Condizioni di lavoro
Nocività all’ossitaglio
(dal n° 3 / 19 dicembre 1988)
Sono anni che l’operaio addetto all’ossitaglio denuncia le precarie condizioni di lavoro che è costretto a subire: deve lavorare in un ambiente che è polveroso non solo a causa dell’ossitaglio (una macchina che taglia mediante la fiamma ossidrica pezzi di grosse dimensioni); infatti, a fianco di questa lavorazione c’è anche lo scriccatoio, dove un operaio elimina le crepe dai pezzi usando il cannello a carboncino. .
Di queste due lavorazioni ne sanno qualcosa gli operai della fonderia: oltre ad essere fortemente nocive per il rumore, i lampi accecanti, la polvere e il fumo che sprigionano, la loro nocività viene aggravata non poco dal fatto che sono l’una molto vicina all’altra.
Aggiungiamo che la cabina dietro la quale poteva ripararsi l’operatore dell’ossitaglio è ormai praticamente sfasciata (vedere per credere!): doveva essere una cabina con doppi vetri, e quindi anche con un minimo di riparo anche acustico, oltre che termico: resta invece una piccola baracchetta con solo una rete di protezione per i lampi della fiamma.
Noi vorremmo che i responsabili del consiglio di fabbrica (Cdf) accompagnino in quest’angolo della forgia il dirigente aziendale incaricato dell’ambiente, restando lì con lui almeno qualche minuto per vedere funzionare contemporaneamente scriccatoio e ossitaglio…
Poi siamo certi che provvederà… O no?
Infortuni e non-prevenzione
(dal n° 3 / 19 dicembre 1988)
“Fatalità, disattenzione, negligenza, disgrazia”: queste sono le spiegazioni che i padroni danno quando succede qualche infortunio. Questo hanno ripetuto ancora dopo l’ultimo infortunio grave, capitato poche settimane fa nell’area vicina alla nostra: lasciare una mano dentro la fune che sta sollevando un carico, è un rischio che tanti corrono tutti i giorni, ma che a Ismail Matouk è costato quattro dita fracassate (“ricostruite” poi dopo oltre due ore di intervento chirurgico: ma certamente non funzioneranno più come prima!).
Chissà quanti di noi si sono detti: poteva capitare anche a me, basta una distrazione…
Nel caso di Ismail l’infortunio era certamente evitabile se la gru avesse avuto il sollevamento lento.
Un’azienda che vuole seriamente prevenire infortuni come questi avrebbe dovuto da anni sistemare anche questa gru: ma si sa, è la solita questione di risparmiare sulla pelle degli operai: fin che la gru va, lasciala andà…
Solo dopo l’infortunio, la direzione ha pensato di modificare il sollevamento di quella gru: troppo tardi, comunque, questa misura “preventiva” per le dita di Ismail!
Mobilità sulla nostra pelle
(dal n° 5 / 17 aprile 1989)
Lunedì ‘27 febbraio il nostro compagno di lavoro Rino Camarca è rimasto vittima di un grave infortunio. La responsabilità dell’azienda, anche in questo caso, è evidente.
Alla pressa 1300, sotto la pedana scorrevole c’era – ormai da tempo – una lamiera incavata dalla caduta dei pezzi; questa è una conseguenza normale della lavorazione, a cui ogni tanto viene posto rimedio, smontando la pedana e raddrizzando la lamiera. Diversamente, può sempre succedere che qualche operaio in certi momenti della lavorazione finisca con il mettere il piede dentro la buca provocata dall’incavo della lamiera, con il rischio di vederselo tranciare durante lo scorrimento della pedana.
Questo rischio lo conoscevano bene i lavoratori che operavano quotidianamente sull’impianto; stancatisi di ripetere ai capi che, quella lamiera era da raddrizzare, stavano comunque molto attenti a dove mettevano i piedi.
Quel giorno, però, per la prima volta lavorava sulla pressa 1300 la squadra di cui Rino fa parte, che di solito si trova ad operare su un’altra pressa; una mobilità imposta dal nuovo direttore di produzione, in rispetto di accordi sindacali conclusi in nome del maggior utilizzo degli impianti.
È toccato a Rino fare l’esperienza di quell’incavo nella lamiera… e solo la prontezza di riflessi del capopressa e le scarpe antinfortunistiche hanno impedito che gli venisse tranciato il piede. Risultato: frattura di tre dita del piede e 3 punti di sutura.
