Convegno di Bergamo / 2 giugno 2018
MEMORIE PER UN FUTURO
1) In ascolto di Carlo Maria Martini
Il mio compito qui è di introdurre la discussione, partendo dalla piccola esperienza che ho avuto nel coordinare il comitato che segue la pubblicazione delle Opere di Martini, e in particolare del loro primo grosso volume, pubblicato per i tipi di Bompiani e dedicato appunto alle “Cattedre dei non credenti” (apparso alla fine del 2015, inaugura una collana che al momento stimiamo in una ventina di volumi).
Quale sia stata l’intuizione originaria è presto detto. Martini, eletto vescovo di Milano nel 1980, propose una Cattedra dei non credenti per la prima volta nel 1987. Il modello apparve fin dall’inizio semplice, ma non banale. Si trattava di “mettere in cattedra” qualcuno o qualcuna esterno e distante dalla fede cristiana: il non credente o il diversamente credente, il seguace di altre religioni, la persona in ricerca, la persona lontana dalle certezze della fede. Ascoltare queste voci assumeva un senso fortemente simbolico: la cattedra è infatti storicamente riservata al vescovo, al suo magistero (o se vogliamo anche al suo ministero, tra magis e minus la tradizione cristiana ovviamente conosce una dialettica vivace…). Era luogo tipicamente rappresentativo quindi dell’autorevolezza episcopale: cederla a chi non crede era simbolo di grande rispetto e di volontà di prendere radicalmente sul serio l’interlocuzione con l’alterità.
L’esperienza si consolidò progressivamente: ci sono state dodici edizioni di cattedre fino al 2002, quando Martini concluse il suo ministero ambrosiano. Abbiamo pubblicato nel volume sopra citato tutti gli interventi di queste dodici edizioni, con attenzione a rilevare (anche con qualche inedito) tutti gli interventi, non solo quelli martiniani, proprio per rispettare l’intuizione del cardinale: quelli che lui aveva messo in cattedra dovevano essere ascoltati allora e quindi dovevano esserlo anche all’interno della pubblicazione delle “Opere” di Martini. L’ascolto delle loro libere voci configurava un aspetto cruciale del percorso.
Nella prima edizione, dell’autunno del 1987, Martini giustificò il progetto con parole che sono rimaste abbastanza note e condivise. Il dialogo era da lui concepito come esistenziale e vitale: “Io ritengo – ed è l’ipotesi di partenza – che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa”. Egli aggiungeva che questo ascolto reciproco, libero e cordiale, era contemporaneamente un’opportunità per innescare un più complesso percorso interiore: “intendiamo l’interrogazione o le interrogazioni che il credente fa a se stesso sulla conoscenza di Dio che egli possiede a partire dalla sua fede. Di rimbalzo, quindi, intendiamo anche la domanda o le domande che il non credente fa o può fare a se stesso sulla sua coscienza di non credere”. Alla fine, quindi, la questione vera si collocava nel cuore della stessa dinamica della fede, della sua qualità, della sua solidità, del suo essere o meno all’altezza delle sfide tipiche della modernità.
La forma assunta dall’iniziativa proposta da Martini con la sua prima sessione restò quindi abbastanza canonica e stabile, anche se conobbe alcune variazioni e una serie di adattamenti successivi (quando una iniziativa aveva successo, diceva sempre il cardinale, è arrivato il momento di cambiarla). Si trattava quindi di un ciclo di incontri compatto a cadenza generalmente settimanale: il ritmo ravvicinato doveva favorire l’ascolto e lo scambio, in cui il cardinale stesso interloquiva con i suoi ospiti. L’ascolto non lasciava molto spazio a domande o dialoghi (salvo alcuni casi eccezionali), proprio per conservare agli interventi il carattere di testimonianza personale, più che di lezione. Il clima di raccoglimento era favorito anche da stacchi musicali e momenti di silenzio. Pensando a un percorso di discernimento interiore di origine ignaziana, Martini volle che questi incontri costituissero prevalentemente le condizioni per una “esercitazione dello spirito”. Gli interlocutori, scelti dopo un attento percorso di delineazione del tema, erano incontrati dall’arcivescovo in un colloquio personale preparatorio: alcuni hanno testimoniato di essere stati stupiti perché egli, invece di parlare dell’incontro da organizzare, indugiava in domande personali per conoscerli meglio, nella logica di un incontro vero tra persone. Il pubblico, in continua crescita, era invitato con mezzi molto personalizzati, che miravano a raggiungere appunto persone in ricerca. In qualche misura, questo approccio significava molto in termini di rispetto reciproco, rifiuto di voler produrre affrettate sintesi e men che meno sincretismi tra posizioni diverse. Tutto ciò serviva per guadagnare un livello più profondo di scambio, che poteva anche portare a mettere in questione i propri convincimenti. I temi partirono dalla questione della fede e dei suoi atteggiamenti, presa di petto nella prima cattedra. Poi via via affrontarono vari elementi: il senso del dolore, la preghiera, la ricerca ecumenica, la questione educativa e l’infanzia, l’ordine dei sentimenti, la fede del mondo ebraico, poi via via anche tematiche più specifiche: la violenza, la giustizia, il senso del tempo, la scienza, la città…
