Frammenti di vita (1)
È una giornata autunnale, splendida, I colori delle piante sono di un colore intenso, e mettono gioia dentro. Esse lasciano cadere le foglie formando un tappeto, che nessun artigiano al mondo saprebbe fare. Se alzo gli occhi, o meglio se li abbasso guardando la pianura mi viene una tristezza. Una cappa grigia l’avvolge che fa a schiaffi col paesaggio della collina.
Gli alberi sono intelligenti, danno spettacolo fino alla fine della stagione, ma nello stesso tempo si stanno preparando alla prossima primavera e non sprecano nulla perché le loro foglie diventeranno terriccio. È un morire per risorgere.
Mentre scendo vedo la strada bloccata da un’autobotte che sta riempiendo di gas un bombolone. Immediatamente i miei pensieri vanno a questa energia, che da anni stiamo estraendo dal sottosuolo. Sono costretto a fermarmi, spengo il motore e aspetto pensando alle due cose che vedo: bombolone e la mia piccola auto. Gas e petrolio. L’espressione “picco del petrolio” sta diventando per noi sempre più familiare. Ma ci sono ancora enormi riserve di petrolio e di gas. Ogni anno andiamo scoprendo nuovi e significativi giacimenti, dal Brasile all’Artico. Questo ci mette più tranquilli e il pensiero negativo lo mettiamo da parte. Così noi continuiamo a vivere la nostra vita come nulla fosse. Nel 2012 la statunitense Exxon, il maggior produttore mondiale di petrolio, ha firmato un accordo con la Russia per investire 500 milioni di dollari in ricerche ed estrazione di petrolio e gas nell’Artide, nel mare di Kara in territorio russo.
Noi siamo dipendenti da questo petrolio, i paesi del terzo mondo per sopravvivere bruciano legna e carbone. Messe insieme queste cose producono effetti seri sulla salute, con le malattie respiratorie e decessi prematuri. Per ora questi effetti inquinanti colpiscono tre miliardi di persone al mondo. La mia auto è piccola ed essa fa parte di questa moltitudine: nel 1960 circolavano 100 milioni di automobili sulle strade del mondo, nel 1980 erano 300 milioni. Questa situazione sviluppò una massiccia espansione delle reti stradali, interi paesi e città vennero asfaltati, accrescendo la perdita dell’habitat per altre specie.
Il rifornitore di gas ha finito la sua operazione ed io riprendo il mio viaggio verso la città. Dopo pochi metri c’è una cascina, con tutti gli animali liberi, cani gatti e galline. Raramente si vedono animali così contenti, non abbaiano e le galline continuano libere a beccare tra una siepe e l’altra. Le loro uova sono buonissime, non come quelle di altre galline che vivono nei capannoni, ammassate le une vicine alle altre. Credo sia questa del contadino una delle poche realtà rimaste in zona. Passano per la mia mente questi capannoni per gli allevamenti. Ormai è diventato all’ordine del giorno il consumo animale, mentre al tempo della nostra infanzia era un’eccezione. La produzione alimentare è responsabile del 30 % circa di tutti i gas serra, generati come effetto collaterale della fertilizzazione. Oggi mangiare è diventato uno svago e un passatempo. Non consumiamo quello che ci basta ma sempre di più e questo aumenta la pressione sia sulla produzione dei beni alimentari sia sullo sfruttamento del suolo. L’uso sempre maggiore di terreno per coltivare questo cereale allo scopo di nutrire il bestiame, unito all’uso del terreno sempre maggiore da destinare allo stesso, sta esercitando una pressione enorme che va a sommarsi allo sfruttamento del suolo e alla deforestazione sempre più grande.
