Editoriale
milioni di persone che non si conoscono
nell’interesse di poche persone
che si conoscono ma non si massacrano».
(Céline)
Lo scatenarsi del conflitto nel golfo Persico ci ha fatto precipitare in una oscura angoscia. Ci prende dentro, ci inchioda il pensiero a cui non è consentito volare liberamente, inietta amarezza anche nelle cose più belle della vita. È una spina conficcata. Improvvisamente è diventato evidente che il mondo sta sempre più diventando un villaggio. E in esso «rugge il leone, chi mai non teme?» (Amos 3,8).
Un bombardamento incruento esplode anche nei nostri cervelli: colpisce le speranze e la voglia di vivere, svuota pensieri e parole. È come l’onda lunga di quelli terrificanti che a decine di migliaia si susseguono senza posa scandendo una moderna danza della morte. L’intelligenza rimane sgomenta dinanzi alla barbarie tecnologica. Il pensiero rimane avvilito dalla potenza dei fatti.
Invece mai come in questi momenti il pensiero deve rimanere attivo, rifiutando gli allineamenti ad un sistema che vuole la gente obbediente, passiva, schierata. È importante non alzare bandiera bianca di fronte all’alternativa che si vorrebbe far passare per realistica: se non sei solidale con la forza multinazionale e con il contingente militare italiano allora sei dalla parte del rais Saddam Hussein.
No. L’alternativa è diversa. È l’obiezione di coscienza ad una tale alternativa autoritaria che ha il suo fulcro nella potenza militare e che, come tale, non concede speranze per il futuro, ma solo angoscia.
La scelta che si propone è trasversale ai campi di battaglia. È per gli ebrei che sono bombardati e simultaneamente per i palestinesi dell’Intifada che vengono uccisi ogni giorno. È per la popolazione civile irakena massacrata dalle bombe e simultaneamente per i piloti prigionieri che, pestati, sono ridotti a manichini terrorizzati. Insomma, l’opzione dalla parte delle vittime è l’unica veramente realistica non solo per la coscienza, ma anche per una politica che voglia assumere la sua responsabilità senza necessariamente ricadere nel corto circuito delle soluzioni imposte con la forza, privilegiando invece l’autodeterminazione dei popoli. Una progettazione politica che non parta dalle vittime, tutte le vittime, presenti e potenziali, è inevitabilmente disumana e creatrice di oppressione, anticipazione di guerre.
«Bush e Saddam: tutti e due vogliono la guerra»: diceva uno dei pensieri preparati da bambini e letti ad una marcia della pace alla vigilia dell’esplosione della “tempesta nel deserto”. Tutti sappiamo che se la sabbia del Kuwait fosse sterile come quella del deserto del Sahel non si sarebbe mosso nessun soldato a calpestarla.
In fondo questi due personaggi sono espressione di sistemi di organizzazione del potere finalizzati alla conquista, all’espansione, al dominio, al disprezzo dei più deboli. Quello della superpotenza mondiale più complesso, flessibile, articolato, infiltrante e pervasivo, come scriveva nell’85 il dimissionario ministro della difesa francese J.P. Chévènement: «la colonizzazione americana è più piacevole dell’invasione sovietica. Ma questa è improbabile, mentre quella è all’opera tutti i giorni». Il sistema della potenza regionale irakena è invece più rozzo e primitivo.
In ambedue, tuttavia, l’idolatria della forza, cioè l’esaltazione e l’ostentazione delle capacità distruttive, unite all’indifferenza ed all’irresponsabilità dinanzi agli annientamenti provocati, sono segni di perversione e di inesorabile tendenza all’oppressione. «Il massacro è la forma più radicale di oppressione» (S. Weil).
I Curdi sterminati dai gas forniti dai paesi occidentali sono testimonianze agghiaccianti dei metodi e della determinazione di Hussein. Ma guai a credere che sia lui solo a commettere crimini di guerra. Nel dicembre ‘89 a Panama i militari USA hanno sperimentato armi postatomiche a raggi laser, uccidendo da 4000 a 7000 civili (J. Galtung da “Il Foglio” di Torino, n° 176/1990).
Non esiste guerra senza crimini di guerra. C’è solo il fatto che nella storia solo i perdenti ricevono lo stigma di criminali, mentre i vincitori riservano a se stessi il privilegio di avere sempre ragione e l’onore di essere eroi. Ma questa – si dice – è una guerra dell’ONU ed è un’azione legittima, anzi doverosa in quanto rivolta a stabilire la Legalità Internazionale.
Rimandando all’appello «Contro la guerra, le ragioni del diritto» pubblicato sul Manifesto del 29 gennaio u.s., a cura del Centro di iniziativa giuridica contro la guerra, mi limito a citare uno stralcio:
La guerra – e che quella in atto sia una guerra è ormai unanimemente riconosciuto – viola innanzitutto la Carta dell’ONU, la quale si apre col solenne impegno di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” ed indica, fin dal primo articolo, il fine primario di “mantenere la pace e la sicurezza internazionale” e “conseguire con mezzi pacifici la composizione o la soluzione delle controversie internazionali”.
