Pentecoste 1991
Convegno nazionale dei PO francesi

 

I PRETIOPERAI “INSOUMIS” (1954)
intervengono per la prima volta (1991)
al Convegno Nazionale dei PO francesi

 

A mo’ di presentazione

Tra gli “insoumis”(= non sottomessi) del ’54 si è costituito a poco a poco un gruppo. Gruppo informale che dal 1956 non ha smesso di riunirsi per mettere in comune, durante questi lunghi anni, ciò che era l’essenziale per ognuno.
Un buon numero di noi hanno terminato il loro percorso. Quelli che restano sono diventati altri.
È vero che noi non riflettiamo più in termini di chiesa, di sacerdozio, di ministero, e neppure di missione.
Questa immagine multipla che è potuta restare di noi nella gente, noi non cerchiamo né di distruggerla, né di farla dimenticare. A che scopo, del resto?
Non si tratta né di rimpianto, né di disprezzo, né di negazione. È solo un superamento, il bisogno di un altrove… Questa ricerca di un altrove dove sono e vanno gli uomini. Questa strada che ci ha aperto la classe operaia e che essa ha aperto pure agli uomini di oggi…
Gesù resta per noi questa via, poiché egli è verità e vita. Con tutta la sua forza di silenzio e di accoglienza.
Meno frutto di riflessione critica che di bilancio di vita. Non naufragio, ma navigazione di lungo corso.

 

Dopo 40 anni si impone un lucido bilancio…

Abbiamo accettato il vostro invito e ve ne ringraziamo con questo intervento. Vorrebbe essere un contributo alla riflessione comune.
Noi non abbiamo più una missione da 37 anni; il nostro angolo di vista è dunque diverso e siamo diventati altri. La nostra ricerca è piuttosto spirituale, non è missionaria. Esprimiamo così questa differenza in tutta franchezza e libertà.
Siamo legati alla tradizione cristiana come veicolo storico dell’evangelo che essa ha portato fino a noi e che permette di ritrovare il messaggio di Gesù prima che fosse sepolto sotto i diversi strati della storia, delle interpretazioni e delle definizioni teologiche.
La nostra epoca contemporanea vive un momento formidabile della storia umana nel quale gli imperi cadono, le sintesi culturali più elaborate si destrutturano, le ideologie tradizionali sono rifiutate, mentre nello stesso tempo gli arcaismi riprendono forza come rifugio e forza unificante degli individui e anche dei popoli disorientati.
Coloro che conoscono l’evangelo, che vivono del dinamismo spirituale dei suoi valori che vorrebbero poter condividere sui cammini della speranza, bisogna che comprendano senza ansietà che si sta producendo una rottura culturale definitiva tra le sintesi elaborate dal cristianesimo con le culture occidentali passate e le generazioni attrici della storia attuale del mondo. Per cui non è più questo il tempo per l’affermazione più o meno trionfante di un cristianesimo troppo sicuro di sé sotto le sue forme acquisite e istituzionali.
Non che si debba fare “tabula rasa” di certe sintesi riuscite della cultura umana che hanno arricchito la tradizione e che possono ispirare quelle a venire; a condizione però che ogni sintesi si riconosca provvisoria per non intralciare lo sbocciare della seguente, dal momento che la storia del mondo non è mai finita.
Data l’abitudine che noi abbiamo di ragionare e di credere basandoci sui fondamenti dogmatici immutabili della Chiesa, ammessi da una tradizione di routine esclusiva, noi non osiamo andare al fondo delle questioni, là dove si comincia a rimettere in discussione, là dove si ascoltano le domande degli “altri”. E perfino ciò che chiamiamo i nostri dubbi o le nostre incertezze non sono forse formulati in riferimento ai nostri schemi di certezze?
Abbiamo il coraggio di interpellare la Chiesa faccia a faccia sulle sue sintesi teologiche e morali elaborate nel corso dei tempi culturali di società religiose passate e che sono inaccettabili oggi? (in modo particolare dalle nuove generazioni).
Abbiamo il coraggio di rifiutare le sue illusorie pretese di essere detentrice della Verità universale per cui può sacralizzare le sue affermazioni perentorie?
Abbiamo il coraggio di denunciare il suo carattere autoritario e la sua sufficienza dottrinale che neutralizzano la libertà di ricerche etiche o teologiche, impedendo qualsiasi reinterpretazione inventiva della tradizione e bloccando l’evangelo nella sua capacità attuale di fermento?
Al termine di 40 anni di tentativi missionari nella classe operaia, condotti a colpi di vite generose, di riflessione in cui ci si è giovati delle scienze umane, al termine di un tale investimento di ragione e di fede, non si impone forse un lucido bilancìo per illuminare la virtù della fedeltà? Certo la qualità degli impegni umani non si può quantificare e nulla va perduto del capitale di amore e di santità versato sul mondo; ma per il resto che dipende dalle analisi più avanzate, non ci si è forse fissati su degli schemi non solo impropri alla lucida valutazione dei punti di resistenza, ma anche tali da confondere i messaggi che emettono?
Alcuni anni fa facevamo un bilancio delle nostre vite ed evocavamo, per esprimere una certa nostalgia, il titolo di una canzone di Charles Trenet “Che cosa resta dei nostri amori» per i quali abbiamo impegnato le nostre vite: classe operaia e Missione?

 

Cosa resta della classe operaia?