Riprendo il mio cammino, a lato della strada, dietro le siepi si vedono terreni lasciati in balia di se stessi, dove cresce il sottobosco, che sa dare anche qualcosa di buono, come i frutti di rosa canina, molto utili per le marmellate e le more che nascono dalle spine su cespugli di rovi. La natura come sempre riprende il sopravvento, ma se lasciata a se stessa è soggetta a incendi. A questo proposito abbiamo presenti le immagini degli incendi di quest’estate in Liguria, in Val di Susa, alla periferia di Roma e al Sud. Sono segnali. I terreni valgono se hanno uno scopo, lo sfruttamento per interessi, se non entrano in questa ottica sono lasciati a se stessi. Mi ricordo che qualcuno negli anni sessanta per poco acquistava boschi a basso prezzo in attesa che diventassero aree fabbricabili per villette. A pensarci mi vengono i brividi.
Scendendo dopo i boschi lasciati a se stessi, vedo dei vigneti con colori stupendi, mi si apre il cuore a vederli. A proposito di boschi, quello dell’eremo era come descritto sopra, abbandonato a se stesso per cinquant’ anni . Negli anni sessanta era per la maggior parte un vigneto. In pochi anni rovi e spine hanno preso il sopravvento. Ho impiegato 15 anni per ripulirlo e ora camminare sotto quegli alberi è una gioia.
Incontro il primo semaforo e come sempre c’è coda, mi diverto mentre aspetto a guardare le persone che passano sul marciapiede. Non ne vedo una contenta, tutte prese a smanettare sul telefonino, non esiste altro. Non riescono a stare sole un momento, hanno un bisogno continuo di comunicare. Forse c’è tanta solitudine ed anche paura, o forse si aspetta qualche bella notizia che cambi le nostre vite. Il materiale di quei telefonini nasce nel centro dell’Africa, il coltan, dove migliaia di persone lavorano scavando e le foto che ritraggono queste miniere a cielo aperto fanno venire i brividi. Ci sono molti bambini che lavorano come schiavi e noi continuiamo a cambiare i nostri strumenti sempre più sofisticati. Anch’io ne ho uno, ma non mi ricordo il numero, perché lo uso pochissimo, solo in caso di necessità, poiché la linea fissa passando per il bosco potrebbe, e qualche volta è successo, interrompersi per un fulmine o per la neve che rompe i fili.
Di questi strumenti non ne possiamo farne a meno, vogliamo sempre essere collegati, anche quando diventano sgradevoli, come nelle riunioni.
Ecco ora le prime case, strade, incroci, capannoni, supermercati. I pochi terreni rimasti sembrano fuori luogo, sembra quasi siano in attesa di altre destinazioni. Poco sotto c’era un terreno libero da anni, in mezzo a case. Ho sempre pensato facessero un giardino o un piccolo parco. Il parco lo hanno fatto, ma per anziani, un ricovero. Chi viene ospitato, se apre una finestra da un lato si affaccia sul cimitero, e dall’altra sul piazzale della farmacia che si chiama “Mortari”. C’è voluta una fantasia per inventarsi una struttura del genere. Questo è quello che ci aspetta sia come persone sia come umanità, se andiamo avanti di questo passo.
Continuando il mio percorso, passo là dove un tempo era tutta campagna, fino a pochi anni or sono. La canzone – qualche volta canto mentre vado in macchina – che mi esce spontanea è quella di Celentano, degli anni ’60 : il ragazzo della via Gluck, che abitava in una casa, fuori città. gente tranquilla, che lavorava. Là dove c’era l’erba ora c’è una città, e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà?. E come sempre queste storie vengono inglobate nei capannoni. Eh no, non so, non so perché, perché continuano a costruire le case, e non lasciano l’erba … Eh no, se andiamo avanti così, chissà, come si farà, chissà
Arrivo al parcheggio dietro il cimitero, voglio percorrere la strada a piedi per un chilometro per non intasare e anche per non correre il rischio di non trovare posto vicino alla libreria dove sono diretto.. Faccio fatica a trovare un posto, e vedo per fortuna uno spazio libero. Più passa il tempo anche quel parcheggio è sempre pieno nonostante il luogo accanto al cimitero. Ma nei pressi del cimitero pochi anni fa hanno costruito un supermercato. Forse si ha paura dei morti e allora i cimiteri li circondiamo di rumore, in modo tale che neanche i morti riposano in pace.
