Don Lorenzo Milani
e Don Cesare Sommariva (1)


 

A dieci anni dalla morte di don Cesare, riportiamo due suoi documenti: un fax del 1991 scelto tra i moltissimi spediti dal Salvador e l’altro dal titolo “Le classi sociali come punto cruciale dell’etica” che risale al 1997 nel quale espone anche una sua sintetica biografia. Al numero 6 afferma: “La prolungata amicizia con don Milani, le relazioni con persone che ricercavano questo nuovo ruolo, mi hanno portato alla costruzione delle scuole popolari di quartiere, con tutto quello che poi ne è seguito”.

Sul suo legame con il priore di Barbiana, don Cesare – almeno con noi – ha sempre osservato una severa riservatezza. Ricordo che, in prossimità del trentesimo anniversario della morte di don Milani, gli ho prospettato l’ipotesi di organizzare un seminario per ricordarlo. La sua risposta è stata uno stop alla possibile iniziativa.

A me pare di aver riscontrato in loro profonde affinità:

Ambedue provenivano da famiglie dell’alta borghesia rispetto alle quali hanno totalmente cambiato lo stile di vita, gli interessi, le frequentazioni, gli ambienti e il senso che hanno inteso dare alla loro vita. Don Cesare parla del suo “fuggire di casa…” per “trovare l’altra classe, quella nuova, quella portatrice del nuovo passo dell’umanità”. La domanda che insegue diventa: “quale mai fosse il ruolo di intellettuale piccolo borghese rispetto alla classe operaia (erano i tempi dell’operaio fordista).
La posizione di don Lorenzo la troviamo ben sintetizzata da Michele Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana morto recentemente: «Il giovane Cappellano rifiuta l’oratorio parrocchiale e l’organizzazione di ogni aggregazione cattolica, perché perpetuano le divisioni “buoni e cattivi”, tra noi e loro. Il “noi” e “loro” di don Lorenzo sono i ricchi e i poveri, i primi e gli ultimi, i colti e gli incolti, gli inseriti e gli emarginati, gli oppressi e gli oppressori, i forti e ii deboli. Differenze da colmare. Per questo il prete deve essere schierato senza mezze misure a fianco del più debole…per la riconquista della dignità umana rubata”.

Il senso di questa loro dislocazione non era solo quella di condividere, per quanto possibile, la condizione di povertà, ma l’impegno indefesso per donare gli strumenti culturali necessari per sviluppare le potenzialità presenti in ciascuno.
Dal Salvador don Cesare scriveva: ”Che debbo dirvi della gioia immensa che uno prova quando vede che i semplici strumenti culturali che con grande costanza ho dato, ora alcuni li applicano con tale semplicità che sembra che siano nati con quelli…Per cui mi limito a dire che

– gli strumenti di logica, di metodo, di lettura…servono anche qui…
– quelli che noi abbiamo messo a punto lì sono utili anche qui.E che questi strumenti alcuni li hanno imparati e li usano”

Di don Milani Balducci diceva: “Il suo ideale era di trarre da un figlio del sottoproletariato una coscienza virile da lanciare sulle vie del mondo”.
Il compito della sua scuola era di liberare i suoi giovani e le persone dalla passività, antropologica e quindi anche religiosa.
Diceva dei suoi ragazzi: “Li ho armati dell’arma della parola e del pensiero. Li ho avviati incontro ai cosiddetti pericoli dell’officina più capaci di tutti, più preparati di tutti”.

Dopo i due testi di don Cesare, segue un mio articolo pubblicato lo scorso anno in un numero monografico su don Milani di “Quaderni per il dialogo e la pace” edito dalle Acli milanesi (numero 2/2017). Per me è stata l’occasione per rileggere da cima a fondo “Esperienze pastorali”. Avevo accostato la sua grande opera nella primavera del mio ministero. A distanza di parecchi decenni, nell’autunno della mia vita, è stato bellissimo ripercorrere quelle pagine con le quali la chiesa italiana e la pastorale dominante non ha mai fatto i conti.

 

Roberto Fiorini


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