Condizioni di lavoro
I miei giorni svaniscono in fumo
le mie forze si consumano come brace.
(Salmo 102, 4)
Da circa un anno e mezzo lavoro in una piccola fonderia di ottone. Quindici operai, tre padroni, padre e due figli. Si producono parti di impianti idraulici e sanitari, parti di macchine enologiche e da caffé.
La domanda di queste produzioni è in continuo aumento, ma il numero degli operai è sempre lo stesso. Aumentano invece gli investimenti in nuovi macchinari, e soprattutto aumentano i ritmi di lavoro e la richiesta di lavoro straordinario.
Il lavoro straordinario è quasi un obbligo: mezz’ora, un’ora, due ore in più al giorno, 4-5 ore al sabato… spesso non vengono risparmiati neanche i giorni festivi.
Le condizioni di lavoro sono assai disagiate, specialmente per chi lavora ai forni: fatica, calore, gas, rumore rendono il lavoro molto duro.
Mi ritengo fortunato di non lavorare nel capannone della fusione ma in un reparto separato denominato “finitura” dove, con altri due operai, ripuliamo i pezzi fusi dalle “colate” e “materozze”, lavorando ad una segatrice a nastro.
Ma il rumore della lama è assordante per cui devo proteggere l’udito con cuffia o tappi. Devo proteggere gli occhi dalle schegge di metallo con appositi occhiali. E dovrei anche usare la mascherina per non respirare la polvere sollevata dalla lama…
In fabbrica non esiste sindacato, non esiste la minima coscienza sindacale, neanche la minima conoscenza dei propri diritti. Si conoscono solo i doveri, che puntualmente vengono fatti rispettare, pena il licenziamento.
L’operaio, durante l’orario di lavoro, non dispone di se stesso, non ha nessuna autonomia di decisione, è in balia del padrone, da cui molto spesso non è neanche rispettato come persona.
Un operaio mi ha detto un giorno in tutta confidenza: «Qui siamo come degli schiavi».
Per la loro avidità
non è sufficiente la terra,
per la loro ingordigia
non basta il cielo.
(Salmo 73,9)
Turi è arrivato da due mesi. Direttamente dalla Calabria. È il suo primo lavoro. Ha 21 anni. L’inesperienza e il bisogno assoluto di lavorare (è già sposato) lo rendono ancor più timoroso di perdere il posto. Dopo i primi giorni di ambientamento al forno, si è sentito dire: «L’operaio che era prima al tuo posto faceva 700 pezzi al giorno. Devi arrivarci anche tu!».
Turi, che faticava già molto fondendo 500 pezzi, si sente smarrito. Inizia allora una corsa spasmodica per arrivare a quella cifra. Comincia a lavorare dieci minuti prima, non perde un minuto durante tutta la giornata… Dopo alcuni giorni di estenuante rincorsa, è arrivato ad eguagliare il livello di produttività del suo fantomatico predecessore. Si sente ancora dire: «Se tu riesci a produrre più di 700 pezzi al giorno, ti diamo un tanto al pezzo». Quello, naturalmente, non può essere insensibile a questa proposta, date le sue necessità e dato il salario molto basso…
In questo modo si determinano gli standard giornalieri di produttività per i singoli pezzi. Ciascun operaio alla sera deve scrivere su una scheda personale il numero di pezzi che ha prodotto durante la giornata.
In questo modo si fissano i ritmi di lavoro. Che non sono rigidi. Possono essere cambiati. Ma sempre e solo verso l’alto.
La mia vita si trascina nei tormenti
sento disfarsi anche le mie ossa.
(Salmo 31,11)
Francesco era partito per Assisi con la moglie. Andavano a rendere grazie a San Francesco per lo scampato pericolo dei mesi scorsi. Ma in autostrada ha avuto un’altra crisi cardiaca. Fortunatamente è riuscito a fermarsi in tempo, evitando un nuovo incidente. Ora -è in coma all’ospedale di Bologna. Ha 46 anni.
È venuto dalla Sicilia giovanissimo. Lavora al forno da circa 25 anni. Si può dire che si è ammazzato di lavoro. Dieci ore al giorno, compreso il sabato, qualche volta anche la domenica. La necessità della famiglia, i figli, la casa da pagare… e poi le esigenze dell’azienda: «Hanno tanto lavoro. Non si può dire di no…».
E il suo cuore ha ceduto. Il lavoro al forno mina il fisico lentamente ma inesorabilmente. Non è soltanto l’ambiente esterno malsano che danneggia la persona, ma anche la continua tensione che viene creata per l’assillo della produzione, che deve sempre essere aumentata in quantità, salvaguardando naturalmente la qualità.
Uno è considerato più macchina che uomo.
Ci hai provati nel fuoco come l’argento
ci hai lasciati cadere nella rete
ci hai messo una spina nel fianco
abbiamo affrontato l’acqua e il fuoco.
(Salmo 66, 10-12)
In una settimana abbiamo avuto tre infortuni.
Due ai forni: Leo si è scottato un piede e Gianfranco una mano. Vincenzo si è schiacciato l’indice alla tranciatrice, l’infortunio più grave: è stato operato e difficilmente recupererà al 100% l’efficienza del dito. Ebbene: nessuno di questi infortuni è stato dichiarato all’INAIL. Gli operai sono in malattia. Anche Vincenzo, accompagnato al pronto soccorso, ha dovuto dichiarare di essersi fatto male col motorino mentre si recava al lavoro.