Quali erano state le radici di questa intuizione? La questione del rapporto con il diverso, l’alterità rispetto alla fede e alla verità aveva sempre avuto una sua centralità nella storia cristiana. Ma si era codificata, soprattutto nella parabola della lunga epoca costantiniana, nella rigida definizione dell’errore e della sua condanna ed emarginazione. Fino all’Ottocento questa è rimasta la consapevolezza generale: si pensi al Syllabus degli errori moderni raccolti in appendice alla Quanta cura di Pio IX nel 1864. Parecchi cristiani, laici e preti avevano via via sfidato quest’approccio rigido, ma trovandosi spesso incompresi e marginalizzati nella loro testimonianza anticipatrice. Solo nel corso del Novecento questa contrapposizione netta è stata via via superata, non senza fatiche e ripensamenti.
Una mutazione di atteggiamento magisteriale su questi problemi fu preparata dall’approccio di Giovanni XXIII, che introdusse un principio del tutto nuovo con la famosa espressione della Pacem in Terris del 1963: “Non si dovrà mai confondere l’errore con l’errante, anche quando si tratti di errore o di conoscenza inadeguata della verità nel campo morale e religioso” (n. 83). L’essere umano può anche sbagliare, cioè, ma va seguito e ascoltato nella sua dignità: egli non metteva in discussione la tradizionale distinzione tra errore e verità sul piano dei principi, ma apriva un orizzonte nuovo al dialogo tra persone portatrici di opinioni, fedi, religioni diverse. Su questa scia si era quindi collocato Paolo VI con la prima enciclica del suo pontificato, l’Ecclesiam suam dell’agosto 1964, che portava “il dialogo con il mondo moderno” al livello di vera coscienza costitutiva del rinnovamento della Chiesa per rispondere all’appello evangelico: “noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione” (n. 108). Era quindi preparato il campo a una riflessione più articolata, che fu quella fornita dal Vaticano II. Il concilio approvò la Dignitatis Humanae, dichiarazione sulla libertà religiosa, che centrava sulla coscienza personale il perno della ricerca comune della verità. La costituzione pastorale Gaudium et Spes arrivava a parlare di “rispetto e amore” dovuto “pure a coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose” (n. 28). Subito dopo il concilio Paolo VI istituì un Segretariato per i non credenti (parallelo ai segretariati per l’unità dei cristiani e per il dialogo interreligioso), affidandolo alla guida del card. Franz König, arcivescovo di Vienna (nel 1980 fu poi sostituito dal card. Paul Poupard).
Occorre anche ricordare che in quei tempi parlare di dialogo era spesso sinonimo di confronto tra ideologie e sistemi di pensiero “forti”: fu in qualche modo simbolica la stagione del dialogo tra cattolici e marxisti. L’ipotesi era quella di un confronto che incrinasse i muri della guerra fredda, cercando di trovare nella comune preoccupazione per la giustizia e il futuro dell’umanità un terreno di riconoscimento, pur restando fortemente diversificati i due “mondi” in dialogo. I risultati di tali iniziative apparvero però piuttosto esili anche agli stessi protagonisti, pur avendo permesso alcuni scambi interessanti di prospettive. Questa stagione, però, alla fine del decennio settanta sembrava del tutto chiusa. Il pontificato di Giovanni Paolo II esordì sotto il segno di un recupero della solidità integrale del messaggio cristiano, e parallelamente della Chiesa-istituzione. Anche in Italia, una nuova “presenza” sociale, visibile e articolata di una Chiesa rinsaldata attorno all’istituzione e gerarchicamente più compatta, un appello alle presunte risorse tradizionali della “nazione cattolica” italiana, una certa minor confidenza nella mediazione laicale nel campo civile e politico, apparivano gli aspetti cruciali della nuova stagione ecclesiale. Non è un caso che tutto ciò conducesse anche a mettere qualche sordina rispetto alle opportunità di un dialogo ad extra. Parallelamente, la crisi del marxismo, intesa come ultima grande filosofia della storia, faceva indurre molti pensatori a rifugiarsi in una logica di “post-modernità”, espressione resa famosa a partire dal saggio del 1979 di Jean-François Lyotard. In Italia, corrispettivo di questa condizione di superamento delle assolutezze ideologiche era la corrente di riflessione sul cosiddetto “pensiero debole”.
