Il grido di Gaia (2)


 

Non si tratta di un Occidente geografico che si avvia ad arroccarsi in difesa; piuttosto di quell’occidente economico e politico che comprende, oltre all’Europa e all’America settentrionale, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone.

La natura non lo risparmierà più di altri. Se per il Canada, la Russia e i paesi scandinavi vi è il dubbio che in una prima fase il riscaldamento apporti benefìci netti, al contrario per l’Australia la mutazione ha già riflessi drammatici. Per l’Europa mediterranea le prospettive saranno di desertifica­zione; l’agricoltura e l’urbanizzazione statunitense andranno incontro a serie difficoltà, senza contare l’ormai visibile intensificazione dei fenomeni climatici estremi; l’esposi­zione a serie sempre più intense e frequenti di tifoni non agevoleranno di certo il Giappone.

A un primo livello d’analisi, si potrebbe concludere che l’Occidente economico – i paesi dell’Ocse, per intendersi – subirà gli effetti del riscaldamento globale, ma dispone dei mezzi politici, economici e sociali per far fronte all’adat­tamento che si renderà necessario. È vero, ed è un fatto. Tuttavia, questa constatazione ritrae solo un sottile strato superficiale dello scenario che si andrà delineando. Sarebbe una constatazione sufficiente se il cosiddetto Primo mondo esistesse da solo o potesse isolarsi dal resto della popolazio­ne mondiale; invece fa parte di un unico ecosistema, che comprende un’unica umanità globalizzata.

Potrà il mondo ricco ripiegarsi su se stesso e concentrarsi sulle proprie necessità di adattamento? L’Europa riuscirà a tenere fuori dalla porta le masse migranti dall’Africa? Il Giappone, l’Australia, la Russia potranno impedire l’inva­sione dei diseredati dell’Asia? L’America resterà immune dai drammi che colpiranno i suoi vicini latini? Potremo tenerci pubblicazione di un rapporto intitolato National Security and the Threat of Climate Change che, ovviamente, esamina i riflessi del riscaldamento globale sulla sicurezza nazionale statunitense. Ecco, per esempio, alcune considerazioni che ne emergono in merito al Continente nero:

«L’Africa ha un valore strategico per gli Usa come fornitore di energia; entro il 2015, fornirà fra il 25 e il 40 per cento del nostro petrolio e ci rifornirà anche di minerali strategici come il cromo, il platino e il manganese […], ma l’instabilità politica in Africa aggiunge nuovi potenziali pesi per il mantenimento della sicurezza degli Stati Uniti in varie maniere. Le operazioni di stabilizzazione – che spazieranno dalla distribuzione umanitaria diretta di beni e la protezione degli operatori umanitari, fino alla restaurazione di apparati statuali solidi – possono comportare sforzi pesantissimi per il comparto militare americano. […] Tuttavia, l’instabilità politica rende più rischioso l’accesso al commercio e alle risorse africane su cui gli Usa contano per scopi sia civili che militari» (Center for Naval Analyses Corporation, National Security and the Threat of Climate Change, Alexandria VI 2007).

È questo che vuole il mondo occidentale? Sono fatti di questo i suoi sogni tranquilli?

 

Una catastrofe tutta nostra

Queste sono in estrema sintesi le proiezioni, area per area, relative agli impatti umani dei cambiamenti climatici, su un orizzonte temporale abbastanza ravvicinato. Esse, per quanto preoccupanti, vanno lette come proiezioni per difetto, ristrette e prudenti, limitate a un unico fenomeno di degrado ambientale – il riscaldamento – e nemmeno a tutte le sue conseguenze. Singolare è, per esempio, che nessuna proiezione includa i costi che l’umanità dovrà pagare se vedrà progredire l’acidificazione degli oceani, prodotta anch’essa dall’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera. Sugli ecosistemi oceanici, così come sulle terre emerse, l’aumento di CO, potrebbe avere conseguenze devastanti e far scattare alcuni tipping points pericolosi per la stabilità della comunità umana, tanto che alcuni scienziati hanno definito l’acidi­ficazione dei mari «il fratello malvagio dell’effetto serra».
In questa prospettiva, le proiezioni regionali sono signifi­cative ma non sufficienti e, pur riconoscendo l’impossibilità di prevedere precisi sviluppi, è essenziale tentare di capire almeno quali sono le strade che il pianeta nel suo insieme potrebbe imboccare. Nel complesso, avventurandosi oltre le proiezioni rigorosamente basate su modelli, si può prevedere in una prima fase la frattura profonda fra due mondi, che per certi versi ci riporterebbe a logiche coloniali: un gruppo di nazioni più potenti che cercheranno di imporre l’«ordine» necessario a «proteggere» le loro economie a un altro gruppo di nazioni divenute incapaci di autogovernarsi adeguata- mente. Fra i potenti, che probabilmente ricorreranno a un mix di aiuti benevoli e interventi repressivi nei confronti dei più poveri, vi saranno i paesi occidentali e attori nuovi come Brasile, Cina, Corea e India e, se tutti loro riescono a saldare i loro sforzi, la manovra potrebbe bastare a prevenire il disordine su scala planetaria. Tuttavia ciò avrebbe costi altissimi in termini economici, a meno che non si miri a una nuova fase espansiva basata sulla costante crescita dello sforzo militare, come avvenne per gli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. E, in ogni caso, una manovra del genere avrebbe un costo molto più alto, anche se non monetizzabile: l’Occidente si venderebbe l’anima, con un definitivo addio a quei sogni che lo hanno reso degno nonostante i suoi errori, lasciandosi alle spalle una volta per tutte un’«utopia» come la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Ma non è questa l’ipotesi peggiore, poiché essa si baserebbe su un’alleanza – repressiva o di tutela benevola – fra coloro che hanno i mezzi, intesa a tenere a bada chi non ce la fa più. Un simile «accordo», tuttavia, è tutt’altro che scontato. Molto più probabile che si apra un conflitto fra le potenze invece di un coordinamento fra loro. Gli scenari geostrategici possibili, allora, sarebbero molteplici, con possibili rimescolamenti di alleanze fra grandi attori: uso crescente di pressioni politiche per il controllo delle materie prime, conflitti periferici su cui guadagnare posizioni marginali e testare le rispettive capacità militari – come avveniva durante la Guerra fredda -, segmen­tazione delle comunità umane e, soprattutto, un definitivo abbandono della globalizzazione cooperativa e della coesione umana. Questo scenario si svolgerebbe sempre sull’orlo del baratro di un conflitto planetario: un po’ come la Guerra fredda, ma con un livello di disordine sistemico molto più elevato e molto meno gestibile. A chiamarlo col suo nome, lo si definirebbe uno scenario di soglia di catastrofe. Una catastrofe tutta nostra, che potrebbe precedere la violazione di soglie catastrofiche naturali ma che, sicuramente, ci por­terebbe a varcare anche quelle.

Grammenos Mastrojeni

Questo contributo è tratto da L’arca di Noè. Per salvarci tutti insieme”, Chiarelettere Milano 2014. pp.154


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