Leggo che le statistiche parlano di un. aumento vertiginoso, fino al 50%, degli infortuni sul lavoro e dei cosiddetti “omicidi bianchi”. Ma quanti sono in realtà, se nelle piccole aziende c’è questa facilità di ingannare i lavoratori e gli istituti di assistenza?
Gli arroganti mi preparano trappole
mi tendono corde e reti
nascondono un laccio sulla mia strada.
(Salmo 140, 6)
Dopo aver lavorato dodici anni in una fabbrica sindacalizzata, avendone condiviso lotte, ideali, partecipazione sociale, è molto duro lavorare in una fabbrica dove il sindacato non è mai entrato. Sembra davvero di fare un salto nella preistoria. Qui sembra mancare addirittura il senso della propria dignità. Quando si subisce passivamente l’umiliazione, quando non ci si ribella di fronte ad un insulto, ad una grave mancanza di rispetto alla propria persona… non c’è più solo la svendita del proprio lavoro, ma anche della propria dignità.
Manca la conoscenza e quindi la coscienza dei propri diritti: salario, ferie, festività, infortuni, malattia: le uniche informazioni sono quelle fornite dai comunicati dell’azienda. Non c’è coscienza collettiva: ognuno ha un suo contratto individuale che non deve far conoscere agli altri.
È molto difficile in queste condizioni l’emergere di una solidarietà operaia, quando tutto concorre a impedirla e a mettere l’uno contro l’altro. Guai se più di due operai si fanno trovare a parlare tra loro, anche fuori dell’orario di lavoro. Ad arte si cerca di fomentare le discordie, gli antagonismi, le invidie, i pettegolezzi.
I miei avversari dicono il falso
le loro intenzioni sono maligne.
La loro bocca è una trappola
che attira con dolci parole.
(Salmo 5, 10)
Mi disse il giorno della mia assunzione: “Tra noi c’è anche amicizia”. In quel momento mi sono ingenuamente illuso di essere capitato in un azienda dove i rapporti umani erano tenuti in considerazione… forse avevo trovato il “capitalismo dal volto umano”.
Ho capito ben presto di che tipo di amicizia si trattava. In genere tratta tutti confidenzialmente, per poter comandare, rimproverare, insultare con la massima libertà, senza minimamente preoccuparsi del rispetto per le persone.
Con alcuni, specie con i più deboli, con chi non ha famiglia, stringe un legame più stretto, coinvolgendoli anche nel tempo libero, entrando nella loro vita privata. Tutto ciò col risultato che questi non possono quasi più disporre della loro vita privata, sono sempre disponibili, prolungano il lavoro fino a tarda sera… Inoltre, tramite questi “operai amici”, il padrone ha il controllo del clima che c’è in fabbrica, di ciò che pensano e dicono gli altri operai, in sostanza ha in mano uno strumento di divisione degli operai.
Perchè guardi l’opera dei malvagi
e non dici niente?
(Abacuc 1, 13)
Oggi non è più di moda parlare contro il capitalismo.
E il sistema vincente, appare come l’unica prospettiva possibile per l’umanità. Eppure in questa piccola azienda che, vista da fuori, sembrerebbe una “fabbrica a misura d’uomo”, proprio qui ho conosciuto il volto più brutto del capitalismo, il rapporto di sfruttamento più brutale, dove l’operaio è solo e indifeso e il padrone può dominare senza freni e senza remore.
Ed è proprio questa situazione, oserei dire “estrema”, che mi ha fatto considerare “l’ingiustizia permanente del capitalismo”. Innanzitutto l’alienazione del lavoro. Il lavoratore vende l’opera delle proprie mani, delle proprie braccia, separandola dalla propria persona, dalla propria capacità intellettiva, creativa, dalla propria volontà e libertà. Il lavoro cessa di essere “fonte di conoscenza e relazione dell’uomo con la realtà dell’universo” (A. Paoli). Da questa “svendita” il lavoratore ricava a mala pena i mezzi di sussistenza, ma si impoverisce sempre più come persona: il capitale si impingua a dismisura.
Se si aggiunge il sistematico disprezzo per la persona umana e la sua dignità, il clima di irrisione e di intimidazione, la manipolazione culturale, la mancanza di libertà… ci si rende conto a quale dio Moloch l’umanità stia sacrificando i suoi figli…
Ma di questa situazione ormai più nessuno parla. Anzi sembra che nessuno più ne abbia coscienza. Addirittura tutto questo viene chiamato libertà, democrazia, benessere!
Ciò che più spiace è che la Chiesa stessa, che dovrebbe essere “Luce delle genti”, non leva la sua voce contro l’ingiustizia. Prigioniera di questo sistema, che ha fatto proprio culturalmente, politicamente ed economicamente, non è libera di dire la verità, di denunciarne le ingiustizie. Insensibile al grido degli oppressi, non condanna gli oppressori, mentre spesso condanna chi impegna la propria vita per la difesa degli oppressi.
Ripiegata su se stessa, non rende un servizio all’umanità con una denuncia chiara e concreta, con l’annuncio profetico (parola + azione) che il capitalismo deve finire, deve essere superato, che gli oppressi devono essere liberati, che ai popoli che muoiono per lo sfruttamento dei ricchi deve essere riconosciuto il diritto a vivere non da padroni né da schiavi, ma liberi e in fraternità.