“Dicevano che era un prete” / Atti del convegno (3)
Con don Carlo, abbiamo patito una grande sconfitta all’interno della Gioventù di Azione cattolica, ma quella sconfitta ci ha orientato nella nostra esperienza di giovani lavoratori cristiani.
Negli anni Cinquanta, il nodo che divideva l’Azione cattolica era la questione delle forme della collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa. All’interno della Gioventù cattolica la suddivisione era molto rigida, per età: fino a 12 anni si era aspiranti, dopo juniores e poi seniores. Su questo tipo di organizzazione si è combattuto parecchio all’interno della Gioventù cattolica, dato che alcuni avrebbero voluto creare una suddivisione basata sugli ambienti di vita, quindi creando gruppi formati da operai, da studenti o da professionisti.
Su questo “altare” della divisione delle categorie sono caduti prima don Esterino Bosco, cappellano del lavoro, e poi Domenico Sereno Regis, un militante laico, entrambi di Torino, chiamati a Roma per collaborare al centro nazionale della Giac e poi rispediti a casa nel giro di pochi mesi dato che non condividevano la linea di Luigi Gedda, presidente centrale dell’Unione uomini dell’Azione cattolica. Bosco e Sereno Regis volevano creare la Gioventù operaia cristiana all’interno della Giac. Il “mitico” Carlo Carretto, intenzionato a introdurre nell’associazione questa trasformazione, nel 1952 è spinto a dimettersi dall’incarico di presidente della Gioventù cattolica. La stessa sorte toccò nel 1954 al suo successore alla guida della Giac, Mario Rossi, anche lui un personaggio di notevoli capacità. La ragione era legata al timore che era molto presente nella Chiesa italiana di introdurre una divisione di “classe” nell’Azione cattolica, con gli operai da una parte, gli studenti dall’altra, i liberi professionisti dall’altra ancora.
Fra l’altro la parola “operaio”, per molti cattolici, era considerata con grande sospetto. I gruppi di operai dell’Azione cattolica non piacevano molto, anche perché lì si parlava di fatti concreti e invece nella Chiesa bisogna sempre parlare dalla Madonna in su…
Ho conosciuto Carlo Carlevaris, intorno al 1955, e fu lui a venirmi a cercare. Nella mia parrocchia, c’era un piccolo gruppo di operai con i quali discutevamo dei nostri problemi. Lui sapeva questo e un giorno mi ha convocato. Sono rimasto colpito da come mi ha presentato l’esperienza della Joc, la Jeunesse ouvrière chrétienne, e soprattutto il fondatore della Joc, Joseph Cardijn, un prete figlio di un minatore: mi aveva raccontato non tanto la sua vita, quanto la sua grande intuizione. Cardijn diceva:
«Le persone colte come noi ragionano attraverso le idee, noi parliamo di idee».
Per questo il metodo proposto ai giovani lavoratori era “vedere, giudicare, agire”. Gli operai invece parlano di fatti, non di idee: di fatti. Anche don Carlo era convinto che noi dovevamo andare verso Gesù attraverso i fatti e non attraverso le idee. Dunque, il cristiano doveva vedere, giudicare e agire.
Posso allora raccontare di don Carlo attraverso il sistema della Gioc, cioè quello dei fatti e non quello delle idee.
Esprimo con due parole quello che era don Carlo: umiltà e fede.
La prima parola è “umiltà”. Durante la collaborazione con Don Carlo, che nasce appunto intorno al 1955, fui nominato delegato diocesano del Movimento lavoratori della Giac (chiamato non a caso Movimento “lavoratori” e non “operaio”). Intanto mi ero sposato e avevo qualche difficoltà a proseguire l’impegno immediatamente dopo il matrimonio. Anche perché avevamo fatto un buon fidanzamento, avevamo imparato bene il mestiere degli innamorati, ma non avevamo capito che il mestiere di sposati è un’altra cosa, è un altro mestiere: è proprio qualcosa di assolutamente diverso. E siccome in quegli anni i preti sapevano tutto e davano consigli su tutto, io mi ero rivolto al prete che conoscevo meglio, vale a dire don Carlo Carlevaris, perché mi dicesse qualcosa.