Proseguo il mio percorso a piedi e cerco di salutare la gente che incontro, anche se non la conosco. Qualcuno si meraviglia del saluto di uno sconosciuto, altri , la maggior parte sono intenti a smanettare sul telefono. In libreria, non c’è quasi nessuno, poche persone, perché la gente legge poco. Questa libreria è molto frequentata nel periodo dei testi scolastici, e questo permette ai gestori di guadagnare, altrimenti farebbero la fame e sarebbero costretti a chiudere. La cultura ormai è diventata patrimonio di pochi. Leggere un libro richiede attenzione, soprattutto quelli impegnativi. Mi accorgo che i libri in prestito dalla biblioteca dell’eremo sono soprattutto quelli riguardanti le relazioni, il benessere fisico, pochi invece quelli sui problemi dell’umanità, nonostante ce ne siano molti negli scaffali. Ritorno sui miei passi con il sacchetto carico di libri per la biblioteca dell’eremo e mi diverto ancora a osservare le persone e a salutarle. A un semaforo c’è una giovane donna con il bambino nel passeggino. La saluto e faccio gli auguri per il bambino di pochi mesi. Mi risponde con un sorriso. Continuando il percorso pensavo a quel bambino e a tutti i bambini: quale futuro li attende?
Nel 1800, poco più di duecento anni fa, eravamo un miliardo. Nel 1960 eravamo tre miliardi. Oggi sette miliardi. Nel 2050 vivranno su un pianeta con almeno nove miliardi di persone. Verso la fine di questo secolo, saranno almeno dieci miliardi. E forse più.
Dall’altra parte della strada altre donne arabe e africane con i loro passeggini. L’Africa sta esplodendo. Un esempio: la popolazione della Nigeria entro la fine del secolo, secondo le proiezioni, crescerà del 349 per cento arrivando a 730 milioni di persone. Numeri da incubo. Perfino la popolazione degli Stati Uniti dovrebbe crescere del 52 per cento entro il 2100, arrivando a 478 milioni dai 315 del 2012. Se l’attuale tasso di riproduzione dovesse mantenersi costante, entro la fine di questo secolo non saremo dieci miliardi, ma 28 miliardi. L’autore di un libro che ho letto in queste settimane (Stephen Emmot, Dieci miliardi. Feltrinelli), di fronte a questa situazione fa questa affermazione: “Possiamo giustamente definire la situazione in cui ci troviamo un’emergenza senza precedenti. Abbiamo un urgente bisogno di fare – e voglio dire “fare concretamente” – qualcosa di radicale per sventare una catastrofe globale. Ma non penso che lo faremo. Quello che penso è che siamo fottuti”.
Con questi pensieri ritorno all’eremo, godendomi i colori dell’autunno con un senso di commiserazione verso coloro che fanno di corsa i sentieri con le cuffiette alle orecchie, senza accorgersi di quello che c’è attorno. Ritornando con le borse della spesa e con i libri lo sguardo si posa sulla pianta di corbezzolo. Ha i frutti di un rosso intenso, ma nello stesso tempo ci sono i fiori per i frutti del prossimo anno. È un vero maestro di vita questo albero, che pensa al futuro ed è un segno di speranza. Salendo le scale mi passano per la mente le parole del falegname di Nazareth:
“Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono stati inviati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli, come una gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali e non avete voluto! Ecco la vostra casa vi è lasciata deserta”. (Mt 23,27 ). Nella storia ci sono state sempre delle persone lungimiranti che hanno avuto il coraggio di andare contro corrente, ma sono state fatte fuori. Un tempo ammazzate fisicamente, oggi silenziate. Spesso lui ripete l’invito a vegliare, che significa essere attenti, accorgersi di quello che sta avvenendo, e credo che questo sia il verbo che ci può salvare, se siamo ancora in tempo. I miei due gatti mi insegnano molte cose, soprattutto sull’attenzione. Sembra che stiano dormendo, ma basta un piccolo rumore che alzano lo sguardo immediatamente con le orecchie dritte. Una metafora adatta in ogni situazione.
Mario Signorelli