Nei primi anni ’80 era quindi questo lo sfondo della riflessione e dell’azione di Martini. Da una parte si era verificata una sorta di ridimensionamento del marcato interesse ecclesiale post-conciliare per il dialogo. Dall’altra, pesava la perdita progressiva di riferimenti autorevoli e solidi, che sotto un certo profilo poteva anche venir giudicata come una caduta di interlocutori possibili. Non era una condizione apparentemente favorevole. Lo steccato invisibile tra credenti e non credenti era tornato a condizionare fortemente la cultura: una separazione che però secondo il giudizio di Martini era esiziale per entrambi i mondi, cui veniva a mancare lo stimolo reciproco dello scambio e della critica. Il cardinale interpretò insomma questa nuova situazione come difficile, ma proprio per questo anche come feconda di nuove opportunità, perché apriva un livello di confronto molto meno “codificato” e generalista, ma molto più potenzialmente produttivo di effetti profondi sui singoli soggetti coinvolti. Liberava infatti gli spazi per una verifica sulla condizione esistenziale dei singoli esseri umani e dell’umanità, sulla possibilità di cercare le basi di un’etica comune, sulla scoperta di domande condivise attorno ai grandi problemi dell’esistenza umana. Come Martini preciserà qualche anno dopo, nel 1999, in un intervento da membro del Pontificio Consiglio per la cultura: “Questo senso di smarrimento, di disagio, di bisogno di patria, questo dolore dell’abbandono, può essere evaso, nascosto, fuggito: si può tentare di essere non pensanti, e dunque negligenti di fronte alla condizione del naufragio. Ma nel momento in cui si pensa e si è coscienti, la lama di questo dolore non può non interrogarci tutti, oggi, a proposito delle diverse manifestazioni di questa inquietudine. Fede e ragione più consce delle proprie tentazioni epocali. Meno ideologiche, non più rigidamente chiuse in se stesse, sono proprio per questo più aperte alla ricerca, e perciò accomunate nell’esperienza del pensiero dell’Altro”. Il clima, peraltro, stava di nuovo percettibilmente cambiando. Fu infatti proprio dopo il 1989, con l’evento altamente simbolico del crollo del muro di Berlino, che si entrò – almeno nel Vecchio continente – in un orizzonte di superamento degli arroccamenti ideologici, in cui quindi crescevano le opportunità di un dialogo più libero e promettente. Riprenderà non casualmente anche il dialogo interreligioso, che era stato un po’ fermo nel decennio ’80 e che ora si scontrava con l’urgente necessità di dissipare le fosche previsioni di Huntington sullo “scontro di civiltà”. A questo punto l’iniziativa di Martini aveva avuto un ruolo indubbio di apripista: qualcosa di analogo – anche se collocato sul proprio specifico e diverso piano – all’intuizione di papa Giovanni Paolo II quando convocò ad Assisi le religioni del mondo attorno alla preghiera per la pace, nel 1986.
Un altro riferimento implicito in questa proposta è lo stile che Martini aveva condensato nel suo motto episcopale: Pro veritate adversa diligere. Si tratta di una frase della Regula pastoralis di San Gregorio Magno, che è un chiaro programma di vita: la verità non appare qui come un possesso scontato, ma come un richiamo esigente, che appare sempre da cercare proprio attraverso l’incontro con l’avversità, la critica, il dubbio, la contrapposizione. Il cardinale faceva spesso riferimento alla sua lunga esperienza giovanile di appassionata indagine attorno alle interpretazioni razionalistiche e illuministiche delle origini cristiane e della ricerca sul Gesù storico, che a volte gli provocava “la notte della fede”, ma senza indurlo mai a “sfuggire a nessuna contestazione critica”.