L’ONU, dunque, non può né fare, né autorizzare la guerra. Può solo intraprendere, in base all’art. 42 del suo Statuto, azioni militari circoscritte dirette a mantenere o ristabilire la pace: queste azioni devono svolgersi sotto il diretto controllo del Consiglio di Sicurezza e con l’ausilio di un Comitato degli stati maggiori cui è affidato l’impiego e il comando delle forze armate. Ma quello che si sta combattendo nel Golfo non è un intervento dell’ONU, bensì una guerra che sfugge interamente al controllo del Consiglio di Sicurezza, che non è neppure stato informato dell’inizio delle ostilità, deciso direttamente dagli USA…
Ciò che differenzia una guerra da un’azione militare dell’ONU è il suo carattere smisurato, sproporzionato, incontrollato, e cioè il fatto che essa punta per sua natura all’annientamento del suo avversario e coinvolge inevitabilmente le popolazioni civili, provocando quelle “indicibili afflizioni” da cui la Carta dell’ONU si è impegnata a salvaguardare l’umanità. L’ONU ha pertanto abdicato ai suoi poteri e alle sue responsabilità.
La risoluzione n° 678, che “autorizza gli stati membri ad usare tutti i mezzi necessari ad attuare la risoluzione 660 e a restaurare la pace” non può certo legittimare la guerra, il cui impedimento rappresenta la ragion d’essere dell’ONU…
Si sa che c’erano due mezzi pacifici e disponibili in alternativa alla guerra: la conferenza internazionale per affrontare e risolvere realisticamente e con giustizia gli annosi problemi dello scacchiere mediorientale e la pressione politica ed economica dell’embargo. Quanto meno dovevano essere provati sino In fondo. L’embargo per produrre effetti esigeva, ovviamente, tempi lunghi. In realtà però l’embargo è stato il tempo necessario per la preparazione e la messa a punto della strategia bellica. Questo è ciò che ha voluto e perseguito la superpotenza mondiale.
La furbizia del mercato è talmente sottile che riesce ad aprire varchi attraverso tutte le frontiere. Nessun muro gli resiste. Non può resistergli per principio perché questo è il dogma di fede che impera nel mondo. Se il mercato è il credo, il profitto è movente e speranza. Ma in tutto questo la storia riserva eventi carichi di tragica ironia.
I marines americani devono ben guardarsi dal mezzo milione di mine “made in USA” seminate sul territorio kuwaitiano, i francesi dai Mirage e dagli Exocet, gli inglesi da…, gli italiani da… Tutti hanno motivo di temere dalle armi prodotte in patria, quelle che “la patria” manda ad affrontare e a distruggere. Solo i tedeschi, almeno per ora, se ne stanno al sicuro, mentre gli israeliani con i loro cartelli avvertono “Achtung! Deutsches Gas!”.
Tutto questo è. terribilmente banale, stupido, ironico. Ma è il mercato. La tragica innocenza del mercato. Dal suo punto di vista tutto è così naturale, senza problemi né interrogativi. Viene in mente una dolorosa profezia di S. Weil: «Stiamo entrando in un’epoca in cui si vedranno in tutti i paesi le più incredibili follie, e sembreranno naturali…».
Degna di passare alla storia è la furbizia dimostrata dal nostro governo per non perdere la poltrona al tavolo dei vincitori e per non fare alcuno sgarro ai padroni d’oltre Atlantico. Mentre i giornali americani ed inglesi titolavano con WAR l’esplosione del conflitto, Andreotti bizantineggiava al parlamento dicendo che l’Italia si accingeva a partecipare ad una operazione di polizia internazionale, non ad una guerra. Così l’articolo 11 della Costituzione che prevede il ripudio della guerra “come mezzo di soluzione delle controversie internazionali” è stato semplicemente ridicolizzato. Occorre un bel fegato sostenere che i bombardamenti dei Tornado italiani non siano atti di guerra. Tra l’altro, in perfetta coerenza il governo italiano richiede a Saddam Hussein il rispetto della convenzione di Ginevra sul trattamento dei “prigionieri di guerra”.
La conclusione è che noi italiani siamo in guerra e non lo siamo allo stesso tempo. È uno tra i molti esempi di come il potere semplicemente disprezzi l’intelligenza ed il buon senso della gente. Possa permettersi di dire che una cosa è bianca e nera allo stesso tempo e pretendere di essere creduto.
Mentre non tollera che il contrammiraglio Muracchia, che ha vissuto dall’interno la vicenda che ha portato alla guerra, sia un uomo e ragioni col buon senso dell’uomo: «Tutto questo si sarebbe potuto forse evitare con un po’ più di saggezza, con una miglior valutazione di quello a cui si sarebbe andati incontro. In sei mesi nel Golfo abbiamo vissuto tutta l’escalation: prima l’embargo, poi i tentativi di mediazione e alla fine lo scoppio delle ostilità. Secondo me si sarebbe dovuti arrivare ad una soluzione pacifica. Chissà se avessimo continuato l’embargo per più tempo…». Dopo aver ricevuto il messaggio del fatto compiuto dell’attacco americano «mi sono chiesto se, in un certo senso, non fossimo stati presi in giro, se non ci avessero coinvolti in un gioco più grande di noi…».
Già, caro contrammiraglio, è proprio la domanda che ci facciamo in tanti: domanda, a quanto pare, molto pericolosa.