Lui mi disse:
«Guarda, la mia famiglia di riferimento sono altri preti: io vivo in una piccola comunità di cappellani del lavoro. Io non capisco niente di quei problemi. Tu dovresti consultarti per esempio con persone anziane, per esempio con mia madre».
E fu in quella occasione che conobbi la madre di Carlo. Poi io e mia moglie siamo stati sposati sessant’anni: insomma, abbiamo superato queste difficoltà.
Una seconda parola che mi permette di raccontare don Carlo è “fede”.
Il centro diocesano del Movimento lavoratori della Gioventù cattolica era formato da una dozzina di operai che si incontravano tutti i lunedì sera, presso la sede dei cappellani del lavoro, in via Vittorio Amedeo 16, al pian terreno, in una saletta a sinistra. Si parlava insieme a Carlo e poi ci si raccontava vicendevolmente come andare a operare nelle singole parrocchie, se eravamo riusciti a fare un gruppo per la revisione di vita, e altro. Una sera uno dei dodici voleva proporre che la Chiesa desse la possibilità ad alcune famiglie di tenere l’ostia consacrata in casa. E in quella occasione ognuno parlò, dicendo la propria opinione. Carlo ascoltava molto, sapeva molto ascoltare: questo è raro. A un certo punto lo sollecitammo a intervenire e ci disse: «All’interno della famiglia abbiamo già la presenza di Gesù: sono i nostri fratelli, le sorelle, i papà, le mamme, i vicini di casa; in fabbrica sono poi i compagni di lavoro. Non vi siete fissati l’obiettivo che i compagni di lavoro devono essere a proprio agio quando ognuno di voi è presente?».
Un altro punto di sconfitta arrivò tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta dal Sant’Uffizio. Anche per interventi dalla curia vaticana Carlevaris fu infatti invitato ad abbandonare l’incarico di assistente diocesano dei lavoratori della Gioventù cattolica e poi l’assistenza agli operai in alcuni stabilimenti della Fiat. Lui ci disse che questo era uno dei segnali della presenza certa di Gesù all’interno della Chiesa: perché, nonostante tutto, la Chiesa continuava ad andare avanti. Per don Carlo, dovevamo continuare ad andare avanti e dare fiducia alla Chiesa. Era un profeta. Una sera discutevamo del papa: tenete conto che il papa a quel tempo era un mito, soprattutto per la Gioventù cattolica che lo considerava la guida, la meta, la luce della Gioventù cattolica. Un canto indicava ai giovani il papa come supremo pastore e giudice, un buon pastore, una sorta di “vice” del Pastore supremo, insomma. Si discuteva di tutto, anche dell’infallibilità del papa…
Don Carlo ci diceva che dovevamo imparare ad accogliere sempre gli aspetti positivi, tutti i giorni e in ogni situazione. Nell’Italia degli anni intorno al 1968 e al 1969, la nostra piattaforma rivendicativa sindacale era la parità normativa tra operai e impiegati: era una posizione che avevamo in comune con Carlevaris da sempre. Io presentai nella mia officina alla Fiat questa mozione e venni duramente contestato, soprattutto da parte degli operai che studiavano: sostenevano che stavano facendo un sacco di sacrifici e che stavano spendendo soldi come studenti per diventare impiegati; con la nostra proposta, sarebbero rimasti uguali agli operai. Stavamo impegnandoci molto per questa lotta, ma molti operai pensavano esattamente il contrario. Mi confidavo con don Carlo e gli dicevo: «Pensa fino a che punto è arrivato l’egoismo». Carlevaris ribatteva: «Tu sbagli profondamente: questo non è egoismo ma ingenuità. È amore verso i propri figli: li immaginano sistemati in una posizione la più alta possibile».
Ricordo questi fatti che non sono del tutto collegati. Alla fine, però, quello che abbiamo capito con don Carlo è che dobbiamo continuare a voler bene agli uomini.