Il riferimento all’esperienza pastorale condotta nei primi anni di episcopato era poi cruciale: disse Martini che “L’idea della Cattedra mi è venuta dalle meditazioni che ho tenuto in Duomo, a partire dalla Scrittura, a migliaia di giovani e poi anche ad adulti”. Si trattava dell’esperienza straordinaria della Scuola della Parola, da lui iniziata quasi all’inizio del suo episcopato, secondo il metodo della Lectio divina. Il successo di questo percorso con i giovani faceva rimpiangere la mancanza di coloro che non c’erano e stimolava a pensare qualcosa per loro e soprattutto ad ascoltare qualcosa da loro.
Egli ha anche raccontato che il nome gli venne suggerito da don Luigi Melesi, storico cappellano del carcere di San Vittore a Milano. Per lui il carcere era stato fin dall’inizio un punto di riferimento stimolante della pastorale e della vita cristiana. Più specificamente, uno sfondo originario della domanda che aveva mosso questa ricerca era stato forse anche l’incontro di Martini con la vicenda umana e spirituale delicatissima di alcuni militanti della lotta armata incarcerati a Milano, che si interrogavano sulle loro scelte, sull’assolutezza di una ideologia che li aveva condotti addirittura a uccidere, ora rimessa drammaticamente in questione.
Contava poi un riferimento che aveva consolidato l’intuizione di dar vita a questo cammino – Martini lo esplicitò con chiarezza in occasione della V Cattedra, anche per replicare ad alcuni mormorii o anche ad aperte critiche che avevano messo in discussione l’ortodossia dell’esperimento, – era una riflessione di Joseph Ratzinger nella sua Introduzione al cristianesimo, con la citazione di un racconto di Martin Buber. In quel testo, impostato come commento al Credo, c’è infatti un paragrafo in cui si parla del dialogo continuo tra fede e dubbio nella coscienza del credente. Un erudito esploratore andava a incontrare il saggio Zaddik di Berditchev, per discutere delle sue affermazioni sull’esistenza di Dio e il saggio inizialmente nemmeno lo ascoltava, assorto, finché sbottò: “Chissà, forse è proprio vero!”. Così commentava il teologo tedesco: “Tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede, sempre ben inteso che non cerchino di sfuggire a se stessi e alla verità della loro esistenza”.
Va considerato infine, in questa stessa direzione, un ultimo riferimento indispensabile per capire l’iniziativa: la valorizzazione di uno spazio comune di pensiero nell’umanità, che permettesse alle persone “pensanti” di interloquire in modo proficuo, al di là delle convinzioni ultime o delle fedi religiose (proprio quindi delle ideologie). Il cardinal Martini citava qui il dialogo con un altro intellettuale torinese significativo, come Norberto Bobbio. Di fronte al dubbio sull’esistenza stessa della categoria di “non credenti”, Martini sosteneva di essersi “fatto forte di una parola di Norberto Bobbio, che disse un giorno: ‘Per me non ci sono credenti o non credenti, ma solo pensanti o non pensanti’ ”. Tale espressione – divenuta a suo modo piuttosto famosa, anche se filologicamente ci ha fatto ammattire per cercarne la fonte – è rimasta in qualche misura indicazione icastica di un atteggiamento mentale e di una disposizione d’animo originale che reggeva la proposta martiniana (ben più ampiamente che nella iniziativa della Cattedra). Credenti e non credenti si possono insomma intendere sulla base della fiducia nella comunicazione possibile attraverso la parola e la razionalità condivisa.
Suggestiva infine l’ “icona” biblica alla luce della quale – come era solito fare – Martini suggerì di collocare l’inizio del percorso. Era la frase del vecchio Simeone che in Lc 2,34 profetizzava a Maria, nel contesto della presentazione di Gesù al tempio: “A te una spada trapasserà l’anima, affinché siano rivelati i pensieri di molti cuori”. Il cuore trafitto è qui simbolo della forza dell’amore di Dio che scuote profondamente, che fa emergere la capacità di “esprimere tante cose che abbiamo dentro, oppure ci fa consentire o dissentire da chi le esprime, e ci mette in subbuglio”. Questa ferita, principio di conoscenza, ha a che fare con la precedenza dell’amore rispetto alla fede, e in qualche modo evoca la trafittura del costato di Cristo sulla Croce. In questa linea, si può rileggere anche la ricchezza teologica dell’intuizione martiniana.
GUIDO FORMIGONI