Frammenti di vita (2)


 

Il disagio giovanile, l’incomprensibilità di molti comportamenti, la noia di vivere sono, sicuramente, ascrivibili a molteplici fattori; tuttavia, una variabile di cui non si parla quasi mai – e, nel caso in cui avvenga, viene ricondotta a sermoncini di circostanza – è rappresentata dal ruolo della formazione e delle nuove modalità comunicative come, ad esempio, facebook, twitter. In particolare, sembra che la scarsa utilizza -zione di internet e il non possesso di un profilo faceboock sia indice di arretratezza culturale e di incapacità comunicativa. Pare che, attualmente, non sia più di moda dire: “Vivo felice”. “Sono felicemente connesso”, invece, sancisce il nostro benessere.
Tuttavia, non mi convincono questi gruppi virtuali nei quali si può dire di tutto ed esprimersi con faccine triste e allegre. Ad essi, infatti, si può accedere con diverse modalità, secondo le caratteristiche definite dal fruitore. I fautori di questo nuovo linguaggio comunicativo sostengono che si favorisce l’elasticità mentale e anche i bambini sono dei grandi esperti nel padroneggiare i bottoni informatici e lo schermo del telefonino.
Purtroppo, secondo la logica dei bottoni e del tocco, i più piccoli vengono utilizzati come quegli scimpanzé che, in un famoso esperimento, erano stati addestrati per comunicare con gli scienziati per mezzo di simboli. Se volevano una banana, individuavano un pulsante con il simbolo della banana, lo premevano e un frutto usciva dallo scivolo. Altri pulsanti avevano simboli diversi; ce n’era uno per l’acqua, uno per le variazioni di luce. Ce n’era uno, addirittura, che sollecitava manifestazioni di affetto fisico. Quando lo scimpanzé lo premeva, entrava uno scienziato che lo abbracciava e lo coccolava.
Questo esperimento fu salutato dalla scienza come la dimostrazione che questi animali avevano la capacità di astrarre. Jerry Minder, nel suo libro “Quattro ragioni per abolire la TV”, pone invece un’interessante riflessione per la quale lo scimpanzé, come qualsiasi altro animale segregato, farà tutto ciò che sarà necessario per sopravvivere e trarrà il massimo da una situazione che sfugge totalmente al suo controllo. In questo modo, qualsiasi creatura riduce le sue aspettative mentali e fisiche per adeguarsi a ciò che può essere ottenuto e si avrà, come estrema e tragica conseguenza, che le creature segregate – nel caso in cui non riescano a adattarsi a questo modello di comportamento – impazziscono, si ribellano o muoiono.
Vorrei chiedere agli insegnanti, agli educatori, ai formatori, se non vengono sfiorati dal ragionevole dubbio che, non necessariamente, la conoscenza tecnica dei bottoni o dei tasti da schiacciare o dei link da sviluppare sia sinonimo di benessere o, meglio, di stare bene! Anche la tanta esaltata possibilità di poter aggredire una comunicazione da qualsiasi punto di vista non può prescindere dalla conoscenza di un testo con una struttura lineare consequenziale. La creatività, come tutti sanno, non è la mancanza di regole, ma la capacità di superarle dopo averle conosciute e, magari, anche sperimentate. Ritengo che una grave conseguenza di una comunicazione dalla quale si entra e si esce a proprio piacimento, slegata dallo sviluppo delle capacità e privata di un percorso di apprendimento, possa essere quella di perdere la capacità di iniziare e terminare qualsiasi cosa. Infatti, da qualunque parte, si può entrare e, in qualsiasi momento, è possibile uscire. In questo modo si perde la capacità di confrontarsi con ciò che ha inizio e fine. Tutto rischia di perdere senso perché nulla sembra più avere né scopo, né finalità, né ipotesi, né, tanto meno, contenuto, perché l’approccio virtuale può prescindere da tutto questo. Ci si trova, infatti, di fronte a un mezzo che può essere utilizzato in assenza di uno specifico fine: è sufficiente schiacciare un bottone, o un colpo di mouse, o dare un tocco allo schermo per entrare e per uscire da un’ipotesi di emozione. In pratica, faceboock determina la società e non, come sarebbe logico, viceversa.
Vorrei, allora, chiedere ad insegnanti, educatori e fautori incondizionati delle nuove forme comunicative se questi meccanismi non possano riflettersi anche sulla vita quotidiana e quindi sullo sviluppo complessivo della personalità. Porre questi interrogativi non significata demonizzare internet, ma chiedersi come, dove, quando, perché utilizzarlo. Non credo sia bene immettere il bambino immediatamente in una logica virtuale informatica, perché la constatazione che tutti dovranno guidare un’autovettura non comporta mettere al volante bambini di cinque, sei sette, otto anni. E il problema si può presentare anche in età adulta, perché utilizzare l’auto per andare al lavoro o per qualsiasi altra necessità significa usare le scoperte in modo funzionale ai bisogni dell’uomo, ma avviarla e girare per ore intorno al cortile di casa fa sospettare la presenza di qualche scompenso psichico.
Questo vale anche per internet che, quando diventa l’auto che gira nel cortile, si trasforma in qualcosa di patologico e non aiuta a parlare della società in cui si vive, ma, molto spesso, a ignorarla. La conseguenza che anche nei piccoli borghi, quando le persone si incontrano, non dicano “Sai che cosa è successo? ”, ma “Hai visto che cosa c ’era sulla pagina faceboock di Rosalinda? E allora la società stessa cessa di essere un struttura relazionale migliorabile e perfettibile: l’uomo informatico tende ad instaurare con la rete la speranza di perfettibilità. In questo senso lo slogan della cultura di massa targata Hollywood lieto fine – che ci presentava una società all’interno della quale c’erano dei problemi risolvibili attraverso l’azione congiunta di tutta la comunità – potrebbe essere parafrasata in questi termini: “Internet, faceboock ci daranno la felicità perché un giorno sarà possibile passare con loro una giornata perfetta”. In questo modo si instaurerà l’incapacità di distinguere il reale dal virtuale e si vivrà all’interno di una circolarità che si rincorre mordendosi la coda.

Giuseppe Callegari


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