Dopo l’infortunio, si è provveduto immediatamente a sistemare la lamiera, con il consenso di un rappresentante dell’esecutivo; peccato però che le norme antinfortunistiche impongano di non manomettere gli impianti in attesa dell’intervento dell’autorità giudiziaria…
Antinfortunistica: gru senza freni
(dal n° 5 / 17 aprile 1989)
Sta diventando sempre più “normale” lavorare con gru a cui mancano i freni almeno in una delle tre direzioni di spostamento. Riceviamo e trascriviamo parola per parola da un foglietto che ci ha portato un gruista:,
«Un’altra piccola “toppa” che sarebbe anche ora di rammendare è il funzionamento delle gru. Ormai non ci si fa più caso, la si è presa sottogamba: e questo è un rilievo molto negativo, non solo per chi ci lavora direttamente, ma soprattutto per i responsabili (capisquadra e capireparto).
C’è un proverbio che dice: l’albero si raddrizza quando è giovane. Vogliamo aspettare anche in questo caso che qualcuno rischi la pelle prima di provvedere? Ma perché la vita umana continua a valere meno di una macchina?».
Il pericolo è il nostro mestiere!
(dal n° 6 / 1luglio 1989)
Gli ultimi due “incidenti”, successi appena dopo che i «pezzi grossi” delle Fucine (e cioè addirittura il presidente e l’amministratore delegato) avevano fatto sapere al Cdf che bisognava «rimboccarsi le maniche”.
1° incidente, in forgia: al maglio da 35000, mentre la squadra stava stampando, è caduto dall’alto un bullone con relativo dado (peso totale: circa 10 chili): l’operaio al quale il bullone era diretto ha fatto in tempo a scansarsi perché appena prima gli sono volate davanti al naso due rondellone, del peso di circa un chilo l’una;
2° incidente, alle aste leggere: per la rottura del fine corsa, il gancio della gru è piombato a terra; meno male che sotto non c’era nessuno e che la gru non stava portando nessun carico!
La manutenzione è ormai in condizione di fare solo gli interventi di emergenza. Lavorare alla Breda Fucine è sempre più rischioso. Nel caso di ulteriori incidenti – o peggio di infortuni – invitiamo i lavoratori del reparto interessato a fermarsi in blocco dal lavoro, come ha fatto quel giorno la squadra della forgia, che ha portato per protesta il bullone spezzato nell’ufficio antinfortunistica.
Ai magli, questa volta, la salute è stata difesa
(dal n° 7 / 11 ottobre 1989)
Nel mese di settembre gli operai del maglio 35000 hanno protestato per la grave situazione di pericolo nella quale erano costretti a lavorare: una crepa nella mazza del maglio avanzava di giorno in giorno; la mazza avrebbe potuto rompersi durante la lavorazione, con conseguenze incalcolabili.
Ma per la direzione e per il tecnico rappresentante dell’USL le esigenze della produzione erano più importanti della salute operaia. Secondo loro, infatti, la situazione non era particolarmente grave; bastava tenere la crepa sotto controllo.
Gli operai, però, hanno fatto pressione sul Cdf fin quando sono riusciti a far fermare l’ìmpianto: in gioco c’era la loro pelle, non quella del dirigente o del tecnico dell’USL.
La “testardaggine” degli operai è riuscita a contrastare efficacemente la logica del profitto: a tutto vantaggio della salute degli operai, una volta tanto.
Aria pesante (ma davvero) alle mole
(dal n° 7 / 11 ottobre 1989)
Il responsabile dell’antinfortunistica è stato recentemente chiamato nella campata dei molatori, dove ha potuto prendere visione di una situazione da galera, anzi peggio: nel senso che chi stava lì dentro era peggio che se fosse stato in galera.
Brevemente, il quadro era questo: 6 operai (di cui 3 di un’impresa) stavano contemporaneamente molando a pochi metri l’uno dall’altro; due soli aspiratori funzionanti, di cui uno solo nella giusta posizione; in tutto, almeno dieci lavoratori che respiravano un’aria che sapeva pesantemente di mola, di ferro e di altre sostanze nocive.
Tenendo conto che il peggioramento delle condizioni ambientali sta diventando un fatto normale e che questa situazione è durata una settimana, non è difficile immaginare le conseguenze sulla salute dei lavoratori interessati.