenti italiani sono quelli che hanno il minor numero di borse di studio: uno dei tassi di disoccupazione più alti del mondo occidentale. Dal 2008 al 2012 sono stati risparmiati otto miliardi su scuola e università. Le tasse di iscrizione si sono raddoppiate nonostante le immatricolazioni siano calate del 10% solo nell’ultimo anno. Chi non ha futuro può diventare facile preda della mafia e del terrorismo. E quello che è successo in Belgio con gli attentati ce lo dimostra. Giovani figli di immigrati che vivono alla periferia di Bruxelles senza lavoro o con un lavoro precario si lasciano attrarre da questi gruppi. Non parliamo poi del Sud, ma anche del Nord Italia: droga, spaccio, traffici illeciti sono la conseguenza di questa situazione, che non si risolve col Jobs Act

Una cultura nuova sta avanzando , quella che non prevede diritti. Eravamo convinti che i diritti acquisiti si potessero tramandare alle nuove generazioni. Ora si stanno sgretolando piano piano. Agenzie interinali che propongono contratti senza diritti, senza TFR, senza tredicesima, senza la possibilità di ammalarsi e perfino poco propensi ad ammalarsi.

Allora il disagio diffuso è indice di un malore. Solo se prendiamo coscienza di questo possiamo trasformarlo in un dolore di parto. E sarebbe bello accorgerci anche dei segni positivi che esistono ma che non fanno rumore, sono come il seme che lavora in silenzio e per questo sarebbe utile diffondere questi segnali che possono farci dire come Agostino: Si isti et istae, cur non ego?”

Mario Signorelli


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