Che cosa resta della classe operaia che abbiamo amato finanche nella sua ideologia confusa con la sua cultura e che descrivevamo volentieri come una terra di accoglienza favorevole a ricevere l’evangelo? Quella ideologia che è stata spazzata via nel crollo dei suoi dogmi come da un ciclone.
Della classe operaia resta la classe operaia, evidentemente con i suoi problemi.
Resta anche ciò che il marxismo per primo ha insegnato esplicitamente alla storia e ha insegnato a noi, prima di irrigidirsi in sistema totalitario: la liberazione degli oppressi dal loro stato di sottomissione e di umiliazione dipende da loro stessi e dalla loro lotta dopo l’analisi dei fattori di alienazione e di sfruttamento. La rassegnazione non è più una virtù, l’uomo è un agente della storia. Questo aspetto della fede nell’uomo è un punto fermo della coscienza moderna introdotto dalla classe operaia e che essa ci ha insegnato. Questa fede nell’uomo dà una nuova dimensione alla preferenza evangelica per i poveri. Questa presa di coscienza si è propagata attraverso i popoli del mondo e al di là della classe operaia, nell’insieme delle società democratiche.
La cosa inquietante sarebbe che questa coscienza regredisse in certi paesi in fanatismo religioso di tipo arcaico in seguito ai fallimenti ideologici, politici, economici e sociali. In seguito anche alle frustrazioni causate dal dominio economico e tecnologico mantenuto dal capitalismo selvaggio.
In Francia, il crollo ideologico che indebolisce la classe operaia richiama ad un ritorno alle sorgenti della sua coscienza e della sua cultura per evitare il rischio di una rivoluzione populista di ispirazione fascista. Per questo occorrerebbe che la classe operaia, liberata decisamente dalle pesantezze passate, potesse ritrovare la sua unità, un ruolo meno marginale (meno operaista) e una nuova forza di lotta in una società che si trasforma. Ma è il difficile e grande compito del sindacalismo tradizionale o dì quello da inventare.

 

Cosa resta della “missione”?

Che cosa resta del nostro sogno di trasmettere il messaggio cristiano in nome della Chiesa dentro questa classe operaia scristianizzata?
Questo messaggio talmente avviluppato ad un’ideologia istituzionale essa pure dogmatica, che lo si crederebbe diventato il linguaggio di un gruppo particolare. Per cui si pone la domanda: questo messaggio è almeno utilizzabile e comprensibile al di fuori delle riunioni di famiglia?
Dunque, che cosa resta?
Ciò che resta, ci sembra, è l’immenso arricchimento che ha potuto risultare da questo incontro storico moderno che si è prodotto tra la cultura cristiana e la cultura operaia detta “atea”, che si sono scambiate in qualche modo i loro valori propri, la loro maniera di credere, senza per questo confondersi. Quelli che hanno vissuto i primi tempi di questo incontro ne hanno presentito, attraverso i rischi, le promesse qualora tale incontro si fosse continuato nella libertà e nella gratuità del dinamismo dell’evangelo. Inoltre questo incontro sembra proprio che sia stato come una prefigurazione di ciò che deve essere l’incontro di una fede cristiana con la cultura moderna che fa vivere e interrogarsi uomini e donne di oggi.
Infatti ciò che resta è evidentemente l’evangelo, ma come noi lo sentiamo da tanto tempo, allo stato di germe, nella sua capacità spirituale di accoglienza e di assorbimento delle sostanze vitali che gli offre il contesto umano attuale, come un nuovo humus.
Che ne sarà del germe dell’evangelo che è stato piantato qua e là da tutti noi e da altri nella sua radicalità originale, come una esigenza di amore e di giustizia spoglia delle interpretazioni elaborate sotto forma di verità assolute, di dottrina o di dogma? Che ne sarà di questo germe nelle terre culturali del nostro tempo, sotto le piogge fecondanti o acide di oggi? Non lo sappiamo. Forse non sappiamo riconoscere il nuovo germoglio già spuntato, talmente siamo inclini a voler riprodurre la copia dei nostri schemi passati. Nel fenomeno di osmosi che si verifica in una germinazione, l’influenza degli elementi in contatto è reciproca e i risultati esatti dell’interazione sono imprevedibili. Sappiamo accettare che la germinazione sia inedita perché la “rivelazione” degli altri aggiunge qualcosa alla “Rivelazione” tradizionale che è la sola riconosciuta? Germinazione in forma di chiesa o no? in quale forma? È vero che la questione della struttura si pone.
Sappiamo accettare che gli interrogativi radicali degli uomini, formulati oggi in termini culturali nuovi, aprano un’era spirituale nuova su dei territori “religiosi” definiti in altro modo, tenendo conto maggiormente della complementarietà e dell’evoluzione delle culture?
È un modo di praticare la fede, l’amore e la disponibilità anche quello di non prevedere in anticipo il tracciato e la forma della nostra speranza, impegnati come siamo assieme a tutti i nostri contemporanei nella stessa ricerca e negli stessi rischi della storia umana.
Si tratta dunque anche di un’esigenza critica nei riguardi di ogni dogmatismo che chiude questa storia e impedisce di aprire lo spazio.
Quando si parla dell’evangelo come di un germe di semplice esigenza di amore e di giustizia è per purificarlo, non certo per ridurlo alla dimensione di una rivendicazione sindacale del resto molto importante. È per distillarlo nella sua capacità essenziale di accoglienza e nella sua forza potenziale di crescita inedita futura verso forme diverse di realizzazioni storiche. È una fede nell’uomo.
È infine una maniera di credere e di sperare nella promessa che questo germe di giustizia e di amore porta in sé non solo la capacità di germogliare qui e ora, ma anche quella del suo prolungamento possibile di un’altra natura verso il mistero infinito del suo compimento.
Il “regno” è già qui in noi e attorno a noi e tuttavia esso non è di questo mondo.

(Traduzione del testo scritto del loro intervento autorizzata dagli autori)


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